Corrado Benigni | Un’intervista

Photography into sculpture

a cura di Francesca Santucci

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Francesca Santucci: La coerenza di poetica da Tribunale della mente (Interlinea 2012) a Tempo riflesso (Interlinea 2018) è forte: un invito costante alla decifrazione del segno, alla disamina del vero. Cosa significa condurre una ricerca sull’individuo attraverso le tracce, oggi che l’individuo è circondato dalla superfetazione di segni e produce di per sé una quantità vertiginosa di dati?

Corrado Benigni: Significa tentare, attraverso la poesia, di cogliere i segreti che il mondo nasconde oltre la pellicola delle apparenze. Attraverso le parole un poeta tenta continuamente di forzare la percezione e il linguaggio; crea una sospensione, una distanza in cui il senso del mondo forse non ci apparirà spiegato, ma almeno intravisto. In questo senso la poesia è anche uno strumento di conoscenza e un’attitudine dello sguardo. Uno sguardo, soprattutto in questo mio ultimo libro, che alterna l’abbassamento verso quanto c’è di più ovvio e piccolo nella natura, quanto l’alzarsi verso un orizzonte in cui ombelico è l’infinito. Non a caso una delle parole chiave di Tempo riflesso è ‘pietra’. Le pietre sono un simulacro perfetto del mistero dell’esistenza: numerose quanto e più degli uomini, così anonime, eppure ciascuna con una sua storia. Le pietre sono il prodotto passivo di forze gigantesche e casuali: ma proprio questo essere ostaggio del destino le rende così uniche; osservare un sasso che ti capita tra i piedi può aprire una vertigine di conoscenza. Questo detrito cosmico apparentemente senza valore e senza espressione, che racchiude in sé passato, presente e futuro, può dunque essere letto come il simbolo della mia ricerca sull’individuo attraverso le sue tracce.

FS: L’uso dell’imperativo e dell’asserzione rappresenta, in Tribunale della mente, uno spazio discorsivo rigoroso, fortiniano. In Tempo riflesso, l’uso assertivo e gli imperativi sono presenti, se pure in forma attenuata: la sentenza non è più quella di un tribunale, e il soggetto delle poesie parla più spesso attraverso una prima persona plurale che profila un’indulgenza nuova.

CB: Più che indulgenza, parlerei di uno sguardo nuovo sulle cose. In Tribunale della mente l’uso dell’imperativo e dell’asserzione era funzionale al tema del libro che ruotava intorno al grande archetipo della giustizia e dove anche l’area terminologica era riferibile all’ambito etico-giuridico. Molti termini ed espressioni erano mutuati proprio dal gergo della legge e delle aule di giustizia. E certamente in questo libro il magistero di Fortini è stato importante. Come è giusto che sia in un poeta, poi, ogni nuovo libro è insieme svolta e permanenza; dunque in Tempo riflesso qualcosa è rimasto della raccolta precedente: un’intima continuità di lingua e di stile, la passione giuridica per l’esattezza e il vocabolo preciso. Lo sguardo nuovo di queste poesie è prima di tutto sui dettagli, dove l’esteriorità si incontra con un’interiorità profonda e a volte indecifrabile. L’enigma dell’invisibile che si cela nel visibile, verrebbe da dire. In queste poesie ho lavorato molto anche su una maggiore concretezza delle immagini (la consuetudine con il linguaggio della fotografia mi è stata molto utile), aprendomi di più a quella che Saba chiamava la “calda vita”, tuttavia senza mai cedere all’autoreferenzialità. Il vissuto personale, pur presente, appare sfumato e solo accennato, pretesto per riflettere sul mistero del tempo, sulla sua natura di sfuggenza e di enigmatico deposito. In Tempo riflesso ho voluto trasmettere l’emozione nel sentire e osservare il mondo (anche nei suoi aspetti più abrasivi), un’emozione che increspa tutte le poesie, che si muovono tra il nulla e la luce breve del vivere, in cerca di un misterioso senso dell’origine, perché alla fine quello che davvero mi interessa è l’interrogazione sulle questioni ultime della nostra natura e del nostro destino di uomini.

FS: Nel testo Orme il soggetto si chiede: «cos’è la nostra vita fuori dal tempo?». E cos’è la nostra vita fuori dallo spazio? Tempo riflesso, più che un senza-tempo agostiniano, sembrerebbe parare davanti al lettore un immaginario che astrae la spazialità («Tutto è sullo stesso orizzonte / e si assottiglia fino a svanire, / barlume puntiforme di tempo»), e già a partire dal titolo. Questo, però, all’interno di una raccolta che organizza molti dei suoi testi attraverso una pratica di ekphrasis e che ripone nell’esercizio scopico un’attenzione dichiaratamente particolareggiata (penso, ancora, al titolo della raccolta, e alla citazione da Benjamin in epigrafe alla sezione Apparenze). Lo spazio, dove c’è, è in funzione del tempo, mi pare: serve a misurare il tempo. Più che di spazio, bisognerebbe parlare di immagine: le categorie indagate dal soggetto della raccolta non sembrano quelle di spazio e tempo; direi più di immagine e tempo.

