Traduzioni e nota introduttiva di Jacopo Rasmi
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VERSIFICARE IL NON-ESSERE AMBIENTALE
Mathieu Arsenault, Le guide des bars et des pubs de Saguenay
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Beneficiando di una «residenza di scrittura» (dispositivo per lo più ignoto al contesto italiano), lo scrittore canadese Mathieu Arsenault si ritrova per alcune settimane nella regione rurale del Saguenay, Québec. Oltre allo studio di certi testi teorici, Arsenault investe questo tempo in un’inchiesta (volta alla produzione letteraria) degli ambienti sociali di queste zone marginali e poco visibilizzate, a partire dal più anonimo e comune dei loro spazi di comunità: il bar, di sera. Segnato da una certa tradizione osservatrice della poesia québécoise ma anche da alcune importanti esperienze di cinéma-direct (come quelle di Pierrault e Brault), l’autore si propone di fabbricare il testo letterario attraverso momenti quotidiani qualsiasi, annotati dal vivo, senza messa in scena. La banalità di uno smartphone – su cui lo scrittore appunta rapidamente gesti, frasi e oggetti degli ambienti frequentati, senza essere identificato – consente un’inaspettata (e, certo, problematica) connessione tra vita e scrittura. Le brevi note sullo schermo diverranno la materia spontanea di una serie di poesie brachilogiche pubblicate con l’accompagnamento di un saggio sulla tecnica adottata: una pagina saggistica a fronte di ogni componimento. Presentando il lavoro di Arsenault attraverso questo scambio con l’autore stesso e un assaggio di traduzione, ci proponiamo di transitare lentamente da un ciclo (lasciato aperto) sulla poesia contemporanea del Québec verso una nuova serie d’interventi. Essa dovrà coinvolgere le molteplici esperienze di una poesia di inchiesta ambientale, dallo spirito «documentaristico», come une tecnica d’attenzione votata all’appunto. Il testo diventa, in queste pratiche, ciò che il fotografo Luigi Ghirri chiamava un intermedio «spazio di affezione», tra mondo esterno e presenza soggettiva. Il punto di partenza è, nuovamente, costituito dalla poesia francofona.
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Scambio di riflessioni
JR – Leggendo il tuo Guide mi ha colpito, sul versante saggistico, l’espressione «dispositivo di scrittura» che lascia intendere quanto la scrittura possa essere più una questione di metodo e di strumenti che una questione di «genere letterario» o ispirazione romantica. Un problema di tecnica e condizioni pratiche che dispongono il gesto scrittorio: potremmo cominciare da questa affermazione. Che ne pensi?
MA — La questione della disposizione (agencement) consente di descrivere bene il cambio di percezione che implica l’utilizzo di un telefono come taccuino. Scrivere sul proprio telefono consente di rendersi invisibile in quanto scrittore in situ. Ciò dischiude la possibilità di una più grande prossimità, dove stenografare le parole di uno sconosciuto diventa possibile. La dimensione dello schermo tende a produrre delle frasi più corte e dei salti di riga. Tutto ciò è ben spiegato dall’agencement. Ma questa nozione e quella di «dispositivo» non bastano a descrivere quest’altra dimensione della scrittura-situata-con-telefonino che concerne la messa in forma delle immagini del testo, questa percezione che tenta di legare fra loro i dettagli circostanti tra tutti i dettagli possibili e che prende nel contempo in considerazione la distanza o la vicinanza sentita dall’autore rispetto al luogo. Senza rinviare all’ispirazione romantica, c’è nell’opera qualcosa come un’ermeneutica del paesaggio, la ricerca di un testo che condenserebbe in un modo coerente la più grande quantità di componenti del luogo, del momento di quest’incontro tra la persona che scrive e il posto in cui si trova. Non si tratta di proiettare uno stato d’animo o una vita interiore sul paesaggio, ma piuttosto di cercare l’alterità che questa situazione produce su se stessi e sul luogo. Cogliere l’alterità piuttosto che l’identità soggettiva. C’è in ogni caso una ricerca di immagini (che condensano al meglio un momento, l’atmosfera di un luogo…) che non è concettualizzabile attraverso le nozioni di «disposizione» o «dispositivo». Non basta dire ad una persona: «Vedrà che a prendere appunti con il suo smartphone in situ la vostra scrittura cambia».
