Noemi De Lisi | Inediti

I

I ponti si allungavano sul Liffey
ne fissavo il riflesso sull’acqua,
avrei voluto sputarci dentro
per unirmi al tremore in superficie.
Avevo paura di buttarmi,
non riuscivo ad alzare lo sguardo
finché non sei arrivata.

«Perché immagini sempre il dolore?»
rovesciavi gli occhi in quel modo
che mi fa impressione: si vedeva il bianco
per un attimo – i ponti ti attraversavano.
Mi trattenevo dallo strapparti un capello,
dal tenderlo in aria sulla linea del fiume:

«Se solo potesse sostenerci tutti.»
Per poi non vederlo più una volta aperte le dita,
sporgermi dal parapetto, scuotere la testa:
«Non l’ho fatto apposta, lo tenevo stretto, lo giuro»;
indicarlo sul pelo dell’acqua come se potessi vederlo,
immaginarlo immergersi e risalire il ponte fino a noi,
superarci, fare tutto daccapo mentre affonda.

«Un tuo capello è caduto dal ponte,
ha attraversato Dublino, si è sciolto nel fiume.
Perdonami, perdonami se l’ho perso.»

*

II

Camminavamo in modo innaturale
come se stessimo salendo una scala
perché l’erba ci arrivava alle ginocchia,
non ti saresti voltata neanche se fossi caduto.
Ti seguivo stringendomi il petto per il freddo,
il vento avvicinava le punte dei tuoi capelli,
tiravo fuori la lingua per poterle sfiorare.
Davanti a te solo un ragazzo magro e lontano,
aveva il collo piegato dalla scoliosi,
ho immaginato che fosse nostro figlio.

Cercavamo i daini, erano passate delle ore,
a scoprire le loro tracce li credevamo vicini
ma attorno a noi non si muoveva niente.
Continuavo a scrutare il parco per non deluderti,
mi vergognavo di aver rinunciato così presto
e di non averti chiesto quanto ancora ci speravi:
«Non ci riesce mai niente quando stiamo insieme.»
«Uno dei due porta sfortuna.»

Ci eravamo fermati a una vecchia panchina
piantata su un dirupo, ci faceva impressione.
Incidevo le nostre iniziali sulla spalliera
con la parte aguzza della chiave di casa;
mi accanivo sulla curva della tua lettera,
imprecavo scorticando il legno duro,
mi sono riempito di schegge le dita.

Avevamo ripreso a camminare: tu avanti, io indietro;
il parco si è divaricato davanti a noi e ci ha coperti,
ci ha costretti ad avvicinarci – ti sei fermata, ti ho raggiunta.
L’erba si era abbassata e aveva cambiato colore come le alghe,
ci siamo distesi, era umida – il vento continuava a scombinarci:
«La prossima volta riusciremo a vederli, me lo sento.»
«Era l’unica occasione.»

Mi sono svegliato per un grido: guardavi oltre me,
mi sono voltato e ho visto una colonna di fumo nero.
Ti sei alzata, ti cadeva un ciglio, muovevi le mani senza scopo.

Il fumo s’ingrossava, s’inclinava – gli uccelli lo segnavano.
Non riuscivo a fare un passo né a consolarti; a differenza tua
non avevo paura di immaginare l’incendio in lontananza.

*

*

*

Ti ho pregato di scrivermi tutti i giorni da quando loro se ne sono andati. Quando eravamo piccoli, era il nostro gioco preferito, lo avevamo inventato noi. Amavamo questo più degli altri, più di quando premevi la fronte contro la parete e cominciavi a contare. Ti dicevo che non è così che si fa; ti dicevo di appoggiare un braccio alla parete e poi la fronte sul braccio per non farti male (te lo facevo vedere, per fare tutto più semplice, vedi devi fare così, come sto facendo io). Tu insistevi, dicevi che in quel modo ti sentivi soffocare, che ti veniva da dormire (e avevi paura di quel sogno). Allora mi arrabbiavo, ti dicevo fai come vuoi, e mi andavo a nascondere mentre ti sentivo contare piano alle spalle. Dicevi uno e io facevo un passo; dicevi due e io facevo due passi; sembrava fatto apposta, come se tutto il gioco dettasse la mia vita. Mi andavo a nascondere e sorridevo perché ti avevo già perdonato. Alla fine sceglievo sempre sotto il letto, anche se era troppo facile e lo controllavi subito. A infilarmi là sotto mi pareva di entrare in una nuova casa, il pavimento era pieno di polvere, vellutato, c’era sempre buio (per questo ogni volta speravo di non essere vista) e non potevo muovermi. Chi c’è c’è chi non c’è non c’è ti sentivo gridare dal corridoio e venivi a cercarmi. Cercavo di rimanere immobile (stavo sempre a pancia sotto) poi chiudevo gli occhi se io non lo vedo, lui non mi vede però poi li aprivo per curiosità. Vedevo i tuoi piedi entrare nella stanza, girare un po’ intorno, dietro la tenda, dietro i mobili. Anni dopo ho capito che mi avevi sempre vista da subito, che perdevi tempo solo per non farmi rimanere male. Ti avvicinavi al letto, ti ci sedevi su poi ti alzavi e ti ributtavi (avevo ancora il letto con la rete a molle, te lo ricordi? Quello col materasso troppo vecchio e sottile che mi faceva male perché sentivo le molle conficcate nella schiena), dopo la tua testa sbucava all’improvviso sotto, trovata! Mi spaventavo sempre un po’ come se fossi un estraneo ma quando sobbalzavo allo stesso tempo ridevo, però in quel modo brutto, quando mi si vedono tutte le gengive. Adesso vorrei mettermi di nuovo sotto il letto come facevo prima, mi sono girata a guardarlo, non so, l’ho guardato e mi sono venuti quei tic alla faccia, quanto vorrei farlo, mi batte forte il cuore, aspetterò i tuoi piedi lì, ti prometto che sarà tutto come prima, non cambierà più niente. Potrei farlo, potrei farlo adesso, tanto in casa sono rimasta sola, eppure non ce la faccio, mi vergogno lo stesso anche se non mi vede nessuno.

*

*

*

Per me non ha più senso fare il gioco delle lettere come facevamo da piccoli. Pensi sempre al passato come se fosse migliore del presente ma ti ricordo che hai fatto sempre così. Anche nel passato pensavi al passato. Un anno fa eravamo in cucina guardavi fuori e ti sei messa a piangere perché c’era il sole. Hai detto che ti ricordavi di quando due anni fa andavi in giro con Nico quando c’era il sole. E tre anni fa quando andavi sempre in giro sul motore con Nico poi tornavi a casa e mi raccontavi che avevi pensato a quattro anni fa quando eri salita per la prima volta su un motore a quanto era stato bello e che adesso non provavi più niente. Un giorno ti spezzerai il collo a tirarti per i capelli così tanto indietro. Oppure ti allungherai come un chewing gum alla fragola di passato in passato fino ad arrivare alla casualità di cellule che si sono ammucchiate per farti. Io non ci penso mai al passato se non fosse per quel sogno. Non mi manca so che non ero più felice di quanto lo sia adesso. Voglio dimenticare i giorni non appena passano e andare sempre avanti. Stanotte voglio dormire senza sognare. Voglio svegliarmi domani ed essere già vecchio con tutta una vita dimenticata.

 

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