Il volto e la voce. Contatti tra la saggistica di Umberto Fiori e la filosofia Emmanuel Lévinas

Pubblichiamo un saggio di Matteo Tasca, precedentemente uscito sul n. 21 (2018) di “L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture” (l’intero numero è consultabile qui).

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Nel corso di queste pagine tenterò di mostrare i legami intertestuali e le convergenze filosofiche che permettono di accostare alcuni scritti di Umberto Fiori con l’opera di Emmanuel Lévinas. Tracce del pensiero di Lévinas sono infatti presenti in numerosi scritti nei quali Fiori discute il rapporto tra etica e poesia e riflette sull’incontro/scontro con l’alterità. Dato che proprio la relazione io-altro costituisce una questione centrale per Fiori, il confronto con il filosofo francese risulta essere un’ottima chiave d’accesso alla sua poetica.

 

1. Epifania del volto

Del sistema di pensiero di Lévinas mi interessano soprattutto le riflessioni che si concentrano attorno al tema dell’«epifania del volto», ma per poterlo introdurre sarà necessario presentare una serie di questioni riguardanti la costituzione e le modalità di esperienza del soggetto. Secondo Lévinas il soggetto nasce come spinta egoistica al godimento «che rompe la tranquilla eternità della sua esistenza seminale o uterina per rinchiudersi in una persona»[1]. Il soggetto è dunque, per prima cosa, un essere separato e individuato dai suoi bisogni. Il soggetto non può però trovare soddisfazione restando isolato in sé stesso, ma necessita di oggetti esterni sui quali dirigere la propria intenzionalità ed esercitare il proprio godimento: «l’essenza del bisogno è costituita dalla distanza che si frappone tra l’uomo e il mondo dal quale esso dipende»[2]. Tuttavia il reale non si presta automaticamente all’intenzionalità del soggetto, ma deve essere addomesticato. Seguendo la fenomenologia di Husserl, Lévinas ritiene che questa operazione di addomesticamento avviene per mezzo della rappresentazione, la quale riduce la realtà esteriore, di per sé sottratta al dominio dell’io, ad oggetto sul quale poter esercitare il proprio dominio. Dato che «l’essere esterno si presenta come opera del pensiero che lo riceve»[3] si può dire che, di fatto, la rappresentazione prepara il terreno per ogni successiva attività intenzionale, anche quelle legate alla conoscenza e alla comprensione. Il soggetto finisce così per intrattenere con l’esteriorità una relazione di tipo soggetto-oggetto, ovvero una relazione di possesso che priva la realtà esterna della sua alterità e inafferrabilità. Per questa ragione nella «relazione intenzionale della rappresentazione […] il Medesimo è in relazione con l’Altro, ma in modo tale che l’Altro non vi determini il Medesimo, che sia sempre il Medesimo a determinare l’Altro»[4] (con Medesimo si può intendere il risultato dell’attività di identificazione del soggetto nell’intento di appropriarsi della realtà esterna). L’opera di appropriazione dell’altro da parte dell’io compone una totalità, ovvero uno spazio in cui il soggetto possa sempre identificarsi, una «casa»[5] nella quale poter esercitare il proprio godimento senza il disturbo che proviene dall’altro. Questa condizione comporta però un rischio: «nell’identità del Medesimo a cui lo stesso pensiero aspira come a un riposo, bisognerebbe temere un ebetismo, una fossilizzazione o una pigrizia»[6], sarebbe a dire un automatismo della percezione che non conosce stupefazione.

La totalità all’interno della quale l’io si identifica viene interrotta dall’epifania del volto dell’altro, che irrompe nel mondo del soggetto restando però completamente esterno al suo orizzonte. «L’io non ha scelto e determinato gli Altri, l’io s’imbatte negli Altri»[7]: l’intenzionalità oggettivante non può dirigersi verso il volto dell’altro, e per questo il Medesimo non può costringerlo nella totalità che è la sua casa. L’alterità del volto dell’altro è radicale e inaggirabile poiché non dipende in nessun modo dall’io che la percepisce, ma è completamente autofondata («kath’auto»[8]). «La presenza d’Altri equivale a questa messa in questione del mio indisturbato possesso del mondo»[9].

La relazione tra io e altro non è mai fusionale, ma può esistere solamente se i due termini resteranno separati e «il potere dell’Io non supererà la distanza indicata dall’alterità dell’Altro»[10]. Nel caso contrario, infatti, l’altro sarebbe riassorbito nel Medesimo e cesserebbe di essere altro. Proprio perché tra io e altro resta una distanza invalicabile, la relazione è possibile solo tramite il discorso: «La relazione del Medesimo e dell’Altro […] si dispiega originariamente come discorso nel quale il Medesimo, raccolto nella sua ipseità di “io” – di ente particolare unico ed autoctono – esce da sé»[11]. Non si tratta più di una relazione soggetto-oggetto, bensì una relazione soggetto-soggetto, e assume la forma di «un faccia a faccia»[12] nel quale le due parti, pur restando separate, grazie al linguaggio possono comunque stabilire un rapporto. «Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso»[13]. Il volto è pura auto-espressione, è un significante (nel senso che manda segni) senza significato, ogni sua parola non rimanda a nient’altro che a sé stesso e alla verità della sua presenza.

