Azzurra D’Agostino, Alfabetiere privato

crippa

 

[Mercoledì 5 Aprile 2017, nell’ambito delle attività del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature antiche e moderne dell’Università di Siena, si è tenuto un incontro di carattere seminariale sul lavoro poetico della generazione di autori nati negli anni ’70. A moderare l’incontro è stato Stefano Dal Bianco. Sono intervenuti Azzurra D’Agostino, Lorenzo Carlucci, Stelvio Di Spigno e Gherardo Bortolotti. Nelle prossime settimane formavera proporrà i loro interventi seguiti nei giorni successivi da una scelta di testi. Escono oggi una serie di poesie di Azzurra D’Agostino (qui il suo intervento uscito lunedì scorso), che ringraziamo per la concessione, da Alfabetiere privato (Lietocolle 2016).]

*

Non ha chiesto voce non ha preteso nulla
e nulla ha chiamato l’uccello cascato per terra
sul cemento o l’altro giorno sull’asfalto il fiato grosso
del cerbiatto sbattuto a lato della carreggiata.
La donna se ne stava lì accanto, la macchina ancora in moto,
come uno che tra poco se ne deve andare via. Quanti cavalli, pistoni,
fiancate e sportelli vale il fiatone di un cervo piccolo che muore,
l’occhio sbarrato di uno vivo che ha paura, che non capisce niente
e forse muore. Noi lo abbiamo visto per poco, passando veloci
come vanno le auto, uno strattone al respiro e agli occhi e poi via
la curva è un’altra, e guardavamo in basso o altrove, fuoriposto come certi
contadini nelle foto dei secoli scorsi, stretti nel vestito che li avrebbe tenuti
stretti per l’eternità.  Chissà se si può scrivere delle bestie ammazzate
o di certe facce incontrate in città
gli occhi non più illuminati gli occhi come lame
i solchi a increspare la pelle e la voce, ombre ai margini dei parchi,
fagotti sulle panchine, noi che non sappiamo niente,
noi che non sappiamo e non possiamo.
Chissà se si può scrivere o è immorale
che di ogni strazio sentivamo d’averne colpa
e non avevamo posto e non avevamo rimedio, sapevamo solo
chiuderci nella stanza e riempire quella pagina
che in un mondo senza male
sarebbe stata bianca.

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E ora che ce ne siamo andati e ora che se ne sono andati
tutti e il posto si direbbe deserto il luogo si direbbe di certo
inabitato lasciato ai muschi alle muffe se l’è ripreso la natura
se l’è ripreso il bosco questo posto tanto che chi ci passa per caso
chi butta dentro il naso dalla spaccatura solo buio vede e non crede
agli uomini all’usura dei piatti lavati a quelli che ci sono stati.
Ma. Pellicce sostituiscono capelli. Artigli che furono unghie.
Di pelle solo quella d’un serpente, l’ha cambiata, l’ha lasciata qui
e s’è seccata. Molti sono i modi del noi. E adesso ci siete voi, di mani
ci sono le vostre, ascoltate. Questa è la terra. Fatene quello che potete. Credete.

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Fossili fanno fremere la storia, come un vento fra le foglie di un faggio secolare
come l’arrischiare del falco e della foce o il canto cantato con tutta la voce intera
di poeta era dopo era nella pineta pietrificata che è il tempo: Pompei e Hiroshima,
i sassi, la cima, il colore della ruggine la testuggine che silente deposita uova su spiagge deserte.
Le aperte rive disumane le sovrumane doglie le faglie le placche le soglie sabbiose le rocce
il calcare il posare il piede o la zampa o la pianta palmata su un ribollire di lava,
su pietra lavata, crosta leggera di roccia e cristallo che separa il lapillo dal divenire fiamma,
l’essere che si sparpaglia in una gamma di esistenze, le resistenze ottuse del vivere, comunque,
quel procedere smottato della natura, quel ricercare la radura come fa la bestia
quando deve amare, o morire. La valanga il terremoto lo scoppio il disastro
l’astro che eclissa che collassa che risucchia pezzi d’universo eppure sembra non si senta perso
il pettirosso in quel suo minuscolo canto sembra non abbia paura che s’abbandoni tutto nel suo
essere semplice creatura. Fiorisce il nome di un Dio non solo nel ciglio tra il brutto e il bello.
Fiorisce l’oltremondo nel petto, nel canto appuntato alla gola d’un uccello.

