Nei dintorni di Planaval con Stefano Dal Bianco

Ardan, Platanus orientalis

Da poche settimane è uscita, per la collana Gialla Oro di LietoColle, la ristampa di Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco. Il volume ripropone il testo della prima edizione (Mondadori 2001), seguito da una postfazione inedita di Raffaella Scarpa, uno scritto di poetica dell’autore e un saggio di Fernando Marchiori. Presentiamo l’uscita con un estratto del saggio di Marchiori.

*

*

“Restare senza niente (niente che uno apprezzi) tranne un modo di scrivere, forse non è un male per uno che scrive.” Il dimesso apoftegma di Luigi Meneghello (Le Carte, vol. III) ben si attaglia allo stile e vorremmo dire alla persona di Stefano Dal Bianco. Chi conosca l’autore di Ritorno a Planaval  (Mondadori 2001) – chi ne conosca la biografia e il volto perplesso e la bella mano pronta a tambureggiare metri e discernere versi – potrà leggere infatti tra le righe cose che le parole non dicono che a noi, a ciascuno di noi, e che pertanto sono irripetibili. Restiamo dunque nel luogo che ci viene spalancato, quello della poesia, che qui del resto – come ogni vera poesia riesce a fare, e non ne avremo mai la formula – accoglie e comprende pienamente, tacitamente anche la vita. E non perché l’antinomia vita/scrittura vi sia risolta, ma perché è da quella antinomia, sempre bruciante perché viva, che la poesia nasce.
Per entrare nello spazio di questa poesia dobbiamo – è il poeta che ce lo chiede, ed è il suo modo di venirci incontro – attraversare la soglia, e prima ancora riconoscere che c’è una soglia, che anzi ce ne sono due: una che ci sta già portando dentro e una che ci farà uscire dal libro. Sono soglie prive di insidie, chiare e quasi fisiche nel loro sporgersi verso di noi, nel loro aprirsi fiduciose al nostro passo incerto. Sono i limiti del corpo poetico. Per varcarli occorre un gesto. Anzitutto un gesto di fiducia, poi, alla fine, sul bordo estremo all’altro capo del libro, un gesto e basta. Un gesto e un pensiero. Un gesto che è un pensiero.
Ma soffermiamoci sulla prima soglia:

I sensi

Il pesco che vedo fiorito tra i cumuli della città di Milano non è l’idea della vita che vince il cemento ma solo un’aria di cemento, una vita di cemento nel pesco, la mia vita. La nostra vita elusa sopra i tetti.

Allora guardo la forma del pesco,
scavo nella sua chioma piccola di ladro
la parola pianta, la parola parola
che lo possa salvare
che mi possa salvare e provo a dire: sì,
per la forza di una parete, sì,
perché il tempo ripeta
tante volte la stessa stagione
e mai nella mia casa.

Sono sul muro sette sensi
legati l’uno all’altro a due a due, consolidandosi
l’uno, l’altro sparendo senza paura di sognare…
Sono disposti in forma di poesia, che dice:

*          “Il primo senso
*          è il senso della gioia, senza scopo, come quando
*          si rivela una cosa.

*          Il secondo è quella cosa, resa vicina,
*          di cui non devi mai parlare.

*          Il terzo senso è notturno,
*          dove nessuno vede niente
*          dove la mente resta uguale.

*          Il quarto senso è con l’amico fiore,
*          e tu e lui siete una cosa
*          abbandonata sotto un cielo chiaro.

*          Il quinto senso è lontano dall’amore.

*          Il sesto senso è non di te.

*          L’ultimo senso è tutti quanti,
*          settimo senso inespiabile,
*          indurisce
*          la parola in parola, il muro in
*          muro”.

Umanità minuta,
della stessa sostanza del mio cuore,
fammi dei morti e io sarò salvato.

