di Antonio Prete
[Il testo è presente nel numero in uscita di “Anterem“. La Redazione di formavera ringrazia l’Autore per la concessione dei frammenti.]
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Nella parola che diciamo poetica la lingua fa esperienza del suo estremo. L’invisibile prende la luce dell’apparire. L’impensato mostra la riva dove il pensiero confina con la sua impotenza a dire. Il non accaduto sale verso la certezza del veramente accaduto.
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Il bianco -e il silenzio che esso raffigura – accerchia la parola poetica, l’accarezza, la scompone e ricompone nel suonosenso, la sottrae al continuum del discorso e alla pienezza del ragionevole, la fa sporgere sull’abisso dell’insensato, la conduce verso la vertigine di una musica che è insieme immagine e idea. Il bianco è mantello e letto delle parole, piattaforma per il loro volo, aria del loro respiro.
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Le parole si adunano e si dispongono, si separano e si richiamano, si oppongono e si baciano: è il tempo-spazio che chiamiamo poesia. Risuona in questa avventura l’affannosa e necessaria ricerca del nome: la cosa sale verso la sua riconoscibilità, l’accadimento si situa in un nuovo tempo, che lo accoglie e protegge, il già stato rompe la prigione dell’irreversibile e muove verso il ritmo dell’ancora possibile.
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La parola si fa poetica se è in ascolto del corpo, del suo pulsare e se, allo stesso tempo, cerca l’accordo che unisce questo pulsare al pulsare dei corpi celesti, al loro movimento. Il cuore della poesia ha un battito cosmologico, ma nel suono di quel battito c’è il risuonare della terra, del suo dolore. “Parola sorvolata da stelle”, diceva Celan. Parola che vorrebbe in ogni sua sillaba riflettere l’infinito, ma che allo stesso tempo conosce l’impossibilità di dare presenza di pensiero e di lingua all’infinito.
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Ispirazione e lavoro : senza questa necessaria compresenza, che Baudelaire continuava a ribadire, la parola poetica si perde o nel frusciare divinatorio delle foglie che sostano al di qua del dire o nella tecnica che sperimenta sovrapposizioni, coincidenze, contaminazioni, dissipando il suonosenso, la sua miracolosa unità, che Dante chiamava “legame musaico”. Quel che è prima della parola, e che è vento di una lontananza -l’enigma e l’altrove possono esserne sorgente – attinge la soglia del dicibile, si fa voce che cerca il suonosenso, assenza che si spoglia del suo vuoto di figura per farsi presenza e figura. E questo avviene nel movimento che è lavoro della lingua con la lingua: una misura che è ritmo, una musica che non rinuncia al senso, un non sapere che si fa conoscenza. Ma… “L’imperfezione è la cima”, dice un verso di Bonnefoy.
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“I’ mi son un…”. Il dantesco Amore che “ditta dentro” è sia pensiero d’amore sia amore della lingua sia ancora amore come principio “che move il sole e l’altre stelle”. Stare in ascolto di questa raggiera d’amore è il primo passaggio verso la trasformazione del sentire nel dire, della voce nella parola, dell’interiorità nell’immagine.
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Leopardi sostituisce, nella citazione dantesca, ad Amore, Natura: “I’ mi son un che quando Natura parla, ec., vera definizione del poeta…” (Zibaldone, 10 settembre 1828). Non sostituzione ma spostamento dello sguardo – in un’epoca in cui l’artificio e l’esteriorità già definivano i loro poteri – verso un’interiorizzazione della Natura: presenza corporea, lingua dei sensi, voce di un’intimità che è desiderio e finitudine, insieme. Esplicitazione dell’Amore dantesco in chiave cosmologica: la lingua poetica come esperienza che accoglie nello steso ritmo il respiro del poeta e il respiro dei viventi, del mondo vivente.
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“Je est un autre” : il verbo di Rimbaud contemporaneamente separa e unisce l’io e l’altro, e porta i due soggetti nel vivo di un’esperienza della parola agita dall’ignoto e tuttavia intima. L’altro che sono io, l’altro che è in me, l’altro che è fonte e insieme specchio dell’io, inconoscibile e prossimo, cerca una parola che sia propria e straniera, fragilissima e assoluta. Una parola che si possa chiamare poesia.
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Il fiore che manda il suo profumo nel giardino della poesia– l’ “absente de tous bouquets” di cui diceva Mallarmé- risplende e si fa opaco, ma il suo fiorire e appassire accade in un tempo in certo senso cristallizzato, nel tempo della lingua, la cui caducità è di altra natura che quella dell’individuo vivente. Ma si tratta di una durata che a sua volta appartiene al tempo umano. Alludere al legame tra i due fiori viventi, e tra i due tempi, è compito della lingua poetica.
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La lingua della poesia ha un suonosenso determinato : appartiene a un Paese, a una tradizione, e insieme all’esperienza di un singolo poeta (anche nell’epos la pluralità delle voci e delle epoche si addensa in una lingua circoscritta). Ma la sua parte profonda, non identificabile con le singole parole né con la frase poetica, è oltre la singolarità del poeta e oltre la specifica tradizione, sta in una zona che è al di qua del dire : arabesco di silenzi, cascata di suoni, musica del senso, festa delle immagini, in cui risuona quel che in ogni altra lingua non si identifica con il significato. Questa risonanza unisce tutte le lingue. La poesia custodisce il sogno di una lingua unica, ma sa che il solo modo per preservare quel sogno è vivere fino in fondo l’esperienza della propria singola lingua. Nella pluralità delle lingue.
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Immagine: Paul Klee, Flora on sand, 1927
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