da Panasonica (libro inedito)
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Che “mantieni la parola” significa
che la tieni per mano la parola
stai attento a farle attraversare la via
aspetti un attimo prima di lasciarla
fino a quando cresce e diventa parabola.
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«L’America aveva i suoi dolori!»
Ma suona meglio dialettale questo verso,
dulùr come dolàr nel gergo navigato dei migranti:
i dollari stipati nei dolori, le ferite in valigie di cartone.
La guerra deve avere bombardato anche la lingua
e ancora siamo a scrivere qualcosa d’inesploso.
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A che volume vuoi che alzi il mondo?
Compi un gesto che vale una scultura:
con la mano pieghi il padiglione auricolare
come un calciatore dopo i fischi
e convogli il nonsentito nel canale uditivo
dove il buio delle voci va tra incudine e martello
sperando l’appenasentito pizzichi il nervo
e sia un segnale, la tua parabola colga
la parola, le strappi i petali del silenzio.
A che volume vuoi che alzi il mondo –
questa stereofonia della carne profonda?
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Se non ci fosse questa casa in mezzo
ci vedremmo da balcone a balcone
ma questo muro che ci mette alla berlina
divide l’Est dal Videtur ogni mattina
spacca l’Essere dal Sembrare come un melone
come se quanto non si vede esiste per un vezzo.
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Allora non è vero che siamo diversi dalle macchine,
che loro si rompono e noi resistiamo in piedi
se poi si staccano pezzi anche dal corpo nostro
e non si riattaccano, non funzionano a mezzo servizio:
o connessione o silenzio, o vecchiaia o morte
non si passa mai in mezzo, sempre sul bordo sconnesso.
Rimetti a loro le nostre voci quotidiane, liberaci
dal mare che manda sulle onde quel rumore di fondo.
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Immagine: Olivier Blaecke, Glitchomatik 0.01 (2010)
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