Sul primo limite la chiarezza è dello sguardo su un pesco “fiorito tra i cumuli della città di Milano”. Sguardi, città, fiorire e ripiegare di nature naturate, e più avanti ancora sguardi, lune, case, venti, animali: sono gli attori di una scena che certe volte ci sembrerà lasciata sola, svuotata di ogni umanità, e sarà solo per cercare di dare spazio a una presenza che ci diminuisce perché ci vede fare parte e annichila l’arte e il mestiere di vivere. Ci chiede di essere partecipi non artefici del mondo.
Qui il pesco, il suo grumo di vita restio alla soluzione antropomorfa (alla “sua chioma piccola di ladro” – ed è la posizione dell’attributo a farcelo perdere di vista e a riportarci sull’azione che pensavamo di poter lasciare inerte all’inizio del verso: scavo) vengono a fugare subito l’equivoco romantico: nessun afflato consolatorio, idillico o rivendicativo: “non è l’idea della vita che vince il cemento ma solo un’aria di cemento, una vita di cemento nel pesco, la mia vita. La nostra vita elusa sopra i tetti”. La rinuncia è già stata, è lontana, è alla radice più profonda di questo sentire. Che elude la vita e lascia perdere l’io, lo stempera in una persona plurale che appare adesso per la prima volta e non sappiamo quanto ci riguardi.

Così se dopo queste poche righe in prosa entrano già in campo (in forma) i versi, non possiamo fraintendere. “L’albero delle mele è un albero di mele”, era l’esergo di una delle prime uscite di Dal Bianco su rivista (la padovana e semiclandestina “Inverso”, nel 1985), citando dalla prefazione a La parola innamorata. Ora dentro quella pianta innestata di altra vita, che l’esperienza del limite ha sfrondato – sfrondò: il passato è remoto – di ogni trascendenza, Dal Bianco scava “la parola pianta, la parola parola”. Strappa alla “realtà” un’immanenza – la sola che possiamo condividere sulla pagina perché passa attraverso il linguaggio – che ci lasci considerare la pianta, il muro, la nostra relazione con la pianta, con il muro. Che ci offra di esperire il nocciolo duro, “reale”, del linguaggio. Su ciò di cui non si può parlare si deve scrivere, ha insegnato María Zambrano violando il tabù del primo Wittgenstein. È questo paradosso a scavare nel linguaggio un altro linguaggio, il vuoto necessario a un diverso dire. Ed ecco un fare poesia che se ne assume il compito. Anzitutto chiarendo i termini – i limiti, appunto – del proprio discorso, in una vera e propria teoria della percezione. Salvare noi e il pesco, noi e il muro, io e noi – io nel noi – significa consentire il trascorrere di una medesima vita, fino a farsi muro e nel muro sentire il fluire rappreso dell’acqua. Perché anche il mare di cemento di una città “sotto sotto si muove, ha delle vite in sé”, dirà più avanti la poesia del Trasloco.