In questo senso è lecito dire che il volto, frantumando il sistema, si sottrae a qualunque possibilità di concettualizzazione. Ciò significa che la relazione con l’altro non può mai essere una relazione conoscitiva. L’altro infatti è un essere intransitivo e non richiede un’operazione attiva mirata ad attribuirgli un senso, ma costringe il soggetto a una condizione di passività, nella quale si può solo ascoltare il discorso che l’altro ci rivolge e assistere alla sua manifestazione. La conoscenza infatti è concepibile solo all’interno di una relazione soggetto-oggetto, e quindi a patto di restare nella totalità, ma «la relazione con il volto non è conoscenza di un oggetto»[14]. «La concettualizzazione è la generalizzazione principale e il condizionamento dell’oggettività. Oggettività che coincide con l’abolizione della proprietà inalienabile – ciò che presuppone l’epifania dell’Altro»[15]. Del volto dell’altro non ci si appropria come si fa con una nozione o con un sapere, l’altro mantiene irrimediabilmente il suo carattere di trascendenza, nel senso che è definitivamente esterno all’io. In questo senso, l’epifania del volto non assume le caratteristiche dello svelamento, perché non apre a nessuna dimensione di senso ulteriore. Piuttosto sarà il caso di definirla una rivelazione, volendo intendere così un’esperienza autoreferenziale, nel corso della quale chi esprime coincide con ciò che viene espresso, il messaggero è anche il messaggio.

Lévinas specifica più volte il fatto che, nel farsi presente, il volto si manifesta in una condizione di povertà e di nudità estreme. «La trascendenza del volto è, ad un tempo, la sua assenza dal mondo in cui entra, lo sradicamento da un essere, la sua condizione di straniero, di privo di tutto, di proletario. L’estraneità che è libertà è anche l’estraneità-miseria»[16]. Ciò vuol dire che, per essere nudo, l’altro si mostra privo di qualunque ornamento, si espone all’io senza risparmiare nulla di sé, desideroso di stabilire «un rapporto che è al di là della retorica»[17]. Allo stesso tempo l’urgenza dell’interrogazione a cui l’altro mi sottopone mi rende automaticamente – e infinitamente – responsabile nei suoi confronti: alla rivelazione segue il desiderio di «esistere per altri»[18], mettendo così in questione la spinta al godimento che originariamente aveva mosso l’io verso il mondo esterno. In questo senso la responsabilità diventa «il nome severo dell’amore»[19].

Nel portare avanti il suo discorso Lévinas ha il suo idolo polemico nella tradizione filosofica dell’occidente, che è una tradizione fondata sull’ontologia, e che da sempre propugna l’idea di una verità impersonale, scorporata, unica, nella quale «gli enti si riconducono al Neutro dell’idea, dell’essere, del concetto»[20]. Nell’ottica occidentale infatti la conoscenza si colloca su un piano estraneo alla soggettività, a cui l’io deve innalzarsi per prendere parte alla recita di un monologo obiettivo, che non necessita di altri interlocutori. L’ontologia altro non è che una egologia nella quale il soggetto, misconoscendo il limite che gli verrebbe imposto dall’altro, finisce per assegnare un carattere anonimo, e per questo oggettivo, al proprio discorso. In questo modo il sapere assume una forma monologica, e mira a istituire una totalità impersonale a cui l’altro non può accedere, se non a patto di venire addomesticato e determinato dal Medesimo, ovvero se non dopo essere stato privato della sua alterità. Infatti «per noi europei – spiega Lévinas nel corso di un’intervista – […] in ogni momento l’essenziale è avvicinarsi all’unità, l’essenziale è la fusione»[21].

Tuttavia, dato che qualunque discorso non può che appartenere a delle coscienze individuate, di fatto quello del sapere oggettivo non è che un mito occidentale che si traduce in delle «filosofie della violenza»[22], con aspirazioni alla «potenza, al dominio imperialista, alla tirannia»[23]. Contro una simile impostazione Lévinas avanza una proposta basata sull’etica come filosofia prima, nella quale «il volto, in opposizione all’ontologia contemporanea, introduce una nozione di verità che non è lo svelamento di un Neutro impersonale»[24]. Per Lévinas non è giustificabile il fatto che l’io proietti il suo mondo interiore su un piano impersonale, ma è necessario ricalibrare il nostro modo di pensare nella prospettiva dell’«esistere multiplo»[25] e del pluralismo. La verità è individuata, incorporata e non più spersonalizzata: è la verità del volto che si fa presente e si esprime. Inoltre, dato che il volto non è concettualizzabile, né riconducibile all’interno della totalità, la verità di cui parla Lévinas non ha a che fare con la conoscenza, bensì con la verità della presenza dell’altro:

il senso di tutto il nostro progetto consiste nel contestare l’inestirpabile convinzione della filosofia secondo cui la conoscenza oggettiva è l’ultima relazione della trascendenza, secondo cui Altri – anche se fosse diverso dalle cose – deve essere oggettivamente conosciuto, anche se la sua libertà dovesse deludere questa nostalgia della conoscenza. Il senso di tutto il nostro progetto consiste nell’affermare non che altri sfugge per sempre al sapere, ma che non ha alcun senso parlare qui di conoscenza o di ignoranza[26].

