di Gabriel Del Sarto
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da Sul Vuoto [Transeuropa, 2011]
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Le foglie
Cresce fra le strade di Firenze il mio profilo,
che ogni mattina immagino fermarsi in un bar
dove fanno il caffè nel modo che ami. Nelle svolte
di una bici il mio tempo assume forme
che mi sfuggono, una vita
nella quale le cose si ripetono e si fanno felici
di se stesse – come se uno sguardo fosse tutto
quando si posa e ti lasci guardare.
Le foglie
richiedono la loro dose di cura al vento
e al cielo, e le nuvole
sono innocenti quando corrono
veloci nelle mattine
viste dal lungomare. Anche domani
avrò una linea da percorrere, un viale
con incroci, come la prima volta, e incontri
e la percezione di acque che mutano se la sera
porterai il mio nome fra le cose che curi.
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Il tempo si allontana
Ad A.
La fiamma bianca delle luci del Centro
Commerciale divampa nel cuore
della nostra zona, lama
fra le tapparelle di plastica sottile.
Siamo qui, lasciamo scorrere sotto
la finestra di questo ufficio il traffico
delle auto sul cavalcavia, persone vetri
e metallo. Stare silenzioso di fronte
a te, in questa penombra. Un’ora,
e il tempo si allontana attraverso il tempo
nei milioni anni luce, e questo fidarsi,
sai, di esserci ancora stasera al mondo.
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Il senso
Il senso era qui, luminoso
e perduto, nell’attenzione improvvisa
dei tuoi occhi mentre mi parlavi
di lui, del tuo sognare la sua morte
mentre accadeva. Eri qui. Lo sguardo
su te ora è sul vuoto e quella sedia
è come morte, altra morte ancora.
Siamo questa speranza
trafitta dalla cenere dopo la luce
di un gesto, come se avesse questa tua pazienza
ogni storia, o differenza, che sapevi
e raccontavi: così ascoltare era come
assaporare il tessuto che mi lega
al dolore di un padre e di un figlio.
Il resto, le guerre, è lontano da qui
e viviamo in un mondo ovvio,
che non si cura di noi, e lo chiamiamo
casa. Ma anche stasera dopo il pasto dopo
il cartone animato, i popcorn caramellati,
soffrire fonda la serietà della vita. Sono
gli infiniti che si raccolgono
nel sonno dei miei figli, sonde e respiri.
E non so quale notte poi,
dolce e infinita forse, è la forma
del racconto che da oggi ti comprende.
Se quel vento è intimità che salva.
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Da Il grande innocente [Nino Aragno, 2017]
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Il tempo e la vita
Quando di nuovo abbiamo parlato di quel giorno
l’acqua mista al sangue – ti ascoltavo
e immaginavo il ferro e l’ossigeno
nelle emoglobine, il destino cambiare – e il dolore
che niente ha cancellato, ho saputo
come la natura si concentri nel tempo
di ciascuno: un’assoluta
ed armonica compossibilità di volti
e sofferenza.
(Esiste quasi
da sempre anche l’Anticlinale,
è una piega
delle rocce, una struttura
dove gli strati sono convessi
verso l’alto e puoi trovare, dicono,
dal basso a salire, l’acqua
che satura tutti i pori, gli idrocarburi liquidi, il gas
che si accumula all’apice della piega. Ancora
azioni e parole. La contraddizione
che governa ogni cosa.)
Ogni tanto ancora un cenno. Fa parte
di noi, di questa storia ricordata.
Può bastare un articolo o un post
in rete letto a voce alta dentro
le stanze che abitiamo, il silenzio
dopo, uno sguardo al posto di ogni cosa,
leggere contrazioni, siamo noi,
è la vita, quando la prima morte
è quella della parola che manca.
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La neve svedese
La neve svedese, gialla di piscio verso sera
sotto l’albero, non è solo una descrizione. I tempi
diversi, le notti che arrivano dal mare,
i colori delle case, hanno un suono
che ricorre, sono un catalogo laico
comprensibile solo negli anni. Il giorno
qui è andare fra le erbe secche, scendere
fino a quella roccia grande sull’acqua
che anima il gioco di un bambino, sentire
la scuola nella ricreazione come un quadro
del nord, come la pagina delle rincorse
nel vento. L’importanza del respiro
e la sua disponibilità alla vita. Questa
è la luce: le cose che ora posso
vedere. Quella neve, quella roccia, un mare buio
come il mio terrore quando la fine
può arrivare, e vuole essere con te, estesa e adesso.
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The Lasting Life (da J. H.)
The glory of man is his capacity for salvation
(T.S. Eliot)
Cos’è quello che prego quando prego
che tu possa essere vista, tu intera, dagli dei
o dal cosmo, tu nel tuo carattere, divenuta
ormai vecchia? Quale forza chiedo
che infine emerga? Sarà una voce discesa
da me e da ogni antico, una potente
epifania della longevità che ci visita,
qualcosa dell’inconsistente traccia
che siamo, splendido pigmento scuro
sulla linea sottile? L’Altro che ti guarda
da lontano, a figura piena. Anima
sconfinata nel disegno, oltre il tempo
e la gloria pensata adesso.
Più tardi
ci sarà molta più notte, mi dici
la vigilia di natale, mentre scivoli
sotto la coperta. Ci sarà un buio
vero – ci sarà la capacità: sostare
sul vuoto: abbastanza cielo, quando
la solitudine rende tutti i corpi
distanti dall’ultima onda, infinite
linee divergenti. Le cose accadono:
origini e livelli d’esperienza
che si sovrappongono, storie e polveri
e notizie di foglie. Poi
l’altra salvezza: senza sosta esplode
la domanda la parola e nella corrente
la vita. Sì, abbastanza: quel nome
sentito è il tuo, il mio, senza fine musica
per il mondo che comincia.
*
I cardini
I cardini di una lingua. Quando i miei occhi si aprono
la fatica delle parole nell’aria, piccolo sciame
sconosciuto, si compone e spira come la preghiera
della notte, come le mani di un padre sulla testa
della figlia, la febbre che non se ne va. Questa
è l’onda che non so contenere, il rosario che si prende
ogni goccia della mia impotenza. Un mare
mi si accosta – conta il fluire.
– Ecco,
lo stormo che ora sbanda fra le nubi
di questa tempesta improvvisa,
lotta e non sa nulla di questa casa
di noi che lo osserviamo da dentro
come vedere una foto sbiadita.
Ancora la fatica delle parole
e la somma delle albe per dire solo: meglio
per dire qualcosa di sgradevole:
serve del sacrificio: la rinuncia
a qualcosa di comodo
per andare incontro all’albero. Per esempio:
del tempo e dell’acqua per lui.
*
Immagine: Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996