*

*

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Donne e donne madri figlie nonne zie sorelle
quelle che le prendi in cucina, o di nascosto
in soffitta, in cantina, quelle che stai zitta
cretina che ci sentono vuoi che ci senta
tuo marito tuo padre tuo fratello bello
questo cielo bello disegnato di tramonti
come qualcosa fatto per essere guardato
per guardarlo invece di guardare altro
per altro andare con la testa le strade in alto
così più sgombre di quelle della terra,
dello stare in famiglia come in una guerra.

*

*

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Discorso tra un’ape e una foglia
(da una poesia di G. Leopardi che imita Arnault)

Dove vai? Dove voli tutta sola?
Chiede l’ape alla foglia dalla soglia
di un petalo di rosa. Vado – risponde quella –
dove va ogni altra cosa, come il fiume e la stella.
Ho lasciato il mio ramo, un bel fusto d’alloro
e vado vagando d’intorno e tutto intorno ignoro.
Non diversa da te sarò confusa nel resto
nell’impasto del mondo che più prima di presto
ci fa uguali sorelle nel vento disperse
per sempre le stesse noi ora tanto diverse.

*

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Nella bellezza dell’universo vi è
un silenzio che rispetto al silenzio
di Dio è come un rumore.
S. Weil

Il buio riempie le conchiglie,
unisce i grani della sabbia chiude
gli occhi docili dei cormorani.
Stanno a galla le stelle nell’acqua nera
stropicciate nelle pozze, negli scoli.
Abitare qui è fatica. La fragile domanda,
lo scuro. Tutto questo è fatica.
Nel durissimo del nome solo ci è concesso
di stare. Non distogliere lo sguardo.
Attendere. Non muoversi. Non cercare.

*

*

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Mi’ nòn am’ dsgiva:
“al sèèt tè, che mé
san stè in tì partisèèn?”
“nòn, mé ed politica
an capiss mja gninta”- disiva me
“ma infàt ai’n’era mja d’la politica;
a’i eren dì bosc negher
indovv ti stèvi òr e dé e setmèni
con ‘na fèm un bùr e ‘na pòra
e’d mòrìr adòss
comm’ i’ han sulament al bésti”
*    *    *-am rispondeva lù.

Mio nonno mi diceva/ “lo sai tu, che io/ sono stato nei partigiani?”/ “nonno, io di politica/ non capisco niente” – dicevo io/ “ma infatti non c’era della politica;/ c’erano dei boschi bui/ dove stavi ore e giorni e settimane/ con una fame un buio e una paura/ di morire addosso/ come hanno soltanto le bestie”/ – mi rispondeva lui.

*

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Lutto

E adès a’i ho da vudèr l’armèri
e trovv tòott ‘sti zavaj che a’ie vlù ‘na vida
a meter insemm e me in dù dé li ho bèli totti cuntà.
Ciapp in mèn al tù partfoj
comm’ al farj un lédér.
Chi san, mé, pàr saver
cos’al và tgnù e cos’al và cazè vj
me vurj sulamant il mì pòst ma
po a’ pens: i mj zavaj an’son brisa méj d’i too
ma a’m vool de pòst e ciàp un sàc
e ‘i caz denter incossa
i vestè par i puvràtt i quaderen con i cont
che tànt jen bèli scadù da un pez
e ogni queel c’a togg in meen
t’i è tè, e zig
parchè me an’te vurj mia cazer int’al rusc
comm’un boton zanza la gabena
che anc’al sèrt al s’è scurdà ed chi l’è.

Lutto / E adesso devo svuotare l’armadio/ e trovo tutte queste cianfrusaglie che c’ è voluta una vita/ a mettere insieme e io in due giorni le ho già tutte contate./ Prendo in mano il tuo portafoglio/ come farebbe un ladro./ Chi sono, io , per sapere/ che cosa va tenuto e cosa va buttato via/ io vorrei solamente il mio posto ma/ poi penso: le mie cianfusaglie non sono meglio delle tue/ ma mi serve del posto e prendo un sacco/ e ci butto dentro tutto/ i vestiti da dare ai poveri i quaderni con i conti/ che tanto sono già scaduti da un pezzo/ e ogni cosa che prendo in mano/ sei tu, e piango/ perché non ti voglio buttare via/ come un bottone senza il cappotto/ che anche il sarto si è scordato di chi è.