JR — Insisterei ancora su qualche aspetto di questo discorso. Mi interessa, in particolare, il rapporto che si crea tra un certo modo di scrivere e una certa modalità dell’attenzione (o percezione), ovvero come questo approccio particolare alla scrittura rende possibile degli altri modi ascoltare e vedere un ambiente. A tal proposito, tu parli di una «visione periferica»…
MA — Riprendo la risposta precedente. Esiste nel Québec una tradizione dello sguardo nella poesia che risale agli anni ’30 e ’40. Ad esempio, Regards et jeux dans l’espace di Hector de Saint-Denys Garneau ha inaugurato una poesia molto spoglia per quel che riguarda gli effetti stilistici, molto narrativa e concentrata su giochi di immagini visive. Esiste una tradizione importante nella poesia (Patrice Desbiens, Jean Sebastian Larouche) e nel cinema (il cinéma direct di Pierre Perrault e Jacques Leduc) che ha sviluppato uno sguardo e un ascolto dei poveri, delle classi inferiori, dei gruppi marginali, uno sguardo che si attarda sui minimi dettagli, sulle espressioni, sulla maniera in cui questi milieux esprimono in pubblico una vita che le classi più agiate non cessano di celare all’osservazione. Le guide des bars et pubs si inserisce in questa tradizione.
JR — Come si scrivono dunque dei «milieux», delle atmosfere? Mi pongo queste domande nel corso di ricerche incrociate, soprattutto tra cinema e letteratura. Come non scrivere storie personali andando verso ciò che vi si nasconde dietro, il loro «(s)fondo» (o ambiente)?
MA – È qui che la visione periferica acquista la sua importanza. Potremmo anche chiamarla un’etica della defocalizzazione. Sbarazzarsi della tentazione di focalizzarsi su un racconto e di concentrare tutto su di un personaggio e un dettaglio. Direi un «fondo», ma nel contempo direi che ciò appartiene a quella parte dell’esperienza che non può essere colta da un lavoro di scrittura. C’è, a un certo punto del Parmenide di Platone, questa idea che il non-essere non è l’inesistente, il nulla, ma un turbinio perpetuo e incoerente di sensibile. Non proprio una molteplicità, ma delle molteplicità di molteplicità senza inizio né fine. Questo tipo di non-essere parmenideo è pieno, non vuoto: è là, davanti a noi, innominabile, ma non si tratta di un innominabile del tipo di un divieto religioso come «Dio (o l’Uno) è così perfetto che descriverlo comporterebbe l’aggiungere a ciò che già contiene tutto». Non esiste un tempo o un metodo per dire tutto, la totalità dell’esperienza sensibile, per quanto ogni momento della nostra vita sperimentiamo un sensibile impossibile da rappresentare. E tale impossibilità è una cosa perfettamente banale, ininteressante per la quasi totalità del mondo. Penso a mia madre, conosco chi lei sia, la nostra relazione, il posto che lei ha occupato nella mia vita, ma quando mi dico «mia madre», non dispiego quasi nulla di questo rapporto.
JR – A proposito di questo non-essere empiricamente pieno possiamo impiegare quei termini che menzionavo, quelli dell’ambiente o del fondo?
