I padri e i figli

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di Pietro Cardelli

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Ekphrasis

Una motocicletta corre lungo il viale,
il cimitero da un lato, dall’altro
i cipressi di sempre. Il giovane
non ha coscienza, vive il presente.
La curva piega, lui cade, la moto scivola in terra.
L’asfalto penetra la pelle,
un’osmosi di sangue, carne e sassi.

All’ospedale la sera dicono
che il problema non è la mano, le schegge
conficcate tra pollice ed indice,
ma il braccio, rotto all’altezza del gomito.

Nell’immagine del figlio il padre
si osserva da un tempo lontano:
i capelli neri e lunghi sull’asfalto
sono una rimozione che costa dolore.
Lo scarto, invece, è avvenuto senza fatica,
nessun spargimento di sangue da raccontare,
lui non se ne è accorto.

Al momento di aprire la porta, il campanello che suona,
corre a rimettere tutto al suo posto, con furia;
lascia aspettare qualche secondo prima di aprire.
Non appena la luce illumina l’ingresso e i pulviscoli si muovono nell’aria
un’ombra di troppo occupa lo spazio,
cerca di capire.

Alcuni oggetti sono rimasti sul tappeto, le foto
spingono per uscire dal cassetto. La perizia delle cose lo incastra.
C’è un momento di silenzio che sembra dover finire
da lì a poco. Non succede niente.

L’ombra percorre la stanza e si siede sul divano.
Io finisco di rimettere tutto in ordine.

*

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1.

Mio figlio appare e scompare. Non tollera il nulla che ho da dargli. Mi guarda, a volte.

Se un gesto è necessario devi dirlo,
nell’aiuto capire, tentare.
Io che nei rimpianti trovo la forza
non ho le conoscenze per fermarti,
e neppure il coraggio,
ma so, e dovresti saperlo anche tu,
che hai studiato, che sei giovane,
fino a dove ci uguagliamo:
nel silenzio, in quest’immobilità
a noi cara.

In automobile, all’alba, il solito casello autostradale.
Cosa resta ad un padre quando vede l’uomo in suo figlio,
come un estraneo qualsiasi, di petto, sicurò di sé?

Ora che anch’io (proprio tu, mi dirai) perdo le mie certezze – io che ti ho istruito sulle mie convinzioni, sui miei “perché”, sui miei “così” – vedo te trovare le tue. E vorrei fermarti spiegarti urlarti che è tutta una farsa, che non c’è niente dietro nome e cognome.

Ma forse va bene così, dovrei lasciar stare.
I padri e i figli. Per sempre.
E niente che non sia normale.

*

*

*

2.

Tornare a casa e farsi aprire la porta
si fa sempre più difficile

forse perché la mia solitudine
ricorda sempre più la tua
o forse perché ho abbandonato
per sempre il desiderio di capire.

Così ogni settimana, di sera quando arrivo, preferisco non bussare. Apro la porta con le chiavi che mi hai dato, mi muovo nell’ombra e riesco (quasi sempre) a raggiungere camera mia con un saluto distratto. Qui posso godermi questi cinque secondi che separano il silenzio dalla parola, l’attimo prima del gesto. Raccontarsi è difficile se siamo così uguali; ci sono troppe complicazioni. Ci vuole mestiere a capirsi. A noi – ogni volta – non resta che una paura: ritrovarsi nell’altro e non sapere più cosa dire.

*

*

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3.

Ogni volta che parlavamo di qualcosa di serio
cambiava discorso, glissando l’argomento.
Fin da subito, anche un estraneo alla prima cena
poteva notarlo, dava cenni di cedimento –
la gamba mossa sotto al tavolo, l’unghia
premuta sulla tovaglia – e senza rendersene neppure conto
esordiva con domande fuori luogo,
del tipo: Perché non ti tagli quella barba?,
oppure: Il film di ieri, quello sugli indiani e la cucina, era veramente bello!

Solitamente finiva lì. Io o chi per me rispondevamo
un po’ spazientiti – a dir il vero gli altri
sono sempre stati più pazienti di me – ma nessuno, mai,
di tornare al discorso precedente aveva il coraggio.
La cosa finiva lì. Nessuno parlava più.
L’argomento successivo era il lavoro.

(Non ho mai avuto la forza di farglielo notare.
Quel bisogno di semplicità a cui mi aggrappavo
era un segno dimenticato,
eppure mancava sempre la pazienza.)

*

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*

4.

Hai aperto la bocca ed è uscito poco:
qualche suono inconsulto, bava,
e un tentativo disfatto di urlare.

Io ho pensato che era meglio star zitto,
fare finta di nulla, la nostra scelta prediletta.
Le dita che continuano a premere tasti sul computer,
la voce che si rompe, lo sguardo che si abbassa.
Ignorarti è così facile, farti credere ciò che voglio,
fingere di non capire.

Il mattino arriva sempre troppo presto.
Sento il peso di quei passi che si allontanano –
il silenzio delle sette di mattina, il suono del microonde
che si accende – a rimuginare sul nulla.

Adesso sarebbe difficile evitare il contatto
e sostenere la vista, non ne avremmo la forza,
così rimango nel letto con le mani e le gambe legate,
a cercare un riparo che mi salvi in questi pochi minuti di attesa.

L’attimo in cui sento l’auto partire – il cancello
automatico che si apre – porta con sé
un sollievo anelato. I nodi del corpo si sciolgono.

Adesso non resta che partire, esulare ogni colpa,
ed aspettare da solo la prossima settimana. Tra cinque giorni,
di nuovo, ricominciare tutto da capo.

*

*

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5.

E’ un uomo sulla mezza età. Scende le scale con cura – ha paura di morire. La mattina presto spegne la sveglia con un tonfo secco, apre gli occhi, e prima di alzarsi trascorre qualche secondo guardando il soffitto. Le cose si vedono più chiare se la vista è offuscata. Non so se lui lo ha capito.