L’esperienza che descrive Lévinas dunque non rientra nell’ontologia, né nella gnoseologia, ma pertiene in primo luogo alla dimensione etica (che a sua volta conduce all’idea di infinito e quindi alla metafisica, ma su questi due aspetti, che non vengono recuperati da Fiori, è il caso di soprassedere). L’etica è il luogo della verità, perché è qui che avviene la rivelazione fondamentale: che l’altro esiste al di fuori di me, senza essere in nessun modo condizionato da me. L’intenzione da cui è mosso Lévinas è dunque quella di avviarsi verso un pluralismo che non tenda a fondersi in unità, ma che graviti attorno ad un «noi», e cioè a un’aggregazione di io che pur restando individuati si relazionano tra loro, si fronteggiano nel faccia a faccia e creano una comunità nella quale non sussista la logica della totalità, ma l’alterità abbia spazio per esprimersi.

 

2. Il canto e la voce

A questo punto metterò in luce i punti di contatto tra la visione etica di Lévinas e quelli che sono i nodi centrali del pensiero di Fiori, così come è possibile leggerli all’interno delle sue raccolte di saggi: Scrivere con la voce (2003) e La poesia è un fischio (2007). Per Fiori «le parole suonano false, le frasi sembrano assemblaggi di termini, di vocaboli»[27] fino a che il poeta, ponendosi in una condizione di «essenziale povertà»[28], non accetti di perdere «tutte le bravure»[29]. Solo a questo punto è possibile per il poeta accedere alla dimensione della parola che non «dice la verità», ma «che è vera»[30]  perché pronunciata veramente, perché «ha voce»[31] ed è priva di qualsiasi retorica. Sia in Fiori che in Lévinas, dunque, l’assenza di retorica e la condizione di miseria sono due caratteristiche fondamentali di chi si esprime senza riserve («Al di là della retorica la parola scopre la nudità del viso»[32]). Ma si vedano anche affermazioni come la seguente: «Il canto è l’opposto della conversazione: pretende tutto il silenzio. Deve prendere forma, deve nascere e crescere senza interruzioni»[33]. L’affinità con Lévinas mi sembra piuttosto forte, in particolare nei momenti in cui riconosce la passività del soggetto di fronte all’epifania del volto che parla.

Per Fiori quando qualcuno pronuncia parole vere a piena voce significa che sta iniziando a cantare. Il canto è inatteso e tanto potente che non solo gli altri, ma persino chi canta assiste alla manifestazione della propria voce, come se non venisse da lui: «Capita a volte […] che uno, mentre interviene, si senta uscire di bocca un suono che è proprio il suo. […] È come se un cavallo si sentisse nitrire, o una capra belare. […] Si sente nudo come in un sogno, e confuso; ha quasi paura»[34]. Così anche in Lévinas «l’essere che parla garantisce la propria manifestazione e si aiuta, assiste alla propria manifestazione»[35].

In altri interventi Fiori contrappone il canto (definito anche «poesia di voce»[36]) alla poesia moderna che, al contrario, tende alla «neutralizzazione della voce»[37], ovvero «verso l’ideale di una parola poetica disincarnata, purificata da qualsiasi traccia della presenza dell’autore»[38]. Prevedibilmente il culmine di questo processo è rappresentato da Mallarmé e dalla linea dei poeti puri, i quali aspirano alla «scomparsa elocutoria del poeta»[39] allo scopo di eliminare ogni traccia d’uso linguistico e di trapiantare la parola poetica su un terreno di impersonale oggettività. Al contrario, «un canto si produce quando si sta in sua presenza, quando la presenza che il cantare esibisce viene affrontata e ammirata nella infondatezza del suo esporsi. […] Il canto non è nulla di straordinario. È il verso di tutti, una semplice manifestazione di esistenza»[40]. Dunque il canto, essendo inseparabile da una certa voce, porta sempre con sé l’impronta di una presenza umana, è incarnato e personalizzato.

Contro la «disumanizzazione dell’arte»[41] perseguita dalle poetiche simboliste ed ermetiche, Fiori propone dunque un programma di «riumanizzazione»[42] della poesia, il cui primo obiettivo è quello di porre al centro della scrittura la persona dell’autore e il suo gesto elocutorio. Per Fiori, così come per Lévinas (che in questa intervista viene esplicitamente chiamato in causa), è dunque indispensabile compiere il passaggio

da una impersonalità a una possibile umanità, che però non è una totalità, perché se lo fosse, l’altro sarebbe inserito dialetticamente… sarebbe precompreso nella soggettività. Il punto di riferimento qui è Lévinas, Totalità e infinito: il volto dell’altro non è qualcosa che io ho di fronte e posso pregiudicare in base alla totalità che ho presente nell’ambito della ragione… è qualche cosa che mi sfugge infinitamente, e che però, proprio per questo sfuggirmi, mi si rivolge e mi mette al mio posto, mi mette lì[43].

