Giovedì 6 giugno è uscito per l’editore Quodlibet Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea di Stefano Dal Bianco, un’ampia raccolta di saggi, interventi, autoanalisi, interviste sulla poesia. L’esito è un attraversamento delle questioni fondamentali che hanno riguardato la poesia italiana degli ultimi anni, e non solo: «Una forma rara di testimonianza, che oscilla tra la dedizione al silenzio e la volontà di condivisione del dire, come fa la poesia». Pubblichiamo La questione dello sperimentalismo, intervento inedito tenuto da Stefano Dal Bianco al convegno «La questione dello sperimentalismo. In occasione dei quarant’anni del Gruppo ’63», Palermo-Mondello 27-29 novembre 2003.
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Non posso che parlare di poesia, e non posso che farlo in forma di testimonianza. Per motivi assolutamente contingenti (per esempio: sono nato e ho studiato a Padova, e non a Genova o Bologna) non mi sono mai – più di tanto – occupato, né come critico né come lettore, dei testi della neo-avanguardia italiana. Quando ho incominciato a pensare in che modo avrei potuto contribuire, nel mio piccolo, a questo convegno, l’unica cosa facile, non pretenziosa, che mi è venuta in mente è stata appunto di dare una testimonianza un po’ geografica e un po’ generazionale. Il tema è dunque: Come veniva vissuta la questione dello sperimentalismo da uno che aveva vent’anni a Padova nel 1981?
I primi anni Ottanta sono gli anni di gestazione dei poeti della mia generazione. Le esperienze fatte in quel periodo sono fondamentali, credo, per tutti noi, e non sono anni insignificanti. Ricordo che c’era il boom del festival di «MilanoPoesia», organizzato da Antonio Porta e dalla Cooperativa Intrapresa, che dava ampio spazio ad autori “sperimentali”; ricordo che «Alfabeta» si trovava dappertutto, con tutto ciò che la rivista significava in termini di supporto a una certa area “sperimentale”, sempre tra virgolette. Ma ricordo anche che nel 1980 era uscito Ora serrata retinae di Magrelli, e che dell’84 è la grandiosa svolta “sentimentale” dello stesso Porta con Invasioni (accesissime discussioni padovane al proposito: “Ma che fa? Si è rimbecillito?”). Il contesto era insomma quello di una persistente fascinazione per lo sperimentalismo linguistico. Anche se esistevano segnali, in qualcuno, di un cambiamento di prospettiva radicale, si ragionava comunemente ancora di “eversione linguistica”. Il sottoscritto – per chiarire – stava dalla parte di Joyce e non di Proust, si svenava per Tristan Tzara, Duchamp e Picabia, leggeva e amava più Zanzotto che Penna o Caproni.
Ciò che persisteva, soprattutto, era una visione della poesia come di un “movimento della poesia”, e l’unica poetica reale, recente, ancora attiva ma già storicizzabile in questo senso, era quella del Gruppo ’63. Ci sembrava poi che i poeti della Parola innamorata fossero una sorta di naturale esito dell’avanguardia anni Sessanta. Da un movimento si passava all’altro e noi, più giovani, con questo altro movimento avevamo soprattutto a che fare. Il ‘movimento della poesia’ degli anni Settanta è stato fondamentale perché, tra le altre cose, ha fatto piazza pulita di uno dei due poli della prassi neo-avanguardista: l’ideologia, cosicché l’altro polo sanguinetiano, il linguaggio, si è trovato svincolato e libero di intraprendere le sue derive.
E però non del tutto. Il solo fatto che la poesia degli anni Settanta si autodefinisse come ‘movimento’ la dice lunga sull’atteggiamento mentale della maggior parte di quei poeti. Si poteva insomma liberarsi dei contenuti della politica, ma l’esperienza comune era quella dei gruppi politici della sinistra, con i suoi corollari, per esempio l’“odio di classe”. La rinuncia ai modi della politica era di là da venire: si era passati, non tanto impunemente, dal fare politica al fare poesia, e ciò che si conservava quasi perfettamente in questa trasfusione era, è stato, un atteggiamento reattivo, l’idea dell’operare contro un nemico comune.
Noi siamo venuti dopo. Eravamo infarciti di miti sperimentali sul linguaggio; la nostra esperienza di vita era ancora quella della politica (più blanda, meno violenta), ma avevamo qualche segnale cui aggrapparci, segnali che (come appunto Magrelli e Porta) ci portavano fuori, oltre che dall’ideologia, anche dalla centralità del linguaggio in quanto realtà separata, in quanto imperativo allo sperimentare.
Il passaggio a qualche cosa d’altro, nel corso degli anni Ottanta, è stato durissimo e ovviamente attraversato da pesanti contraddizioni, almeno all’inizio. Si trattava di dire no all’ideologia, no alle sperimentazioni sul linguaggio, e soprattutto alla interrelazione tra i due poli. Si trattava, soprattutto, di riconoscere e assecondare in noi stessi la capacità di non essere reattivi, di non avere nemici nelle generazioni precedenti (fratelli, padri, nonni). Si trattava, altresì, di rinunciare alla difesa costituita dal linguaggio, di farsi insomma attraversare dal linguaggio senza farsene scudo, di parlare a tutti senza preclusioni, di non barare su di sé, di imparare a darsi.
La condizione di inermità di chi scrive era, ed è, fondamentale, cosicché si poteva/doveva dire “io”, ma si doveva anche rinunciare al soggetto forte, quello che si pone al di sopra del suo dire (per esempio adottando forme ironiche), ma anche quello che finge di dimenticarsi di sé per poi operare demiurgicamente sul linguaggio, che è poi un bel modo di non dimenticarsi per niente, sotto l’egida dello stile.
Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Per favore, non dite che siamo intimisti o qualunquisti. Fare politica nella scrittura è per noi cercare di migliorare i rapporti fra gli uomini, e quindi soprattutto cominciare a parlare, soprattutto farsi capire.
Ciò che da qualche anno mi turba è vedere che non tutti i miei coetanei hanno attuato in sé questa disposizione, è il vedere ancora attivo in alcuni il circolo vizioso di ideologia e linguaggio, quando sembra evidente che la scommessa è quella di tornare a una immediatezza del darsi, di regalare al lettore una presenza, non un “magheggio”, non una fumisteria. Non sappiamo più che farcene di queste cose.
In un saggio del 1990, E unibus pluram, David Foster Wallace lancia una delle sue consuete provocazioni: «La prossima avanguardia sarà composta da scrittori capaci di mostrarsi ingenui, sentimentali, melodrammatici». Viene da prenderlo sul serio: per noi si tratta di adoperarsi in direzione di quella empatia con il lettore che ci permetta di migliorare il mondo dei nostri rapporti umani. Per noi si tratta di ricordarsi che la poesia non è niente se non punta anche alla commozione. Questo è il rischio da correre.
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Immagine: J. Jounellis, Senza titolo, Milano 2006.