Una forma di resistenza

di Pietro Cardelli e Daniele Iozzia

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Nella situazione in cui siamo ciò che ci è imposto, o meglio, l’unica via di fuga affrontabile e percepibile, è una forma di resistenza, innanzitutto resistenza non-specificata. Il noi che sta parlando (questo ci un po’ nascosto, lacerato ma sfrontato), in bilico sul bordo del precipizio, appena aggrappato a questo cornicione impervio e scalcinato è ben conscio delle asperità a cui va incontro: da un lato il gruppo di voci particolari che lo vorrebbe strappare al suo appiglio (e, se non ci riescono, lo tentano con voci carezzevoli), dall’altro l’idea di sé che possiede, l’arcimodello appostato nella sua coscienza e che ormai, da sempre, da quasi cent’anni almeno, lo precede, impedendogli una presa di posizione rispettata o quanto meno credibile. La stabilità che cerca, l’equilibrio da trovare, è un tentativo di verità, e quindi libertà, come se non ci fosse altro fine possibile per la poesia. Occorre però uno sforzo immane e, prima ancora, una volontà decisa: cessare lo sguardo, di sé verso gli altri, degli altri verso sé; quindi trovare la giusta posizione, l’unica rimasta per non cadere, per non dissolversi. Questo significa in primo luogo rischiare.

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Il senso primario di una poetica investe le zone di controllo di due termini inseparabilmente stretti: un’idea di mondo e un’idea di linguaggio. O per meglio dire, fa sì che la volontà di controllo di una lingua piena sia sufficiente a garantire sia la decifrazione di uno stato di cose che ci sovrasta in quanto forma-della-vita, infrastruttura del pensiero, sia la possibilità di un azzardo da tentare, un gesto dal piglio morale eloquente, un mettere in conto un rischio proveniente dall’elaborazione e dalla capacità di tenuta di una proposta, di un percorso. Al livello massimo di astrazione, intendendola come speculazione in vitro, una poetica vive come residuo di polvere tra pagine di libri saldate dal corso degli anni, si mostra inattiva e insoddisfacente: è un sacco svuotato da entrambe le parti. Rendere viva una poetica significa implicare quotidianamente i nervi in un gioco tutt’altro che a somma zero, accettare di scottarsi di fronte all’adozione di posture che cercano, in un accumularsi di stratificazioni successive, di modificare, rettificare, orientare meglio a furia di rimodulazioni ed errori le modalità di uno sguardo che acquista sempre maggiore saldezza, sguardo che è relazione, dialogo, immersione incondizionata nel mondo della vita, approfondimento tarato con profitto crescente, stazione che precede di necessità qualsiasi forma o margine di intervento operativo sul reale. La postura è l’anello di congiunzione concreto dei poli facilmente generalizzabili di mondo e lingua. Tra queste due componenti c’è questo farsi attivo delle istanze di comprensione, descrizione e risoluzione che è appunto la postura concepita come modello attanziale e come soggetto, quest’ultimo essendo a sua volta il filtro di ogni percezione (neutro, mobile, debole ma sempre soggetto, sempre uomo), quello della tradizione, quello della lingua.

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A garantire prospettiva e volume al modello attanziale è un duplice statuto, storico e ‘vocale’. Innanzitutto, il soggetto è la condizionale di un rapporto storico, ossia un centro di enunciazione che ha bisogno di storicizzarsi per aggiudicarsi un minimo diritto di esistenza e di verità. Ciò che l’io o il noi si portano dietro è l’insieme già accreditato e sperimentato dei successi e dei fallimenti di modi diversi della percezione. Ciò che si accetta a partire da una specifica altezza storica è in primo luogo il rischio di esperire deviazioni (e quindi scacchi, frustrazioni, conquiste, approdi felici, derive, smacchi, traguardi decisivi e fondativi etc.) ulteriori. In un certo senso, l’uso e la modulazione di una voce, sia essa singola e personale, sia essa plurale e corale, ha quasi sempre a che fare con uno slancio di questo tipo, con la forza di una dilazione positiva, cioè con una simile forma di promessa. Si cerca di ragionare attorno ai margini di una dissolvenza dell’io, dunque.

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La restaurazione del respiro, questa forma di verità nella libertà, potrà essere possibile, forse, percorrendo all’inverso il processo della diacronia. La libertà e il peso della verità saranno direttamente proporzionali, allora, all’energia con cui l’io o il noi sapranno tanto fare tesoro della storia accumulata (prodotti e scontri di forze) quanto riuscire a livellare, eliminare e rimuovere progressivamente i loro stessi strati di storicità (storicità che, da questo punto di vista, è artificialità non pianificata). Il prezzo e il rischio di un’operazione di questo tipo è davvero immane. Innanzitutto si dovrebbe far fronte ai pericoli e alle accuse di ingenuità e sciatteria. Ingenuità che viene da questa spoliazione progressiva, ma che, si badi bene, non è un abbandono di sostanza, ma un recupero di energia, nuova produzione di volontà e significato. Di sciatteria, invece, potrebbe essere accusato un soggetto, singolare o plurale non importa, che nella prova di questo recupero, nel lavoro in re, provvisoriamente cade, si inceppa, si tradisce, si mortifica. Disvelare gli strati di storia artificiale e collettiva per inserire la nuova linfa di un Discorso più spurio e meno omogeneo non significa necessariamente, poi, banalità di contenuti o facilità della situazione poetica. La direzione è sempre quella di un’inclusività assertiva e trasversale; si lavorerebbe perciò con materiali di spoglio da aggregare in direzione di un senso che non sia costruito per addensamento di frammenti, collage di cocci. A spingere sul pedale di un senso pieno sarà, hegelianamente, un momento di sintesi, cioè la viva presenza della consapevolezza, la pressione o l’adesione volontaristica di un’organicità forte.

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In un contesto del genere, recuperare una poetica di gruppo significa innanzitutto sforzarsi, obbligarsi, costringersi ad andare oltre l’io, che non implica negarlo, bensì negare il suo voler essere-voler imporsi come unico significato, il suo credersi indipendente, autonomo, agente per se stesso (quanto compiacimento in questo!), la sua boria insopportabile. Ritrovarsi in un noi, anche minimale, anche indifeso, anche minuscolo, relegato agli angoli di queste ragnatele, significa operare una resistenza attiva sul mondo, significa impegnarsi in un lavoro continuo su se stesso: un lavoro di scarti, di labor limae.

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Occorre allora definire e delimitare meglio questa coralità: la si può vedere o intendere anche come punto di intersezione di istanze personali che vengono quindi a sovrapporsi in direzione di un conguaglio che comunque non ha in nessun modo la funzione o la pretesa di rammendare o appiattire verso qualche forma di monologismo. O ancora come il punto di fuga da cui parte una prospettiva d’insieme che è arricchimento e resistenza (e in questo quanta libertà c’è!). Nessun mostro a tre teste e a sei gambe, dunque. Questo noi, questa possibilità corale è un valore aggiunto. A garanzia di riserva dello spazio di movimento del singolo e alla base, dunque, di questo confronto organico “io/noi” c’è tutta la forza e tutto il potenziale che viene conferito dall’idea di voce. Voce che è essenzialmente impostazione, ricerca, costruzione, aggiustamento e modulazione di un tono, di un respiro intimo e personale, più che fisico, più che biografico.

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Immagine: Toti Scialoja, Salita, Collages 1957-1961

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