È bene specificare che quanto detto riguardo la voce non ha niente a che fare con «la foné, la viva voce che può venire ad animare la pagina scritta»[44]: la presenza dell’uomo all’interno del testo si risolve piuttosto nel «riconoscimento di un’origine che è anche riconoscimento di un limite, di un destino»[45]. Fiori infatti interpreta la ricerca simbolista di una lingua impersonale come volontà di evadere dai confini dell’umano, e quindi di costruire un linguaggio che, sottraendosi alla dimensione storica, divenga tangente al piano ontologico. Ma la parola dell’essere è una parola a cui non si può ribattere. Contro questa impostazione Fiori valorizza l’intonazione individuale del poeta, che è preziosa perché cerca di stabilire un dialogo da uomo a uomo, non si nasconde dietro una finta impersonalità, non maschera i suoi limiti.

Inoltre la voce, appartenendo radicalmente all’uomo, porta con sé anche il segno della wittgensteiniana «forma di vita»[46] nel quale il poeta si è formato, assumendo «proprio questa voce»[47] e non un’altra. È questa la ragione per cui, dal punto di vista di Fiori, la parola poetica non è espressione esclusiva dei sentimenti del poeta, ma anche della comunità di cui è membro. Proprio come avviene alla cantante Giuseppina[48] il canto appartiene contemporaneamente – e misteriosamente – al poeta e al gruppo sociale di cui fa parte: la parola vera è tanto profondamente personale quanto necessariamente comunitaria.

Dato che la poesia reca con sé una presenza umana, la voce del poeta è qualcosa a cui si sta di fronte, proprio come avviene con il volto dell’altro: «Chi dice “questo è un canto” si trova finalmente di fronte a un discorso, disposto ad ascoltarlo. […] Solo come canto la poesia prende senso e vale davvero la pena di essere incontrata»[49]. Per Fiori dunque bisognerebbe stare di fronte a un testo poetico allo stesso modo di come si sta di fronte a un essere umano che ci parla a piena voce, o a un volto che esprime sé stesso nel discorso. Il poeta – o meglio: la sua voce che resta impressa nel libro – è il volto dell’altro che parla al suo lettore e chiede ascolto.

Proprio qui risiede il valore etico della poesia: «solo cominciando a raccontare quel canto col quale tutti noi abbiamo o possiamo avere a che fare mi è parso possibile provare a dire etica e poesia insieme. Canto è, in una parola, etica e poesia»[50]. Dato che per Fiori la relazione testo-lettore dovrebbe essere omologa a quella io-altro, la poesia diventa un mezzo per educare l’uomo a un’etica democratica, fondata sul discorso. Il canto rappresenta un luogo privilegiato dove imparare «a stare al mondo»[51] con gli altri uomini, sapendo anche accettare la condizione di separatezza che contraddistingue la soggettività, e quindi rispettando la distanza ineliminabile che si frappone a ogni rapporto umano:

Vedi? Parlare ci separa. Eppure
nemmeno nella stretta di mano
più calda, occhi negli occhi,
nemmeno abbracciati,
persi nel bacio più profondo
saremo mai vicini come siamo
nelle parole[52].

3. Etica esistenziale

A questo punto vorrei fare qualche considerazione sul modo in cui Fiori dialoga col suo modello, cercando di trarne qualche informazione di carattere più generale. Innanzitutto è evidente che Fiori non desidera aderire totalmente alla filosofia di Lévinas, né recuperarla in blocco, ma si limita ad accoglierne singoli spunti. In effetti Fiori è interessato soprattutto agli aspetti esistenziali dell’etica levinassiana, e pertanto segue volentieri il francese nel descrivere il rapporto con l’altro come evento, come incontro privato tra due individualità che entrano in relazione attraverso la parola. Tuttavia Fiori trascura significativamente non solo i risvolti metafisici e teologici dell’etica – che pure sono centrali nell’opera di Lévinas –, ma anche le riflessioni sulla natura della società, della giustizia, della politica. Una selezione del materiale così orientata è senz’altro un elemento interessante, in quanto rafforza l’idea che «quando la comunicazione etica si manifesta nella poesia contemporanea è affrontata soprattutto da una prospettiva esistenziale»[53], con al centro il soggetto e le sue micro-interazioni. Le tesi poetologiche di Fiori si radicano dunque in quella che Sennett definisce «società intimista»:

La convinzione diffusa oggi è che l’intimità tra persone sia un bene morale, mentre l’aspirazione principale è lo sviluppo della personalità individuale attraverso esperienze d’intimità e cordialità. Il mito dominante è che i mali della nostra società siano il frutto dell’impersonalità, dell’alienazione e della freddezza. Questi tre elementi che caratterizzano il tempo in cui viviamo formano nel loro insieme un’ideologia intimista: i rapporti sociali – di qualunque tipo – sono reali, credibili e autentici quanto più si avvicinano alle intime problematiche psicologiche di ciascun individuo. Questa ideologia trasforma le categorie politiche in categorie psicologiche. L’ideologia intimista definisce lo spirito umanitario di una società senza dèi: la cordialità è il nostro dio[54].

