di Marco Villa
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[Concluse le pubblicazioni dell’ultimo ciclo con l’ebook formavera 8 e in attesa di partire con il nuovo trimestre a gennaio, durante le feste natalizie riproporremo alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni. Quello che segue è uscito nel novembre 2015.]
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Avventure minime (Transeuropa 2014) di Alessandro Broggi vanta già, a quasi due anni alla pubblicazione, un discreto numero di interventi. Vale però la pena ritornare su quello che è uno dei migliori libri di poesia (latamente intesa) pubblicati negli ultimi tempi, e senza alcun dubbio il più interessante.
Può essere utile partire dal/i titolo/i. Le avventure minime di Broggi sono scorci o situazioni, per lo più feriali, che si reggono sul binomio novità-ripetizione, con il secondo termine che spesso e volentieri finisce per assorbire il primo. “Nuovo” è parola così esposta da dover suonare sospetta: e infatti la sezione “Nuovo paesaggio italiano” allinea una serie di monologhi frammentari la cui specificità è ironizzata anzitutto dal titolo, identico per ognuno dei testi che la compongono, di Nuova [appunto] situazione. Il paradosso macroscopico di un ritorno senza variazioni della novità suggerito dal paratesto riflette il paradosso analogo che si crea tra l’implicita ed espressivistica pretesa di unicità che le figure umane di questa sezione attribuiscono alla propria esperienza e l’utilizzo di materiali stereotipi del linguaggio per comunicarla. Due esempi per tutti, dal disforico all’euforico:
Mi tradisce da almeno tre anni. Lo ha fatto più volte e non con una donna sola. Ma quando è con me mi fa sentire indispensabile: dice che sono l’unico vero amore della sua vita. Io faccio sempre più fatica a sopportare, a volte lo disprezzo, ma lo perdono sempre perché l’idea di perderlo mi manda in pezzi. (p. 31)
Mi sentivo sola e a volte ho pensato che sarebbe stato più semplice tornare dai miei. Ma ho tenuto duro. Un amico mi ha aiutata a superare i momenti difficili. Ora convivo con un uomo stupendo e i miei genitori mi ammirano. (p. 46)
La stereotipia del linguaggio diventa così il segno del livellamento di ogni situazione su una piattezza senza scarti, da cui tante voci possono mettersi a nudo senza rompere la meccanicità variopinta dei «caroselli di immagini che non conosciamo ma cominciamo a riconoscere, a forza di ripetizioni» (p. 14). Il sempreuguale linguistico ed esperienziale è l’ovatta che impedisce sfondamenti ma anche crolli, che soffoca azione e conoscenza nel grigiore ma che protegge da deviazioni imprevedibili.
Tutto torna, quindi, nel duplice significato di riproposizione dell’identico e di calcolo che non fallisce mai: la scrittura registra un mondo che conosce (lei sì) troppo bene, e il suo «servizio di realtà» può persino aprirsi senza esitazioni sul futuro, che è, in Avventure minime, il tempo della chiusura perfetta. Un intero parco di azioni/situazioni avverrà con la millimetrica certezza del già deciso, perciò la loro enunciazione può sbilanciarsi ed eternare fatti e condizioni privi di ogni crisma di novità: si vedano i testi della sezione centrale, p. es. Reality check, Ai confini del quotidiano, Una storia importante, Nuova vita (dove ancora una volta è attiva la funzione ironica dei titoli).
La piena prevedibilità determina anche il carattere principalmente metonimico di questa scrittura, da cui traspare la convinzione che nel mondo attuale, per effetto di ripetizione, basti una minima scheggia, un minimo oggetto linguistico tagliato da un momento convenzionale, per l’immediato riconoscimento di un’intera situazione. In Parti note (altro titolo emblematico):
Il suo futuro? Non ci vuole molto perché lo raggiunga. Buono a tutto. Ritiene di saperlo. Ciò che sembra ordinario non è lungi dall’essere familiare. Pone una domanda, e riceve una risposta. Le cose che facciamo, la sua vita di donna. (p. 13)
Oppure:
Vado da lui. Posso fermarmi ancora. Ho i miei metodi. E poi cosa. La sua stanza. Credi che forse. Ma certo. Questa volta ce la faccio. Non adesso. Stai attenta. È un attimo. Ancora. Ancora. Ne sono certa: basta parlare. Pensi di avercela fatta. (p. 66)
Superato il primo shock, il lettore può alla fine ricostruire una vicenda o un carattere da quei pochi lacerti verbali.
