di George Steiner
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Questa è la prima parte di un saggio tratto da G. Steiner, Linguaggio e silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 53-55.
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Tanto la mitologia ebraica quanto la mitologia classica recano in sé le tracce di un’antica paura. La torre di Babele caduta in frantumi e Orfeo straziato, il profeta accecato affinché la vista cedesse all’intuizione, Tamiri ucciso, Marsia scorticato, la sua voce che si muta nel grido di sangue nel vento – tutti questi esempi parlano di un senso, più radicato e profondo della memoria storica, del miracoloso oltraggio del discorso umano.
Che il discorso articolato sia la linea che separa l’uomo dalla miriade di forme dell’esistenza animata, che il discorso definisca la singolare eccellenza dell’uomo sul silenzio della pianta e il grugnito della bestia – più forte, più astuta, più longeva di lui – è una dottrina classica di molto anteriore ad Aristotele. La troviamo nella Teogonia di Esiodo (584). L’uomo è, per Aristotele, una creatura della parola. In qual modo la parola gli sia giunta è, come ammonisce Socrate nel Cratilo, un indovinello, una domanda che val la pena di porsi per stimolare la mente al giuoco, per destarla alla meraviglia del suo genio comunicativo, ma non è una domanda da cui sia in potere dell’uomo dare una risposta certa.
Impadronitasi del discorso, ossessionata da esso, avendo la parola scelto la grossolanità e l’infermità della condizione umana per l’urgenza della propria vita, la persona umana ha infranto le catene e si è liberata dal grande silenzio della materia. O, per usare l’immagine di Ibsen: percosso dal martello, il metallo inerte ha cominciato a cantare.
Ma questa liberazione, la voce umana che miete l’eco dove prima vi era il silenzio, è al tempo stesso un miracolo e un oltraggio, un sacramento e una bestemmia. È un taglio netto dal mondo dell’animale, procreatore dell’uomo e a volte suo vicino, l’animale che, se afferriamo giustamente i miti del centauro, del satiro e della sfinge, è stato intessuto con la sostanza stessa dell’uomo, e le cui immediatezze e forme istintive dell’esistenza fisica si sono ritirate solo in parte dalla nostra stessa forma. Questo brusco svezzamento, di cui l’antica mitologia è così inquietamente consapevole, ha lasciato le sue cicatrici. […]
Se l’uomo che parla ha fatto dell’animale il suo muto servitore o nemico – le bestie dei campi e delle foreste non comprendono più le nostre parole quando chiediamo aiuto – il controllo della parola da parte dell’uomo ha anche battuto alla porta degli dei. Più del fuoco, al cui potere di illuminare o consumare, di propagarsi e di ritirarsi esso stranamente somiglia, il discorso è il nucleo dei rapporti sediziosi dell’uomo con gli dei. Tramite esso, l’uomo ne imita o ne sfida le prerogative. La torre di Nembrotte era fatta di parole; Tantalo chiacchierava, portando alla terra in un vaso di parole i segreti degli dei. Secondo la metafora dei neoplatonici e di Giovanni, in principio era la Parola; ma se questo Logos, questo atto ed essenza di Dio è, in ultima analisi, la comunicazione totale, la parola che crea il proprio contenuto e la verità della propria esistenza, che dire allora dello zoon phonanta, dell’uomo, l’animale parlante? Anch’egli crea parole e crea con parole. Può forse esservi una coesistenza non gravata da reciproco tormento e ribellione tra la totalità del Logos e i frammenti vivi, creatori del mondo, del nostro stesso discorso? L’atto del discorso, che definisce l’uomo, non lo trascende anche nell’emulazione di Dio?
Nel poeta questa ambiguità è quanto mai pronunciata. È lui a custodire e a moltiplicare la forza vitale del linguaggio. In lui le antiche parole mantengono la propria risonanza e le nuove sono innalzate alla luce comune dal buio attivo della coscienza individuale. Il poeta crea in maniera pericolosamente simile agli dei. Il suo canto costruisce città; le sue parole hanno quel potere che, su tutti gli altri, gli dei vorrebbero negare all’uomo, il potere di attribuire una vita duratura. […]
Il poeta crea nuovi dei e mantiene in vita gli uomini: così vivono Achille e Agamennone, la grande ombra di Ajace continua ad ardere, perché i poeta ha fatto del linguaggio un argine contro l’oblio, e contro la sua parola la morte si spunta i denti aguzzi. E siccome le nostre lingue hanno un tempo futuro, il che è in se stesso un fatto radiosamente scandaloso, una sovversione della mortalità, il veggente, il profeta, uomini in cui il linguaggio è in una condizione di estrema vitalità, possono guardare oltre, trasformare la parola in qualcosa che si estende al di là della morte. Una presunzione – presumere significa anticipare ma anche usurpare – per cui sono severamente tassati.
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Immagine: Anna Maria Maiolino, Entrevidas (Between Lives), dalla serie Photopoemaction, 1981/2010. Trittico, fotografia in bianco e nero, 88 x 56 ciascuna. Collezione privata, Monza.