Nel caso di Fiori l’attenzione esclusiva per un’etica del privato, e quindi il relativo silenzio su questioni politico-sociali, colpisce in modo particolare, se solo si pensa alla sua attività di musicista negli Stormy Six, storici esponenti italiani del rock d’opposizione. Basti pensare che attorno al 1975 – dunque una decina d’anni prima di Case – Fiori, Fabbri e Leddi componevano testi come quelli di Stalingrado: «Fame e macerie sotto i mortai / come l’acciaio resiste la città / strade di Stalingrado di sangue siete lastricate / ride una donna di granito su mille barricate. // Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa / d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città»[55]. Ora: per quanto certamente questo cambio di rotta rientri nel più generale clima della «glaciazione degli anni ’80»[56], della cultura del riflusso e della svalutazione delle ideologie politiche, il punto non è che Fiori abbia rinunciato a qualunque intenzione politica, anche perché nell’ottica dell’autore il senso della sua operazione resta comunque quello di compiere «un passaggio dalla sfera estetica alla sfera etica, o anche politica»[57]. Il punto, piuttosto, è che per Fiori la poesia – al contrario della musica rock – non è un luogo dove avanzare certe rivendicazioni in maniera troppo diretta. Alla musica e alla poesia Fiori riconosce implicitamente due funzioni sociali molto diverse, e per questo – ma certo è complice anche lo scarto cronologico – seleziona temi, linguaggi e retoriche differenti a seconda del campo in cui si trova ad operare. La letteratura infatti ha il dovere di problematizzare, di «valutare l’ampiezza del nulla che accompagna l’azione positiva»[58], e pertanto non le è concesso di proporre esplicitamente un discorso alternativo a quello ufficiale, pena lo scadere nel paternalismo o nel pedagogismo. Questa condizione statutaria della letteratura fa sì che, anche per autori come Fiori che rivendicano ancora una funzione politica per la loro arte, questa funzione non possa che essere «molto indiretta, non intenzionale, casuale»[59].

Inoltre, affermando che la voce dell’individuo ha di per sé valore poetico, Fiori si inserisce perfettamente in un clima culturale nel quale, dopo le lotte politiche degli anni sessanta e settanta, erano dati per assodati il diritto alla presa di parola e all’auto-espressione dell’individuo. Allo stesso tempo però Fiori non vuole recuperare quelle forme di narcisismo poetico che avevano attraversato tutta la lirica moderna, e che, dopo un periodo di reazione anti-ermetica nel secondo dopoguerra, avevano riconquistato un posto centrale nelle poetiche neo-orfiche degli anni settanta. Per questa ragione da un lato insiste sul valore etico della poesia, mentre dall’altro lato adotta un atteggiamento tipico delle poetiche civili che potremmo definire «pathos sostitutivo», e che ben si riscontra in affermazioni come la seguente: «Chi è, allora, che cos’è, un poeta? Poeta è chi prova a parlare, prova cos’è parlare, chi fa fino in fondo esperienza e fornisce esempi di quel parlare che riguarda ciascuno e tutti e che qui ho chiamato canto»[60] (corsivo mio). Nonostante l’ormai conclamata perdita del mandato sociale, Fiori ritiene di poter ancora giustificare il ruolo del poeta considerandolo un individuo rappresentativo del gruppo sociale, e quindi in grado di parlare a nome di tutti gli altri.

In ogni caso l’insistenza che Fiori pone sui temi della presenza e della voce è anche una spia del bisogno provato dagli scrittori – ma non solo dagli scrittori – di autenticare le proprie parole. L’avvenuta democratizzazione della cultura complica enormemente la corsa all’autodeterminazione degli individui, per cui diventa sempre più urgente la produzione di nuovi segni distintivi. Facendo leva sulla singolarità irriproducibile dell’individuo, la voce e la presenza rispondono perfettamente a questa necessità, in quanto si presume che conferiscano un’identità inconfondibile all’interno del flusso indistinto di discorsi provenienti dalla mediasfera. Le formulazioni poetologiche di Fiori presuppongono dunque un’opposizione personale/impersonale, dove il personale occupa il polo positivo, diventando sinonimo di autenticità e immediatezza. Pronunciare un enunciato «personale» vuol dire dotarlo di una firma che assicura il dettato contro la falsificazione e la virtualizzazione del mondo: si genera così un «effetto di reale» che legittima le parole del poeta. Al contrario tutto ciò che è impersonale (sarebbe a dire tutti quegli elementi socio-culturali che trascendono l’individuo, come le ideologie o i codici di comportamento) finisce per essere considerato negativo, inautentico, mediato, e spesso scivola nell’irreale.