Gli esempi mostrano anche alcuni corollari stilistici di questa disposizione: i quadri rappresentati sono pesantemente ridotti, quando non scarnificati. Se la rete di rapporti può essere sollecitata dall’individuazione di semplici punti equivalenti, non serve andare troppo più in là per una descrizione esaustiva:
Bussano, entra V., pochi giorni e incontra R., conosce N. N. si gira e va su per le scale. Lo segue. Buio. Luci. Mattino. Pomeriggio. Sera. Buio. Luci. Mattino. (p. 17)
È la rappresentazione più economica della reiterazione irrilevante, persuasiva anche nel suo spingere fin quasi alla parodia questo topos della letteratura contemporanea: relati metonimici insulsi, paratassi assoluta (di gran lunga l’articolazione sintattica dominante) e ripetizione di quei lessemi denotativi. Difficile trovare un’adesione più completa, un nesso più stretto tra insignificanza verbale e insignificanza esperienziale.
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Detto questo, non si deve pensare che Avventure minime sia solo precisione mimetica. Innanzitutto il linguaggio impiegato, nella sua radicalità, comporta alcune spinte centrifughe rispetto alla piattezza di un ideale grado zero: alla rastremazione metonimica, con il forte effetto straniante che essa produce, e al riuso di secondo grado di materiali linguistici triti, con la creazione di una sorta di doppio fondo, è possibile aggiungere l’interazione tra lessico e perifrasi tecnico-specialistiche da una parte e termini potenzialmente “caldi” (al limite suscettibili di sforare nel poetichese) dall’altra, con i primi che fungono quasi da lasciapassare per i secondi. In questi casi è proprio la neutralità ottenuta ad essere fattore di connotazione; qui nell’«emozionante» scoperta del linguaggio:
Non appena scoprirai che un nome e una frase possono stare al posto di qualcos’altro, sarai padrone della chiave del linguaggio.
Ogni parola appresa rappresenterà una scoperta emozionante, strapperà qualcosa di nuovo al flusso non verbale. Questa fase di trionfo si prolungherà per mesi: ti schiuderà prospettive infinite. (p. 60)
o del sesso:
Sarai libero di avvicinarti e toccarla: questa prima mossa dovrà farti una grande impressione. Avvertirai il richiamo della curiosità e il desiderio di esplorare. Niente più ti tratterrà.
Proverai un immediato aumento dell’eccitazione; più stimoli riceverai più ti mostrerai appassionato e attento. Vi trascinerete a turno, coinvolti nella vostra danza.
Sentirete scorrere le correnti invisibili del piacere. (p. 62)
Ma questa riattivazione non si gioca solo sul livello lessicale. Una postura che mantiene costante la propria distanza dalla materia e un tono infallibile e neutro fino ad essere glaciale consentono di portare alla luce nodi (eventualmente ad alto contenuto drammatico) che sarebbero altrimenti inammissibili – o unicamente ammissibili attraverso il filtro di un’ironia molto più rozza di quella risultante qui. E se nell’idillio primaverile di Allegro l’operazione riesce leggermente esibita, in un certo senso meccanica, più complesso e tagliente è il rapporto tra la glacialità linguistica e la narrazione della fine di un amore che si ritrova in under destruction, oppure tra la stessa postura (con lessico, tono e sintassi delle trattazioni scientifiche) e la formazione di un individuo – dalle sensazioni primarie alle relazioni sociali – presentata in Soggetto, da cui sono tratte le citazioni di poco sopra.
