Luzi, un ricordo della svolta

luzi

di Isacco Boldini

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[Concluse le pubblicazioni dell’ultimo ciclo con l’ebook formavera 8 e in attesa di partire con il nuovo trimestre la prossima settimana, continuiamo a riproporre alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni. Quello che segue è uscito nell’ottobre 2014.]

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Gli anni Sessanta e Settanta hanno segnato profondamente il nostro Paese, hanno radicalmente modificato le vite degli uomini in un movimento difficilmente comprensibile nella pluralità dei piani su cui si è manifestato. La mutazione antropologica, l’avvento della società dei consumi sono stati però captati nella loro comparsa da quel sismografo che è la poesia. Fra gli altri, un poeta scava un solco particolarmente profondo tra un prima e un dopo questo cardine: Mario Luzi. Nella sua esperienza quasi secolare tante sono le cose che mutano, tante le cose che rimangono fisse, ma senza ombra di dubbio la svolta prodotta in questo passaggio storico modifica i fondamenti della sua scrittura. L’etichetta di ermetico, con tutto quello che questa comporta (l’astrattezza, il valore mistico della parola, l’analogismo di difficile interpretazione, il carattere iniziatico… ) e che accompagna la sua produzione giovanile, va di raccolta in raccolta perdendo consistenza. La poesia abbandona i pascoli metafisici dai quali scrutava il mondo, in un moto di discesa verso il Reale che è percettibile, quanto meno, dalle raccolte degli anni Cinquanta. L’erosione storica e sociale delle possibilità di una parola eminentemente lirica, di un filo teso tra il soggetto e il Vero, trova però la sua concretezza in Nel Magma. La domanda di assoluto che muove la poesia luziana fin dagli esordi non decade e non decadrà nella sua mai stanca gestazione; quello che cambia è il luogo dove questa domanda si fonda. La tensione verso un vero assoluto, metastorico o radicato nell’eterno che dir si voglia, la ricerca di una qualche salvezza resiste anche in un momento in cui la verità della poesia, il suo discorso guadagnato con il ripiegamento su se stessi, così individuale, così poco oggettivo, non riesce a trovare spazio nel dominio scientista della Verità. Resiste di fronte all’appiattimento della realtà sull’empiria che sembra soffocare qualsiasi possibilità di balzo verso l’alto; resiste di fronte all’affermarsi della parola netta, tecnica, senza ambiguità semantiche, senza problemi interpretativi; all’affermarsi del linguaggio che soffoca il discorso polisemico e referenziale della letteratura e lo classifica come divertissement, delegittimandone qualsiasi pretesa conoscitiva; resiste come volontà: ma cambia i suoi modi di prodursi. Ad una poesia dell’interiorità sempre in bilico sul baratro del solipsismo, quella della stagione ermetica, viene contrapposta una poesia tesa a ritrovare un rapporto con il mondo. Già nei primi versi del libro: “ne escono quattro/ non so se visti o mai visti prima”[1] abbiamo comparse in treno, sull’argine di un fiume, impiegati, vecchie conoscenze in un caffè: presenze del Reale che impongono un dialogo/dibattito, altre voci rispetto all’io. Al monologismo viene quindi sostituito un dialogo con interlocutori concreti, non con le maschere di uomini senza volto com’erano leggibili le comparse della produzione precedente. Siamo di fronte a un decentramento: dall’io il punto focale passa al rapporto di questo con il mondo e i suoi rappresentanti. Il poeta non è più in una posizione privilegiata ma insieme al resto è immerso nel magma del reale. Le ambientazioni… gli hotel, gli uffici, i bar sono le metonimie del contemporaneo, sono il mondo che prepotentemente è entrato nella poesia: non più gli scenari naturali o preindustriali come luoghi per mettere in scena un’interiorità, ma l’Italia del contemporaneo.