MA – Ritorno a questa problematica. Il fondo è il materiale al cospetto del quale ci si trova non appena si entra in un bar con il nostro telefono-taccuino. Tutto ciò che ci si trova è come ripiegato. Onestamente, del reale non possiamo che dispiegare una parte, ossia possiamo descrivere quanto vediamo, ma anche ciò che presumiamo degli altri lasciando il segno di questa presunzione, senza inventare una biografia per gli individui in cui ci imbattiamo e lasciar credere che questa finzione appartenga al reale. Affinché un tal dispiegamento sia onesto, deve consentire una connessione con altri dettagli del luogo o dell’ambiente. Ad esempio, c’è un vecchio fatto di coca in una poesia sull’Hippo-Club di Jonquière. Dico «il fratello di tua madre / a cui nessuno più parla» perché sembrava davvero uno di quegli zii di una famiglia del posto nati negli anni ’50 e ’60. In queste famiglie di cinque o sei, ce n’è spesso uno per cui è andata male, che si trova nei casini. Sono dei vecchi fatti nei bar locali, che stanno con i più giovani perché nessuno li ha seguiti, se ne vedono spesso. La sua presenza cristallizzava qualcosa dell’Hippo-Club: che si trattasse di un bar un po’ losco ma cordiale dove può accadere di tutto. Per descrivere una donna anziana un po’ ciucca che cantava davanti alla tavola da biliardo ho scritto «che generò jim morrison / che generò hulk hogan / che generò terry richardson / che generò i poemi di yves boisvert / e di daniel leblanc-poirier». L’accumulo non permette di focalizzare un tipo particolare. Morrison+hogan+richardson non indicano una stessa filiazione, ma piuttosto delle epoche e delle figure di un eroismo sfiorito, delle personalità alla moda che sono invecchiate male, nell’immagine o nella realtà; per quel che riguarda boisvert e daniel leblanc-poirier, descrivono nelle loro poesie dei milieux poveri ma non hanno molti legami. Redigendo il testo, tuttavia, erano questi i nomi che mi venivano per descrivere il luogo attraverso questa donna, dei pezzi che stavano insieme con una certa coerenza ma in un modo traballante per descrivere un bar in cui l’atmosfera e la clientela stessa sono disparate malgrado la coerenza dell’ambiente sociale di provenienza.
JR – Come definiresti di preciso dunque questo sforzo all’origine della tua scrittura che chiami nel tuo saggio «visione periferica»?
MA – La visione periferica afferra gli elementi del fondo, dell’ambiente e li condensa in immagini cercando di evitare la focalizzazione. Essa dispone un mobile tra il soffitto del romanzo e il pavimento del reale.
JR — Sempre al riguardo di questo non essere pieno e inafferrabile, tu fai riferimento ad un fenomeno che chiami «il riflusso dei tropi» (intendendo per tropi le nostre categorie generali d’interpretazione del reale). È una formula che mi sembra convincente ed evocativa, in cui si riaprirebbero in modo dinamico i rapporti tra singolarità degli eventi materiali e sintesi intellettuali e narrative. Un va-e-vieni, oltre la nostra routine percettiva e cognitiva.
MA — Esatto. Il «riflusso dei tropi» consente di riflettere sul fatto che i nostri pregiudizi e i nostri preconcetti letterari appartengono alla nostra esperienza del mondo al medesimo titolo che le nostre percezioni sensibili. Essi si situano tutti sul medesimo piano, come materiale cosciente o non cosciente. Quando restano inconsci, i tropi tendono a schiacciare la disparità del reale. E, nel contempo, non so se la sospensione del filtro sia anche solo possibile. Forse il solo vero potere che possiamo avere sui tropi consiste nel criticarli o deviarli, bloccarli nel colmo del loro slancio quando risalgono. Menzionavo prima quell’uomo dell’Hippo-Club, lo zio fatto di famiglie del posto. Qualcosa del personaggio traspare nella mia descrizione e non posso farci granché, se non interrompere la descrizione, lasciarla ripiegata. Ma lasciandola così, essa ci guadagna in indeterminazione e quindi intensità, dato che può evocare molteplici elementi, coerenti tra loro o contraddittori, che possono entrare in risonanza con altri elementi del poema secondo l’esperienza del lettore. Quanto più gli invento una vita, tanto più privo il lettore della sua posizione di lettore levando alla poesia le connessioni delle immagini tra loro che gli conferiscono il suo movimento, sistemando l’uomo in un’identità da personaggio.
JR — E, dunque, questo gesto di dissolvere o trattenere i «tropi», evitando le messe in scena, non potrebbe risolversi in una specie di riappropriazione dei tropi piuttosto che in un’eliminazione? Emancipandosene almeno in parte, si può giocarci meglio, con più libertà.