In questo modo Fiori recupera e riadatta uno degli argomenti classici delle teorie estetiche sulla poesia, ovvero la marcatezza della lingua poetica rispetto a quella di uso quotidiano. Tuttavia, se nelle poetiche classiciste la diversità della poesia veniva ricondotta a fattori lessicali, retorici e metrici – dunque in ultima analisi a fattori linguistici –, nella formulazione di Fiori lo scarto pare collocarsi su un piano extra-linguistico. La «poesia di voce» o il «canto» non presentano elementi stilistici caratterizzanti, ma si distinguono comunque dalla comunicazione normale perché, interrompendo lo stato di alienazione, esprimono pienamente l’individualità dell’enunciatore. Insomma, l’opposizione che Fiori ha in mente non è tra prosa e poesia – intesa quantitativamente come «Prosa + a + b + c»[61] –, bensì un’altra, che vorrebbe essere sostanziale e non formale, e che si può spiegare così: comunicazione funzionale e neutra di uso quotidiano da un lato, espressione autentica di un soggetto individuato durante uno stato di grazia dall’altro. La funzione distintiva svolta dalla tecnica e dalle regole compositive tradizionali viene ora assegnata a fattori personali e impalpabili, fondati sul valore indiscutibile che la società intimista assegna all’individuo e alla sua presunta unicità.

In ogni caso, c’è qualcos’altro che rende estremamente significativa la testimonianza di Fiori. Canto, voce, presenza: i fattori che identificano e danno valore alla parola poetica non appartengono affatto al campo letterario, ma vengono dalla canzone. Rock star e cantautori hanno un ruolo sociale ben riconosciuto, per cui è a partire da loro che Fiori tenta di riconfigurare l’immagine del poeta e di condurla oltre la «disumanizzata» arte del Novecento:

Se l’assenza del corpo del poeta è stata cruciale, fondante, per tutto un filone della poesia occidentale, la sua presenza costituisce, nell’ambito della popular song, la garanzia in qualche modo rassicurante che ambiguità e scissioni, atti linguistici, parlanti, insomma tutti i tasselli del puzzle, possono essere ricondotti alla fine a una sola fonte, a un solo essere umano. In questo senso, quando vengono eseguiti, i testi rock e pop tendono ad assumere di fronte ai loro ascoltatori la natura di un giuramento, di una pubblica testimonianza[62].

Il bisogno di autenticazione viene soddisfatto dalla presenza dell’autore, cosicché ogni enunciazione finisce per diventare anche una testimonianza: l’autore si assume la responsabilità delle proprie parole e assicura che il suo discorso è stato pronunciato veramente da un uomo, che rimanda a una presenza reale. Come afferma Lévinas infatti «il fatto essenziale dell’espressione consiste nel portare testimonianza di sé garantendo questa testimonianza. Questa attestazione di sé è possibile solo come volto, cioè come parola»[63].

 

4. Una poetica epifanica?

Alla luce del discorso appena svolto, vorrei adesso proporre alcune riflessioni sull’opera poetica di Fiori. Generalmente i testi di Fiori si aprono su un soggetto alienato, la cui percezione del mondo e degli altri uomini appare automatizzata. Segue poi un «momento B», che smentisce la situazione iniziale presentando «il momento del classico miracolo, dell’epifania dell’eccezionale che si cela nell’ordinario»[64]. Quel che avviene dunque è una sorta di «disubriacatura» che consente una relazione più immediata e autentica tra il soggetto e gli altri soggetti o la realtà circostante. Questo secondo momento in alcuni casi passa attraverso un’esperienza etica con altri uomini, che in Fiori assume volentieri la forma di un dialogo, del saluto, dell’incontro quotidiano (Canto[65]: «Innanzitutto / bisogna salutare le persone, / guardarle in faccia, e se salutano / non risparmiare il fiato / e rispondere bene al saluto / ogni volta»). In questo caso «la relazione etica all’altro» costituisce «l’evento in cui questa rivoluzione permanente della disubriacatura è vita concreta»[66]. In altri momenti però la disubriacatura non avviene all’interno del rapporto interpersonale, ma scatta in seguito a quella che potremmo definire una agnizione del reale, sarebbe a dire l’istaurarsi di una relazione non-alienata con la realtà circostante (Balcone[67]: «Lo guardi, questo deposito, / e ti prende una calma: / diventi come sordo, sordo profondo. / Nemmeno più battere il cuore senti»).

È piuttosto chiaro che simili scelte compositive possano portare a parlare, per Fiori, di una poetica epifanica, in particolare per l’inevitabile imprinting narrativo che l’epifania conferisce al testo. Tuttavia, per quanto le affinità siano forti, mi sembra necessario trovare formule alternative che rilevino le differenze cruciali esistenti tra l’epifania comunemente intesa e la disubriacatura-agnizione del reale riscontrate in Fiori. L’epifania infatti era sempre stata portatrice di significati resistenti all’inautenticità del quotidiano, che nella maggior parte dei casi affiorano in seguito a «un episodio improvviso in cui l’io rievoca una verità, un’immagine, un ricordo che, in modo traumatico e istantaneo, riemergono e si rivelano»[68]. Inoltre spesso l’evento epifanico si presenta sotto forma di segno, o segnale, che rimanda ad un altro-da-sé assente perché passato, o perché non terreno. Insomma, l’epifania ha a che fare con l’attribuzione di senso, sottintendendo che il senso è qualcosa che l’uomo non ha mai di fronte, ma è sempre sottratto. Solo del segnale si può fare esperienza diretta.