I sette sensi

I sette sensi “disposti in forma di poesia” – poesia nella poesia nella prosa, ma disposte come cerchi concentrici, in progressione sullo stesso piano orizzontale, non mise en abîme: poesia che non gerarchizza, che mette sullo stesso piano o segue le striature non la verticalità – stanno ai cinque sensi canonici come io sto al mio corpo, a quel corpo che credo di sapere “mio”. E stanno al sesto senso ipocrita di vati e fanciullini come io sto all’immagine che ho di me, a quel che credo essere “io”. Come distinguere e ascoltare tutti gli altri sensi senza nome del mio corpo, e i miei diversi da quelli? Dal Bianco si deve inventare una nuova nomenclatura sensoriale per cercare di dire qualcosa di profondamente sentito, facendo finalmente a meno di quell’ingombrante eredità novecentesca di indagine e sperimentazione (poetica, politica, psicanalitica) sui sensi che ha finito per renderci insensibili.
C’è allora un senso primigenio e immediato, innocente come lo è il divenire: il “senso della gioia”, un senso in-fante; perciò è legato a un altro più segreto: “quella cosa, resa vicina, di cui non devi mai parlare” – la prossimità silenziosa e il tacito accordo, l’affinità elettiva o l’assistenza ai moribondi? Il terzo è notturno, ma di una notte in cui le vacche possono anche sembrare tutte nere, quello che conta è fermare il pensiero, arrestarne il flusso entropico, disinnescarne il meccanismo antropocentrico. Se “la mente resta uguale” e “nessuno vede niente”, allora può aprirsi lo spazio per un senso creaturale ma assolutamente antimetafisico: essere “abbandonati sotto un cielo chiaro”, tutt’uno con “l’amico fiore”. Niente altro – dove il niente non ci esime dal sentire-pensare all’altro. Anzi, ora tutto è altro. Il quinto e il sesto sono i sensi del non-amore, dell’amore che nella disposizione litotica promana e si dilata in un alone che ne fa sentire più limpida e forte la pregnanza nell’assenza, nella lontananza. E dona quella postura di fronte al mondo, quel distacco amoroso dalla vita che è il tono più caldo di Dal Bianco, il suo sereno sorriso tra i versi. Oltre, c’è solo la concrezione minerale della vita apparente, la durezza cristallina del quotidiano morire, l’insensibilità “inespiabile” perché si espia una colpa e questa non è neanche più percepita come tale. È questo l’ultimo senso, e serve a scrivere: “indurisce / la parola in parola, il muro in / muro.” Serve a generare nella fissità. Come quella geminatio in enjambement che cementa il verso mentre lo spezza, e sembra quasi tenere insieme tutto quanto è stato detto, tutto quanto verrà detto.
Della “stessa sostanza del mio cuore” è allora il pesco, è il muro, sono le cose – come non rilevare un’eco della sensibilità tozziana, sia pure in una lingua che non inclina mai all’espressionismo?, sono le presenze minime alle quali il poeta chiede la misura della riduzione del sé. Poiché l’uomo è più piccolo, molto più piccolo di se stesso. E al fondo, dove tutto si indurisce e sigilla, dove l’ultimo cerchio – il più interno e “inespiabile” come il settimo senso – è quello che contiene tutti gli altri, persino la frusta parola “cuore” può tornare a dirci qualche cosa. Non è la sola vicinanza sabiana del passo, se si considera al verso precedente quell’“umanità minuta” che nel balbettio dell’anagramma sembra continuare la discesa salvifica tra gli “umili” di tutte le città vecchie dell’anima.
Il “fammi dei morti” di questa laica preghiera “capovolta”, in quanto invocazione verso il basso e per una salvazione che è un abbandono, dice una volontà di essere per i morti – non l’essere-per-la-morte di heideggeriana astrattezza – che significa fedeltà al silenzio dei morti. Si capirà addentrandosi nel libro che un tale atteggiamento etico porta dalla fedeltà ad una persona che è morta, segnando la vita di chi è rimasto – e stare, restare sono tra le parole chiave, ma chiave che vuol essere girata – fino alla considerazione di noi come anche parte di “una zanzara uccisa con il nostro sangue”, in un unico movimento che abbraccia, o forse non abbraccia ma solo guarda e considera tutte le cose senza giudizio né conclusione alcuna. Lasciandole essere quello che sono. Continuando a chiedersi semmai che cosa sono. Un modo al di fuori del paradigma antropocentrico per tornare a chiederci, cosa tra le cose, che cosa siamo noi.
E come per un bisogno di risonanza poetica condivisa, per dare visibilità (cantabilità) a una mestizia che non vuol essere detta presunzione né lamento – o forse per un rigurgito, “un resto di un bisogno di bellezza”, come altrove viene giustificato il cedimento alle forme (della poesia o del mondo, qui cambia poco) – il poeta ricorre al calco liturgico: al Credo per il penultimo verso, al responsorio dell’eucarestia per l’ultimo. Anche inconsapevolmente, anche senza riconoscerne l’origine rituale, al lettore può capitare di sentire una voce nella propria voce silenziosa: tolta la tara – tolta cioè ogni sacralità alla formula, ogni solennità alla clausola – quella che resta dovrebbe essere la voce della poesia. O almeno quella del poeta.
E così abbiamo compiuto un passo: abbiamo varcato la soglia. Ora possiamo ascoltare. Sentire di stare ad ascoltare – ovvero la disposizione all’ascolto dell’altro (e per una volta sembra superfluo il corsivo) come percezione della sua possibile presenza ma anche come percezione della mia stessa presenza, della relazione che si sta aprendo. Come lettore, sto insomma cominciando anch’io a guardarmi da fuori. Posso forse entrare nella poesia se prima esco un po’ da me stesso. È stato scritto sul risvolto di copertina che Dal Bianco “è un uomo che si guarda vivere ad ogni istante ostinatamente, dolorosamente”. Non potrebbe importarcene di meno se, nel seguire il suo de-lirare, non sentissimo subito, fin da questa prima poesia, qualcosa d’altro dalla solita auscultazione egocentrica e autoreferenziale, se non ci trovassimo improvvisamente anche noi spostati, fuori dal nostro centro, esposti.

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Immagine: Ardan Özmenoğlu, Platanus orientalis (2008)

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