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*

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E’ paltò.

L’era mort su marè,
Tonino, co’n brutt mêl in’t al stomeg
e mé di tênt in tênt a’ i andeva
a cà sua. Al doni sole a’ i pies e’dscorrer un pôg.
Alora am dêva e’ VOV
(marsala, zucher, alcol, ôvv e po’ basta,
– t’al lassi lè).
Tôleva e’bcer da la credenza
– un sôl – al scoseva la buteja
e pô a m steva a guardêr.
At piês e’ross? Sélta fora ‘na volta.
Mo si żia, c’am piês. Ma t’li porti i paltò?
Si, ai pôrt. Perché me
a’i aveva comprà un paltò
ross, me al dgeva, a la mi’ età, via,
ma Tonino compralo compralo
e ai l’ho comprà – ma adess…
e n’al fniss mja, al parol
i ên un po’ tropp dimondi
enc al parôl in t’una stênza
già acsè grenda, vôda
co sulament nuèter dû
e cl’arloj c’am piaseva tênt da zninza
Cu-cu – j ên bel al żenc, me alora a’vâg
e via, a’ so beli in t e’ portôn
co’un grênd fredd, un silenzi adôss
E la sporta con e’ paltò in mên.

Il cappotto / Era morto suo marito/ Tonino, di un brutto male allo stomaco/ e io di tanto in tanto andavo/ a casa sua. Alle donne sole piace parlare/ un po’. Allora mi dava il VOV/ (marsala, zucchero, alcool, uova e poi basta/ -lo lasci lì)./ Prendeva il bicchiere dalla credenza/ -uno solo- scuoteva la bottiglia/ e poi mi stava a guardare./ Ti piace il rosso? Salta fuori una volta/ Ma si zia, che mi piace. Ma li porti i cappotti?/ Si, li porto. Perché io/ avevo comprato un cappotto/ rosso, io dicevo, alla mia età, via,/ ma Tonino compralo compralo/ e l’ho comprato – ma adesso…./ e non finisce, le parole/ sono un po’ troppo/ anche le parole in una stanza/ già così grande, vuota/ con soltanto noialtre due/ e quell’orologio che mi piaceva da piccola/ Cu-cu – son già le cinque, io allora vado/ e via, son già nel portone/ con un gran freddo, un silenzio addosso/ e la borsa con il cappotto in mano.

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Nota bio-bibliografica

Azzurra D’Agostino è nata a Porretta Terme, sull’Appennino Tosco-Emiliano. Ha pubblicato le raccolte di poesia D’in nci un là, I Quaderni del battello ebbro, 2003; Con Ordine, Lietocolle, 2005; D’aria sottile, Transeuropa 2011 – selezione Premio Viareggio; Versi dell’abitare, in XI Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos 2012, Canti di un luogo abbandonato, SassiScritti 2013 – menzione speciale Premio Marrazza e Premio Carducci 2014, Quando piove ho visto le rane – Premio Ciampi Valigie rosse. Nel 2016 ha curato insieme a Francesca Matteoni il volume Un ponte gettato sul mare, un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici – Perda Sonadora Imprentas. Nell’autunno 2016 è uscito il volume Alfabetiere privato per la collana gialla Pordenonelegge-Lietocolle e nel dicembre 2016 la traduzione dal tedesco, con Marianne Schneider, del radiodramma su Hölderlin dal titolo Hölderlin/Scardanelli per Mimesis edizioni. Ha pubblicato interventi, racconti, poesie, su varie riviste e antologie. Scrive per il teatro, conduce laboratori di lettura e scrittura poetica e si occupa di organizzazione culturale come presidente dell’Associazione Culturale SassiScritti.

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Immagine: Roberto Crippa, Arosio, collage su tavola, cm. 73×92, 1970.

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