“Questo vuole il tuo tempo, perché non gli vai incontro?”[2] dice una delle tante voci. Il poeta punta i piedi nella realtà materiale che si trova davanti vedendo questa come l’unico luogo in cui il suo discorso può trovare un fondamento, una legittimità. Si assiste ad un accettazione del Reale senza riserve, e veicolata da una scelta etica ed estetica allo stesso tempo: la salvezza personale non può più posizionarsi nella dimensione egotica che disegnava la poesia lirica come genere di un soggetto piegato nella sua interiorità, ma deve farsi carico del suo legame inscindibile con il destino comune, devi farsi partecipe del mondo. Questo perché la posizione privilegiata del poeta non è più in grado di giustificare l’atto del poetare e la sua peculiare ricerca di vero se non in un’ apertura al mondo che superi le contingenti barriere dell’io. Da questo punto i dati del mondo assumono un nuovo volto, una nuova funzione: non sono più il controcanto di un’interiorità che necessita una delucidazione, che cerca le parole per dirsi al di fuori di sé, non sono più in funzione subordinata ad un io rivolto primariamente verso se stesso. Il mondo entra nella poesia come la realtà da cui non si può sfuggire, come il legittimo e non trascurabile polo che assieme al soggetto costituisce il Reale. Il poeta si fa luogo di articolazione della poesia, non il suo luogo di nascita. L’io poetante si mette in un angolo per poter lasciare parlare attraverso i sui organi fonatori la realtà che lo precede in una ricerca di autenticità che sembra la spinta primaria di questo rivolgimento poetico. La commistione con la prosa e con il teatro viene allora a significare un tentativo di fuga dalla soggettività radicale del verso in direzione di una parola che vuole farsi concreta. E forse è questo il segno più forte che i mutamenti socioculturali hanno prodotto nella poesia di Luzi. L’oggettività della scienza che monopolizza il discorso sul vero ha lasciato alla lirica il segno delle sue mancanze. Sul piano lessicale la poesia si indirizza quindi in un’apertura delle possibilità, nella mimesi dantesca e nella sua lingua tout court in antitesi a un petrarchismo di un discorso chiuso nella sua stilizzazione. Con la discesa nel mondo dagli alti poggi del Parnaso viene a coincidere una precisa scelta linguistica che di questo mondo e di tutta la sua mutevolezza vuole essere riflesso e testimonianza: non più una lingua poetica che escluda ma una lingua che tenti di abbracciare il mondo in tutte le sue componenti. Come scrive l’autore stesso nel saggio L’inferno e il limbo[3], per Luzi il petrarchismo di Petrarca e di tutta la poesia successiva ha un significato escatologico oltre che formale, o meglio, di un’escatologia impossibile: il metro, lo stile e la lingua di questo sono la manifestazione di un atteggiamento alla vita chiuso, di una visione della felicità coniugata solo al passato che non sa sperare salvezza se non nella memoria edenica, nell’irrecuperabile tempo trascorso. La chiusura nelle forme e nel linguaggio è sintomatica di un’introversione del soggetto che si chiude a guscio a leccarsi le ferite, a cantare la propria sofferenza come se il lamento fosse l’unico sedativo possibile. È la costruzione artificiale di un mondo entro cui abitare, è un rifiuto della realtà in nome di una sua sottomissione alle regole dell’armonia. Per Luzi la vita così espressa non è la Vita, ma una creazione intellettuale che relega l’uomo in un limbo senza possibilità di uscita, una rinuncia inesorabile ad una grossa porzione di dicibile in nome di una purezza spirituale che vive nei versi ma non sa essere il riflesso del Mondo. Di contro la scelta della Commedia, nel solco della quale si immette il nostro autore: una poesia che si situa nell’inferno della realtà ma che da questo prende il via per un’ascesa al paradiso, nella necessità di uno sguardo esteso che non dimentichi la componente infernale del reale pur iscrivendola in una dimensione in cui questa è una parte dell’esistente e non l’intero. In questo modo capovolta, la vista dell’inferno nel suo caos diviene la terra fertile su cui fondare la possibilità di un ordine. Una possibilità che rimane comunque relegata in una dimensione attimale e puntiforme. Il lampo che illumina il disordine del mondo e ne coglie la divina intelligenza ha vita breve, travolto com’è dal mutamento. La nuova posizione purgatoriale nel mondo, ma tesa oltre, tesa verso la dimensione paradisiaca, regge ancora una possibilità metafisica, sostiene lo sforzo di un balzo extrastorico che nel frammento coglie la trama. Viene allora a delinearsi una postura ancora capace, nel dominio della ragione scientifica, del gesto tutto umano di concedere senso.

Non va dimenticata però la natura religiosa che produce questa possibilità, la fede che sostiene tutto l’edificio poetico: una fede messa di fronte all’inferno del reale, provata dal dubbio della sua notte oscura, duramente criticata dalle tante voci che popolano il testo e tuttavia in grado, qui e forse di più nelle raccolte successive, di produrre l’esperienza conoscitiva di un oltre. Una fede cristiana cattolica eterodossa che trova un riferimento forte nella figura emblematica di Theillar de Chardin, nella sua teologia fortemente radicata nel mondo. La rivoluzione copernicana che si attua in Nel Magma non deve essere vista però come un punto di arrivo, ma come una svolta inedita che segna lo stacco e apre la strada a quella che sarà poi tutta la produzione successiva.

La ricerca luziana di questi anni concentra il suo interesse sulla possibilità stessa di fondare una verità poetica. Scava al fondo della sua stessa natura per scorgere un terreno solido su cui edificarsi, e questo terreno brullo e accidentato è trovato nella realtà stessa, nelle sue contraddizioni, nel suo disordine, nel sentimento di insensatezza che coesiste con la certezza cristiana di un significato.

Affondando nella palude del mondo il poeta prende la rincorsa per provare il salto che la trascenda.

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[1] Luzi Mario, Presso il bisenzio in Nel magma, L’opera poetica, Mondadori, Milano 2001, p. 317, vv. 2-3.

[2] Id., Nella hall, in Ivi, cit. p. 345, v. 1.

[3] Id., L’inferno e il limbo, in opera cit.

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