CB: Il tema di fondo del libro è il tempo, intrecciato al motivo del rapporto tra parola e immagine. Ho cercato di esplorarlo creando soprattutto nell’ultima sezione, dal titolo non casuale di Apparenze – una specie di gioco di specchi tra queste due tecniche espressive, utilizzando in questo senso la figura dell’ekphrasis di cui parli. L’idea di fondo è che le parole, così come le immagini, possono rappresentarci solo condensandoci nell’istante, mentre la vita avviene nel tempo, nella durata. Poesia e immagine appaiono come la declinazione di una fonte comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi. Non si tratta di riprendere il precetto oraziano ut pictura poesis, ma di mostrare che poesia e immagine non rappresentano la realtà così come è, piuttosto un’idea, che sono strumenti di indagine metafisica. Tuttavia in questa indagine lo spazio c’entra: della temporalità infatti tratteniamo solo un gioco di riflessi, che rimbalzano da una superficie all’altra in cui siamo immersi. Potremmo dire che lo spazio è senso esterno e il tempo è senso interno: ecco perché molte poesie del libro sono costruite proprio sul rapporto tra interno ed esterno. Kant diceva che noi non possiamo conoscere se non spazializzando e temporalizzando, e ciò avviene contemporaneamente nella percezione. Per questo “l’esercizio scopico” diventa fondamentale in questo libro.

FS: Tempo riflesso (e Tribunale della mente, prima di lui) presenta componimenti dai versi estremamente lunghi, versi-frase, e la sezione Dall’invisibile è interamente composta di prose. È una lunghezza che tuttavia insiste su un proposito antinarrativo, eminentemente lirico.

CB: Il mio lavoro, in generale, si caratterizza anche per l’intimità tra poesia e pensiero. In questa sezione, in particolare, il rapporto tra queste due dimensioni è ancora più stretto e certamente è una delle ragioni per cui i testi sono in forma di prosa. Tuttavia il passaggio dalla lirica alla prosa, e viceversa, avviene in me in modo naturale, è sempre una questione di ritmo, che nasce spontaneamente nella mia mente in funzione di quello che esprimo. Per dirla con Victor Hugo: «La forma è il contenuto che affiora in superficie». L’alternarsi di scrittura in versi e prose liriche riflette la ricerca di un equilibrio anche stilistico tra tensione verticale dell’a capo e distensione orizzontale della prosa, dunque tra sintesi e analisi. Hai ragione quando parli di “antinarratività”: nei versi in prosa c’è sempre un andamento ritmico non casuale. D’altronde se non vi fosse un’organizzazione ritmica all’interno del verso non vi sarebbe poesia, perché è il ritmo, sia esso musicale o iconico, la spina dorsale di ogni testo poetico.

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Segno

Tutto lascia una scia di scrittura.
Tutto si muove in un’unica sintassi.
Le onde che ci attraversano
in assenza di campo,
l’acqua che cancella e decifra.
Nessuna direzione è tracciata,
eppure qualcuno per noi
volta le pagine di un libro
dove ogni azione è segnata.
Ma a quale appello rispondono
le cose che non riesco a nominare?
Nulla è promesso, nulla è sottratto
e la strada è muta.
Lo dicono queste pietre
che abitano il presente prima di noi.

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Fermo immagine

Le bolle di sapone grandi come auto
soffiate da un artista di strada a Oxford Street
e i guanti senza dita della ragazza dark seduta a fianco
sulla metro a Charing Cross. Estate 1992.
Il mendicante chiede pietà all’uscita della stazione,
mentre due ragazzi si baciano
seduti sui leoni di Trafalgar Square.
Tra le palpebre socchiuse provo a fermare
l’immagine di quei volti
intrecciati per un attimo col mio.
Cosa davvero abbiamo vissuto, domanda una voce,
come dal fondo di un vetro.
Tutto sembra rimasto in attesa
dietro gli occhi, sgranato
nella velocità del tempo,
sospeso in un silenzio di nomi.
Troppo brevi i miei passi.
(La memoria ci avvolge,
ha una membrana trasparente
e guardandoci attraverso,
ci cambia la visuale e la luce).
«Chi sei ora?
Chi risale dentro questa prospettiva di ombre?»

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Il mondo invisibile degli insetti

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C’è una luce che trionfa e dura in tutto ciò che esiste di minuscolo e molecolare: le ondulazioni delle ragnatele, il luccichio delle zanzare vaganti, le gemme che si prolungano in steli. Nel fango si scorgono distintamente le forme, simili a larve, di innumerevoli esseri senza nome, che ne emergono e si rituffano. E mentre animali più grandi dormono, un mondo invisibile di insetti si agita dentro la pienezza della vita. Nella natura di quello che non sappiamo distinguere dimora sommersa l’evidenza di ciò che siamo.

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La fotografia è un testimone che non mente
porta impressa, sicura, la memoria,
come la superficie l’orografia di un paesaggio.

Siamo se non nel segno di chi scrive
o guarda.

Così ci specchiamo nei corpi non trasfigurati
di un’immagine, nella loro violacea penombra.
Ma cosa divide dal nostro il loro destino?

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da Tempo riflesso, Interlinea 2018

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Immagine: Michael Stone, Photography into Sculpture (2011)

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