Quel che si ritrova nei testi di Fiori è molto diverso dal quadro appena delineato. Proprio come nell’epifania del volto, l’altro – inteso da Fiori non solo come l’altro uomo – è puro significante, e per questo le «facciate di case» non rimandano ad alcun significato riposto: le cose appaiono nella loro singolarità, ma «non c’è niente da annunciare» (Apparizione: «Alte sopra la tangenziale, chiare, / due case con in mezzo un capannone. / È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare»[69]). Le apparizioni delle poesie di Fiori funzionano all’opposto del segno: costituiscono delle manifestazioni puramente superficiali che non evocano nessuna profondità invisibile.

In questo senso si può sottoscrivere l’affermazione di Critchley, secondo il quale «quel che eccede i limiti della mia conoscenza richiede il mio riconoscimento»[70]. Per l’agnizione del reale, così come per l’epifania del volto, è scorretto parlare di conoscenza; quel che avviene è piuttosto il riconoscimento di una presenza estranea che ci pone un limite, ma che va rispettata in quanto presenza. In questo senso l’agnizione del reale permette di far esperienza della «molteplicità essenziale del reale»[71], e dunque ha un grande potenziale etico: ponendo il soggetto di fronte a qualcosa che esiste di per sé (kath’auto), lo prepara a stare di fronte agli altri uomini senza violarne l’alterità irriducibile. Lo spessore etico del riconoscimento è particolarmente evidenti in testi come Muro[72]:

In certe ore
sopra un distributore di benzina
un muro nudo si illumina
e sta contro l’azzurro
come una luna.

A un certo punto uno
abita qui davvero,
e guarda in faccia queste case, e impara
a stare al mondo,
impara a parlare al muro.

Impara la lingua,
ascolta la gente in giro.
Incomincia a vedere questo posto,
a sentire
nel chiaro dei discorsi
la luce di questo muro.

Una conferma interessante a quanto detto sin qui si può ricavare dall’impiego ricco e fortemente marcato delle similitudini in Fiori. Innanzitutto, riprendendo alcune osservazioni avanzate da Fiori riguardo lo stile dantesco, si può dire che anche nelle sue poesie le similitudini «spiegano» una cosa «richiamando altri aspetti del mondo, appellandosi all’esperienza del lettore, all’esperienza umana generale, nelle sue forme più varie. La fiducia in una comunità del vedere, dell’esperire, che li muove, è profonda, potente»[73]. Dal punto di vista di Fiori dunque la similitudine apre alla dimensione etica, non solo perché si appella a delle esperienze che accomunano tutti gli uomini, ma anche perché segnala lo sforzo del poeta di stabilire col lettore una comunicazione efficace, senza fraintendimenti.

Allo stesso tempo, la similitudine rappresenta la tensione della lingua che, davanti alla singolarità irriducibile del volto o della cosa, non riesce a trovare nomi che tengano. L’impossibilità di concettualizzare l’alterità mette in crisi il processo di verbalizzazione, ma dove non arrivano le parole subentra la capacità del poeta di accostare immagini. Un simile procedimento ha la funzione di rivelare il mondo senza svelarlo totalmente, ma anche senza arrivare all’oscurità linguistica – è per questo d’altronde che Fiori sceglie la similitudine e non la metafora.

Per arricchire il quadro si può ancora osservare che Fiori gestisce le sue immagini in maniera tale che «tra la scena che “serve” e quella “servita” […] non ci sia disparità gerarchica». L’autore appare «“interessato” a entrambi i termini del paragone. Interessato […] non tanto sul piano estetico, quanto – innanzitutto – su quello della realtà»[74]. In questa maniera Fiori conferma il suo profondo rispetto (che è anche fonte della sua poesia) per l’unicità della presenza, la sua fedeltà alle cose: «È dall’amore che nasce la poesia. E l’amore nasce dalla presenza di una cosa»[75].

Agnizioni del reale, riconoscimenti, epifanie del volto, uso marcato delle similitudini sono tutti elementi che portano a una conclusione forse ovvia, ma che vale la pena di esplicitare: il baricentro della poesia di Fiori è tutto esterno al soggetto lirico. La spinta etica alla comunicazione richiede che si parli di una realtà famigliare al lettore, e dunque non trasfigurata in nessun senso dal soggetto. In questo modo Fiori finisce per assumere una postura estroflessa e socievole, innescando così un processo di svalutazione dell’interiorità. Infatti la vita interiore, essendo inaccessibile all’esperienza altrui, per forza di cose non può costituire un terreno di comune intesa tra il poeta e il suo lettore. Una posizione del genere implica dunque l’abbandono di un certo sistema di valori modernista – e umanista –, in accordo col quale l’interiorità, la profondità, l’invisibile occupavano il polo positivo, di contro alla negatività della vita esteriore, della superficie, dell’apparenza. L’interiorità è infatti lo spazio della «totalità» da cui l’altro è esiliato, e per questo non è mai plurale. Al contrario Fiori, scegliendo di seguire la logica della pluralità, rinuncia al dramma intimo e si concentra sui legami del soggetto col mondo esterno.