In questi casi la precisione impassibile della pronuncia lascia l’evento alla sua nudità, che non è la nudità superficiale del minimalismo rappresentativo ma quella che elimina i chiaroscuri e mostra i rapporti costitutivi che regolano l’oggetto in esame. La pulizia dichiarativa si carica allora di un’intensità sorprendente per una scrittura interessata, almeno in apparenza, alla registrazione. Lo stesso utilizzo del futuro, oltre alla previsione scontata di avvenimenti “minimi”, conferisce agli enunciati un’incisività assertiva che l’impersonalità radicale della voce rende ancora più minacciosa, come in quell’apocalisse mancata (e proprio per questo tale) che è Senza utopia:
Legalità deboli coesisteranno in rapporti flessibili. Le loro insegne saranno sgargianti ma non memorabili. Il dominio di un ordine finito simulato sopravvivrà nella tensione verso la radicale indeterminatezza. Una tautologia senza crepe sarà, dopo tutto, la sua stessa ragion d’essere. La stabilità del clima sarà una sanzione definitiva. (p. 55)
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Il risultato è una scrittura che aderisce perfettamente al proprio oggetto, un oggetto che, con qualche semplificazione, può essere individuato nei rapporti essenziali di una realtà stereotipa, immediatamente riconoscibile. L’essenzialità di un mondo simile è esauribile e viene effettivamente esaurita: i testi mettono il lettore di fronte a una massa che è stata disossata e che ora mostra il proprio scheletro. Questa riduzione all’essenziale presenterebbe persino alcuni punti di contatto con un “grande stile”, se non fosse che il poco detto è sentito del tutto omologo e interscambiabile con il molto tralasciato, ed è precisamente l’uguaglianza dei frammenti all’insegna del superfluo che permette una selezione così crudele e insieme caotica.
D’altra parte, ciò fa anche sì che lo spazio di queste prose sia saturo. La scrittura aderisce così bene all’oggetto che l’oggetto esaurisce tutto il testo. Manca il vuoto, si direbbe, un vuoto che può entrare solo attraverso la parzialità. Il prezzo pagato da una postura simile è l’impossibilità di schiodarsi dalla sua distanza sempre uguale rispetto all’oggetto e, di conseguenza, l’impossibilità di contaminarsi con la serie di rischi e opportunità che l’agonismo aprirebbe, che è poi il quid (programmaticamente) inaccessibile a questa geometria.
Non che la scelta di Broggi sia la più facile, tutt’altro: la maggior parte dei testi del libro richiede un rigore spaventoso per guardarsi dalla scadere nell’ininteressante parodia di movenze stereotipe o in uno sperimentalismo fine a se stesso (problema presentato, forse, nella sola Teoria dei gruppi). La distanza si deve insomma scontrare – e di continuo – con la difficoltà di preservarsi da tutte quelle spinte che minacciano di violare l’impassibilità e di intorbidarne la dizione.
È però certo che, al suo meglio, questa posizione/postura costituisce il riparo da qualsiasi rischio stilistico e rappresentativo, che non sia, appunto, il rischio di tradire l’imparzialità stessa. Si può parlare della fine di un amore senza mai rischiare l’elegia, o rappresentare una scena tra lo splatter e il pornografico senza alcun eccesso espressionistico (cfr. Cronistoria e Campo d’azione), o ancora svolgere una funzione critica del reale, latamente politica, sicuri da ogni retorica, al più fermandosi al montaggio balestriniano delle ultime due sezioni. Si tocca un’aporia (feconda), che Bernardo De Luca ha acutamente individuato:
la possibilità di neutralizzare la retorica dei linguaggi che ci circondano non è essa stessa una strategia retorica legata all’ironia, intesa quest’ultima come arte della distanza? Di sicuro, la dialettica tra queste due istanze potrebbe essere qualcosa di prezioso.
Ma non è il caso di insistere in questa direzione, né forse ha senso rimproverare a una scrittura ciò che ne fa la grandezza. Rimane il fatto che la lucidità perfetta e a 360 gradi del libro, con il suo portato di stile, tono e postura, rappresenta, per i problemi che pone e soprattutto per i risultati che raggiunge, un’acquisizione decisiva nel panorama poetico contemporaneo.
Solamente, proprio un libro in cui non si possono trovare cedimenti suggerisce una domanda sulla quale potrà essere interessante riflettere: se e come sarà possibile, cioè, coniugare la lezione neutralizzante di Avventure minime con l’imprevedibilità di un agonismo dove il “punto di vista” non vuole (non può) rinunciare, pur nel suo rigore, ad essere parte in causa di ciò a cui dà forma.
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Immagine: Florence Henri, Fenêtres (1929)
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