Su ‘Lingualuce’ di Damiano Sinfonico

Rainbow-Church-07

di Alessandro Mantovani

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Lingualuce è la seconda prova poetica di Damiano Sinfonico, finalista al premio Rimini 2017 ed edita per L’Arcolaio. Il testo, scritto durante un periodo di docenza in Spagna – Granada, Andalusia – conferma la tendenza dell’autore al componimento breve ed epidittico. Tuttavia, ben di più rispetto al precedente Storie, la concentrazione dei testi verte sul concetto dell’accadere. L’idea di “accadimento” infatti è declinata variamente all’interno del testo; un accadimento fattuale, l’azione inaspettata, e un accadimento linguistico, la parola.

Si può dire che entrambe le modalità attraverso cui le cose avvengono nel testo non abbiano in interesse l’oggetto, ma il processo stesso. Non è importante cosa accade, ma il fatto che qualcosa divenga ad essere. Per quel che riguarda l’aspetto fattuale l’atto è colto nella sua duplice natura, labile nei confronti dello scorrere del tempo – niente dura –, ma incisivo nella dimensione memoriale. Le cose, pare dire Sinfonico, si realizzano in essere solamente una volta, ma modificano la realtà divenendo tasselli imprescindibili in una visione diacronica.
La forma scelta per le liriche è perfettamente rispondente al duplice aspetto summenzionato: l’accadere si concretizza infatti in forme frammentate, impedendo, nella visione dell’autore, una tessitura narrativa tra i singoli componimenti, dimensione che però viene recuperata all’interno dei testi stessi i quali, non concentrandosi sull’avvenimento presente, generano squarci diacronici sul passato – o sul futuro –, intessendo relazioni con ciò che li ha preceduti o che le seguirà. A bilanciare questa visione particellare e potenzialmente nebulosa della realtà sta però la struttura del verso-frase (già impiegata da Sinfonico) che tende a dare una stabilità assertiva agli enunciati, una solida garanzia di verità per quel poco che è dato vedere.

Identico discorso vale per la riflessione linguistica, maturata durante l’esperienza estera. La lingua come evento esiste solo nel momento in cui viene pronunciata; eppure questa dimensione labile è epistemologicamente necessaria per la comprensione del mondo. Conoscere la realtà significa poterla nominare, ma il processo linguistico è costantemente minato dagli ostacoli del “come si dice” – titolo della sezione centrale del libro. Dietro a questo aspetto linguistico sta la tensione cognitiva nei confronti del mondo; il linguaggio è un semplice accadimento («Strana e accecante la tua frase recente / […] più avanti si farà impercettibile / sarà una vibrazione in qualche area della memoria»), ma è necessario per capire, conoscere e ricordare («“Come si dice” vorremmo sapere / nonostante i silenzi / tutto questo che ci parla»). La vicenda dell’insegnamento all’estero manifesta come ancora prima di nominare un ente sia fondamentale provare a farlo, cimentandosi con le possibilità e i limiti della lingua. Imparare “le parole giuste” serve a interrogare la realtà per ottenerne risposte; è così che si ritorna alla dimensione epifanica prodotta dal linguaggio stesso. La parola si manifesta illuminando prospettive inaspettate.

Sarebbe interessante portare una riflessione sull’aspetto del libro inerente il valore della memoria. La raccolta pare sottolineare il grande problema che affligge la dimensione memoriale: i ricordi – le storie – si danno solo a brani. Il primo luogo dov’è difficile intrecciare una narrazione – ma in cui bisogna farlo – è la nostra mente. Tuttavia, in questo frangente sembra chiara la risposta dell’autore: è difficile perdere ogni acquisizione. La dimensione evenemenziale in cui sono inseriti atti e parole non permette che si perda l’impatto di questi stessi. I fatti restano nella dimensione del ricordo e della storia e la lingua è lo strumento – altrettanto limitato – per coglierne la valenza. Pare insomma, che la dimensione dell’esistenza umana sia caratterizzata dalla precarietà, ma è proprio su questa che si fonda ogni acquisizione umana.

***

È accaduto un pomeriggio al museo.
Poi abbiamo tardato prima di rincasare
faceva freddo, il cielo coperto.
Nei dintorni c’era un ristorante
ci siamo seduti a un tavolo, come a bordo vasca
le nostre ombre friggevano sul piatto.

*

“La sua vita non ha lasciato tracce”
stavo per scrivere in un articolo.
Poi ci ho ripensato.
Non si può scrivere una cosa più crudele.
La vita non si scioglie come neve.

*

Immagine: Tokujin Yoshioka, Rainbow Church (2010)

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