MA – Non saprei se per quel che riguarda la questione dei tropi l’emancipazione possa passare attraverso l’appropriazione o la riappropriazione. Nei miei altri libri (soprattutto Album de finissants e Vu d’ici), ho lavorato molto su questa problematica dell’ordinario e del banale. Album de finissants è costruito come un insieme di monologhi interiori ambientati in classi di giovani tra i 13 e i 16 anni. Monologhi dall’identità indeterminata, tutto ciò che vi si trova sono delle angosce, dei pezzi di materia scolastica, dei frammenti di esistenza, delle minime sensazioni, dei piccoli eventi di classe circa i banchi, gli astucci, il soggetto d’esame ecc. Preparando il libro mi sono reso conto che ci sono pochi romanzi, serie o film (a parte Elephant di Gus Van Sant) che raccontano ciò che succede in una classe. Alle superiori si possono passare 25 ore a settimana in una classe (sulle 50 trascorse a scuola), ma, in tutti i prodotti culturali, il tempo passato fuori dalla classe è sproporzionato. Una cinepresa non potrebbe cavarci nulla da un personaggio principale che ascolta in silenzio il prof di matematica per 75 minuti. Non circolano neppure rappresentazioni di gente che guarda la TV, un punto di partenza per il mio secondo libro, Vu d’ici. E poi ho realizzato poco a poco che l’esistenza nella sua continuità non è rappresentata da nessuna parte. Ma se lo fosse, la rappresentazione si concentrerebbe su un turbinio di piccoli dettagli del reale, sulla visione periferica.
JR – Eccoci, ritorniamo a questo tema della «visione periferica» che poi diventa il fulcro della poesia e del pensiero saggistico in Le guide. Tu affermi che si tratta di un elemento trascurato, inconscio, dimenticato…
MA – Noi siamo diventati talmente poveri di visione periferica che si trasforma in un rimosso che ritorna nei nostri sogni. Vedo una signora cadere sull’autobus. La sollevano, non c’è problema. Io ero troppo distante, non mi sento male. Non ci ripenso. Non cambia per nulla il corso della mia giornata. Non penserò neppure di raccontare tutto ciò. Ma è possibile che lo sogni la sera stessa o l’indomani. É possibile che mi ritrovi quasi a scrivere di questo soggetto, se scrivo tutto quel che mi passa per la testa il più rapidamente possibile. Ritorna anche se non vi ho ripensato, è affascinante. Si verifica in luoghi pubblici dove si assiste a delle interazioni a cui non si prende necessariamente parte. I tropi ci tengono lontano da questo rapporto ai piccoli eventi. Le sitcom mettono in scena una morale, un modo di risolvere conflitti, di gestire minimi tradimenti, slanci amorosi… Si tratta, in un certo senso, di tropi, perché ci aiutano a reagire in un modo rispettabile a situazioni che generano molta ansia e emozioni. Ma non c’è abbastanza tempo né soldi per creare dei tropi che inscenino i piccoli eventi. Sarebbe troppo lungo, il reale è troppo vasto perché si abbia il tempo o l’interesse di dispiegare tutti gli eventi possibili. E noi passiamo delle serate davanti a queste serie, noi siamo invisibili e immobili davanti alle loro istruzioni per l’uso per permetterci di gestire le grandi emozioni. E siamo invisibili il resto del tempo poiché tali istruzioni per l’uso ci lasciano nel vago per quel che concerne il corso ordinario delle cose. Poiché il corso delle cose è spesso percepito senza che ci sia per forza la possibilità di reagirvi bene o male, non c’è morale possibile. Una vecchia signora è caduta, ero troppo lontano per aiutarla, l’abbiamo risollevata. Ma sono comunque stato colpito dalla sua caduta…
JR — Hai ripetuto a più riprese questa nozione dei «piccoli eventi», cosa intendi? Cosa c’entra con la tua scrittura?
MA – Cos’è questo stato in cui si percepiscono i piccoli eventi nel corso ordinario delle cose? Io penso che questa esperienza ha più a che vedere con la poesia che con il romanzo. Innanzitutto perché tutto è avvolto, piegato, non esposto da un narratore interno che si racconterebbe da solo delle cose che sa già. Quindi perché il rapporto a se stessi mi sembra relazionarsi più a un’interazione costante con il reale che ad una messa in scena di sé. Un dettaglio del reale ci riconduce ad un altro, quindi ad un altro, poi ad un altro e da questo monologo interiore che si attraversa proviene una tendenza, una coerenza che ci appartiene ed è la cosa più singolare che noi possediamo. Connettiamo al nostro interno delle immagini del reale, dei legami che ci appartengono per un reale che, lui, non ci appartiene.