In realtà sta solo ripensando ai movimenti da compiere, agli spazi da occupare. Sbagliare non è consentito, neppure per un secondo. La sera, al semaforo, accenna una canzone degli anni Sessanta ma non ricorda bene le parole. Qualcuno lo chiama “quadro”, il capo ad esempio, la femmina-capo di Milano.

Il fine settimana è sempre una gioia, specialmente il venerdì, la sera alle sette. L’ufficio lontano e il vialetto di casa sempre più vicino, la volontà di non pensare a niente, la coscienza di non riuscirvi. Il cane abbaia dall’interno della casa, il suo affetto lo stupisce anche oggi. Gli animali hanno una forza e una solidarietà che non riesce a comprendere. Vorrebbe riuscire a spiegarlo.

Se le analisi del sangue arrivano in ritardo, oppure arrivano e c’è qualche valore alterato, allora lo vedi morire un poco e il silenzio diventa prassi. Gli asterischi uccidono l’uomo, oggi. Allora diresti che la gabbia che si è costruito non può essere elusa, e forse puoi piangere, cercando di metterti nei suoi panni. Poi, però, ti stupisce; la sua tenacia ti oscura. Quando esce non cerca gli amici, si rinchiude dietro casa, nel garage, e lì sperimenta e costruisce. Il lavoro lo rende felice, se libero.

Dopo una sera o un giorno lo vedi che ha finito. Aspetta con trepidazione una domanda, la sua soddisfazione. Conviene fargliela allora, è giusto. E allora capisci, vedi con chiarezza cosa è successo. Il lavoro ha dato i suoi frutti e lui, plasmando la materia, ha dato vita a qualcosa. La Natura non ha nulla da opporre, e così la matita.

Io, in tutto questo, sto dall’altra parte del muro. La finestra e le inferriate mi proteggono. Da dentro, al sicuro – camera mia è una stanza iperbarica – vedo le forme nascere, mentre il suo lavoro esiste e può essere toccato con mano, applicato al reale. Comprendere la forza del suo gesto sarebbe il primo passo per l’accettazione. Scriverne, un inganno.

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6.

In un’immagine un po’ nuova, un incontro
alle nove di sera davanti a un teatro, per caso,
mentre mi volto e ci tocchiamo viso a viso
con forza, quasi fosse un dovere.
(Sull’altro lato della strada si vedono auto della polizia,
c’è uno spazio che si amplia; di là i soccorsi,
di qua una pace innaturale).

L’autorità del padre cede giorno dopo giorno,
è una questione di spazi occupati, toni della voce, abitudini;
davanti a me la tua figura è piccola come una sveglia,
– un insieme di ossa minute e collanti –
ma anche grande, immensa se considero l’ombra
proiettata sul telo che ti sta di fronte.

Così rivivo le telefonate accennate, la perizia
nelle costruzioni, quando basterebbe poco ma sempre troppo per imitarti:
le curve a novanta gradi, la pioggia
che incide la pelle, i flaconi mai voluti,
sempre rifiutati.

Il tuo primo bisogno è scusarsi, chiedermi
di non parlare – come se aggiungendo parole a parole
sovvertissi una matematica di gesti da te controllata.

Allora mi guardi soddisfatto e un po’ docile,
accenni un movimento delle labbra,
mentre qualcuno mi chiama invitandomi ad entrare,
e io cedo, senza capire (quella che prima chiamavamo) la frattura,
la condizione in cui ti lascio.

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7.

«Forse è il tuo modo di esistere che è così, che deve essere così, padre. Plasmare le cose, carpirne la forma; scavarle, conoscerle, e poi mutarle. Ogni sabato, ogni fine settimana, per sempre e indietro nel tempo. Una modalità diversa di guardare alla vita, senza ambizioni. Io che voglio capire i perché e tu che ne cerchi il come, la spiegazione più vera, l’unica risposta possibile: forma dell’anima forma del corpo. Mi chiedo, o sono costretto, a cosa porti il tuo affaccendarti, questo continuo costruire distruggere e poi ricreare: un demiurgo come padre, questa è la constatazione. Se io tentassi mi sbaglierei; rovinerei gli oggetti e cancellerei il segno intimo, l’essenza delle cose. Il tuo è un comportamento atavico, questo capisco, di nonni muratori abituati a resistere alle intemperie, a conoscere le angolazioni, gli spigoli, i 90 gradi dei fili a piombo sospesi sulla sabbia: innalzare strutture, costruire città, case in cui dormire case dove difendersi. Un rapporto diverso con le cose: io che le ho così distanti, voi così sincere. Poter riconoscersi senza cercarlo, restituire qualcosa alla terra di tanto in tanto. E in questa fisicità, in questa abilità, donarsi a chi si ama; senza ricompense né orgoglio in cui celarsi. Eccola però la somiglianza, il tratto vero che ci eguaglia: e scovarlo è una sofferenza che non presenta alternative, l’unica reale salvezza. Sta negli scheletri ossei, nelle strutture armate, nei cementi che si formano nelle betoniere: linfa vitale, ritmo sotterraneo, natura ossessiva; in questo roteare per riconoscersi, in queste costruzioni resistenti, oltre il tempo oltre le grammatiche. La lingua è un corpo a più piani, una struttura verticale; e in questa voce che parla – così ostinata, assurda, disperata ma silenziosa, a pochi centimetri dal baratro – riconosco un respiro comune, il battere e il levare della spatola quando riempie i recessi dell’intonaco».

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Immagine: Jean Fautrier, Lignes  colorées, 1961, olio, tecnica mista su carta su tela, 54 x 81 cm.

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