*

[1] E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990, pp. 149-150.

[2] Ibidem, p. 116.

[3] Ibidem, p. 125.

[4] Ibidem, p. 125.

[5] Ibidem, p. 159.

[6] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, trad. it. E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, p. 15.

[7] S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico. Le tesi di Lévinas, in E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. LX.

[8] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 48.

[9] Ibidem, p. 74.

[10] Ibidem, p. 36.

[11] Ibidem, p. 37.

[12] Ivi.

[13] Ibidem, p. 64.

[14] Ibidem, p. 73.

[15] Ibidem, p. 74.

[16] Ibidem, p. 73.

[17] Ivi.

[18] Ibidem, p. 251.

[19] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, p. 209.

[20] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 87.

[21] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, p. 147.

[22] J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. it. G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, p. 116.

[23] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 44.

[24] S. Petrosino, op. cit., p. LXXIV.

[25] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 225.

[26] Ibidem, p. 89.

[27] U. Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano 2007, p. 22.

[28] Ibidem, p. 18.

[29] Ibidem, p. 38.

[30] Ibidem, p. 22.

[31] Ibidem, p. 18.

[32] J. Derrida, op. cit., p. 134.

[33] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 30.

[34] Ivi.

[35] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 97.

[36] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 18.

[37] U. Fiori, Scrivere con la voce. Canzone, Rock e Poesia, Edizioni Unicopli, Milano 2003, p. 33.

[38] Ibidem, p. 32.

[39] S. Mallarmé, Crisi di verso, in Opere, a cura di F. Piselli, Lerici, Milano 1963, p. 256.

[40] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 50-1.

[41] J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, PGreco, Milano 2016, p. 17.

[42] U. Fiori, Scrivere con la voce, p. 78.

[43] Conversazione con Umberto Fiori, intervista a cura di S. Burratti, S. Dal Bianco, A. Perrone, 2014. Consultabile all’indirizzo https://formavera.com/2014/10/29/conversazione-con-umberto-fiori-prima-parte/.

[44] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 24.

[45] Ibidem, p. 103.

[46] Ibidem, p. 40.

[47] Ibidem, p. 103.

[48] Ibidem, pp. 39-54.

[49] Ibidem, p. 37.

[50] Ibidem, p. 34.

[51] U. Fiori, Poesie. 1986-2014, Mondadori, Milano 2014, p. 67.

[52] Ibidem, p. 42.

[53] M. Borio, Raccontare la guerra: la comunicazione etica nella poesia italiana contemporanea (Fortini, Anedda, Buffoni, Gezzi, Testa), in «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilioAtti del convegno (Perugia, 6-7 novembre 2013), 2 voll., a cura di N. di Nunzio, F. Ragni, C. Bacoccoli, CTL, Collana dell’Università di Studi di Perugia, Perugia 2014. L’articolo è consultabile anche all’indirizzo file:///C:/Users/myself/Desktop/Articolo%20Fiori/Raccontare%20la% 20guerra_%20la%20comunicazione%20etica%20nella%20poesia%20italiana%20contemporanea%20(Fortini,%20Anedda,%20Buffoni,%20Gezzi,%20Testa).html.

[54] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, trad. it. F. Gusmeroli, Mondadori, Milano 2006, p. 319.

[55] Il testo si può consultare su https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=750.

[56] G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 129.

[57] S. Burratti, S. Dal Bianco, A. Perrone, op. cit.

[58] F. Fortini, Verifica dei poteri, Einaudi, Torini 1989, p. 143.

[59] I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995, p. 355.

[60] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 37.

[61] R. Barthes, Il grado zero della scrittura. Seguito da Nuovi saggi critici, trad. it. G. Bartolucci, R. Guidieri, F. Maria Ricci, R. Loy Provera, L. Prato Caruso, Einaudi, Torino 1982, p. 31.

[62] U. Fiori, Scrivere con la voce, p. 78.

[63] E. Lévinas Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 207.

[64] A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi, Carocci, Roma 2007, p. 28.

[65] U. Fiori, Poesie, p. 61.

[66] E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, p. 15.

[67] U. Fiori, Poesie, p. 50.

[68] G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, p. 167.

[69] U. Fiori, Poesie, p. 58.

[70] S. Critchley, Responsabilità illimitata. Etica dell’impegno, politica della resistenza, Meltemi, Roma 2008, p. 79.

[71] S. Petrosino, op. cit., p. LXIII.

[72] U. Fiori, Poesie, p. 67.

[73] U. Fiori, La poesia è un fischio, p. 178.

[74] Ibidem, p. 178-9.

[75] Ibidem, p. 79.

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Immagine: Alessandro Scarabello, Head #1 (2014)

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