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Traduzioni
HIPPO CLUB – 1
chicago
supertramp
america
‘des bands de banlieusards des années 70
se succèdent sur les écrans
pour les cégépiens des années 70 accoudés au bar
faut beaucoup d’expérience pour distinguer
le goût d’une bud light
du goût d’une coors light
du goût d’une bleue dry
du goût d’une molson dry
le lundi c’est plus country mais le jeudi c’est rock!
dit la serveuse
bin ça rocke pas fort en estie, répond la madame
qui ressemble à janis joplin
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HIPPO CLUB – 1
chicago
supertramp
america
gruppi da periferia anni ’70
si succedono sugli schermi
per alunni dei tecnici degli anni ’70 sprofondati sul bancone
bisogna avercene dell’esperienza per distinguere
il gusto di una bud light
il gusto di una coors light
il gusto di una bleue dry
il gusto di una molson dry
lunedì è più country ma giovedì è rock!
dice la barista
beh, non si fa mica del gran rock, madonna, replica la signora
che assomiglia a janis joplin
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HIPPO CLUB – 2
le frère de ta mère
à qui plus personne parle
le danseur d’angles
aux oreilles qui résonnent
qui grimpe sur les tables
écarté dans les polygones de sa chorégraphie crispée
il s’est fait câlicer dehors du berlioz
mais il est chez lui
et pendant qu’un autre chante tnt d’ac/dc
sur le karaoké
son ami fait des culbutes autour de lui
tout le monde a soixante ans
et cette femme
qui enfanta jim morrison
qui enfanta hulk hogan
qui enfanta terry rìchardson
qui enfanta les poèmes d’yves boisvert
et de daniel leblanc-poirier
chante alice in chains
pour la huit restée seule sur la table de pool
personne va la rentrer
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HIPPO CLUB – 2
il fratello di tua mamma
a cui nessuno più parla
il ballerino d’angoli
dalle orecchie che risuonano
che s’arrampica sui tavoli
appartato nei poligoni della sua coreografia nervosa
s’è fatto cacciar fuori dal berlioz
ma è a casa sua
e mentre che un altro canta tnt degli ac/dc
al karaoke
il suo amico fa delle capriole intorno a lui
tutti hanno sessanta anni
e questa donna
che generò jim morrison
che generò hulk hogan
che generò terry richardson
che generò le poesie di yves boisvert
e di daniel leblanc-poirier
canta alice in chains
per l’otto gradi rimasta sola sul biliardo
nessuno la porterà dentro
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BAR LE MAGIC NIGHT
une couple chante céline dion en duo
sur le karaoké de l’inquiétude
il y a des tables de pool
de babyfoot
de ping-pong
des congas
des djembés
des guitares électriques une basse
une batterie
à côté de la piste de danse
les clients ont dans leurs visages des forfaits
de cogeco câble avec
rds
rdi
lcn
tsn
tva sports
tva sports 2
vrak
z télé
planète+
historia
history
msnbc
des disques durs pleins
des abonnements à clin d’œil
aux cours de zumba du mercredi
un quatre roues neuf coule sur les joues de chacun
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BAR LE MAGIC NIGHT
una coppia fa un duetto su céline dion
al karaoke dell’irrequietezza
ci sono tavole da biliardo
da calcetto
da ping-pong
delle conga
degli djembé
delle chitarre elettriche
un basso
una batteria
accanto alla pista da ballo
i clienti hanno nei loro volti degli abbonamenti
di televisione via cavo con
rds
rdi
lcn
tsn
tva sports
tva sports 2
vrak
z télé
planète+
historia
history
msnbc
dei dischi duri colmi
degli abbonamenti a batter d’occhio
ai corsi di zumba del mercoledì
un quad nuovo cola sulle guance di ciascuno
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Immagine: Photo by Vince Veras on Unsplash