Alessandro Fo e le piccole parabole del quotidiano. Un saggio su “Mancanze”

Carl Andre

di Andrea Lombardi

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[Concluse le pubblicazioni dell’ultimo ciclo con l’ebook formavera 8 e in attesa di partire con il nuovo trimestre a gennaio, durante le feste natalizie riproporremo alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni. Quello che segue è uscito nel dicembre 2014.]

*

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Prima di intitolarsi come ora, la raccoltina è cresciuta sotto un titolo che poi ho messo in secondo piano e – se me ne sarà data occasione – recupererò magari più in là: L’assente. Di molte assenze si trama infatti questo libro; ma il primo degli assenti è chi lo ha scritto. Dagli spicchi di tempo che ha via via cercato di fermare, ora è distante, nella deriva dei giorni e spesso anche quanto a assetti interiori. In un futuro non così lontano, lo sarà con ancor maggiore separatezza. Lungo le sue poi cessate ‘presenze’ ha cantato specialmente la bellezza femminile, in molte diffrazioni che inseguono anch’esse un’assenza, forse ineluttabile: quella di colei che non c’è, che forse non ci sarà mai, la somma di tutte le possibili conquiste impossibili.

Con queste parole si chiudeva la nota posta in calce a Vecchi filmati (Manni, 2006), la raccolta che precede l’ultimo libro di poesie pubblicato da Alessandro Fo, Mancanze (Einaudi, 2014), con cui l’autore torna alla poesia dopo un lavoro pluriennale che lo ha visto impegnato a prestare la propria voce a Virgilio nella già gloriosa traduzione dell’Eneide uscita per Einaudi nel 2012. E, volendo affrontare un discorso proprio su Mancanze – un’opera non facile, uno di quei libri sui quali bisogna tornare, dopo una prima lettura, per mettere insieme tutti i pezzi e per trovarne i mancanti – crediamo sia utile tener presenti queste righe della silloge precedente, che non solo rappresentano il congedo momentaneo dai lettori e dalla poesia da parte del poeta, ma, come vedremo, gettano luce sul significato stesso di Mancanze e rivelano una continuità tra le due raccolte. Per tali ragioni le abbiamo riportate in apertura di questo saggio, affinché il lettore le consideri come una sorta di cappello introduttivo al testo – il nostro e quello che analizzeremo – sul cui contenuto, però, torneremo soltanto alla fine, quando si cercherà di definire il senso complessivo dell’opera. Ma andiamo con ordine.

La raccolta è costituita da tre sezioni, Libro d’oro (in parte già presente in Corpuscolo del 2004), Il tono blu (variazioni Chopin) e Figure d’angeli, vere e proprie sillogi dotate di valore autonomo, ma in realtà connesse da un filo rosso rintracciabile – anche se può sembrare banale dirlo – in quel titolo posto sulla copertina del libro. Come spiega Fo nell’Appunto finale – elemento ricorrente nelle raccolte poetiche dell’autore – il libro doveva intitolarsi Reliqua desiderantur, formula utilizzata dagli editori di testi antichi per segnalare che qualcosa dell’opera si era perduto e rimaneva, per questo, ‘desiderato’. Per vari motivi alla fine si è preferito il titolo Mancanze, con il quale si perde, ma non è assolutamente da dimenticare, il riferimento al ‘desiderio’ insito nel sintagma che costituiva il titolo originario, il quale, non a caso, resta in calce ad ognuna delle tre sillogi, assumendo la funzione di glossa o didascalia che non solo riassume il senso di ogni raccoltina, ma soprattutto rappresenta il filo rosso che le lega tra di loro.
La sezione del Libro d’oro si apre con al Figlio, poesia programmatica non solo della prima silloge ma dell’opera intera. Il titolo è ricavato da un frammento del Gloria, e tutto il Libro d’oro è costituito da poesie che si sviluppano dalle pericopi delle preghiere cristiane Padre nostro, Ave Maria e Gloria al padre. Alcune conservano il titolo originale, in altre, invece, il riferimento è criptato, ma svelato dall’autore nell’Appunto finale, che come in nessun altro libro di Fo assume le veci di una vera e propria glossa al testo, data la particolare natura di quest’ultimo. Tuttavia, i componimenti di questa sezione non hanno natura devozionale o teologica: essi rappresentano il tentativo di «accostarsi al divino […] da quaggiù»[1], dalle trame del quotidiano e della vita familiare, per un «pregare di lontano»[2]. E questa lontananza è duplice: il poeta è lontano non solo da quel mondo intelligibile a cui tenta di accostarsi, ma anche, temporalmente, da quei frammenti di vita familiare che costituiscono la base sulla quale Fo costruisce la sua preghiera profana. La prospettiva è, quindi, quella della lontananza, o meglio, della mancanza: gli spicchi di vita reale fermati sulla pagina ‘mancano’ perché chi li ha vissuti è ormai lontano da loro nel tempo, ma proprio questi episodi racchiudono una scheggia di quel mondo divino che a sua volta ‘manca’ perché risiede oltre le nostre possibilità percettive. Ed è proprio la natura ‘manchevole’ di entrambe le sfere, quella contingente e quella metafisica, a far sì che esse, nella prospettiva umana, si attraggano reciprocamente, muovendosi l’una in direzione dell’altra fino ad incontrarsi a metà strada, in quella zona intermedia tra terra e cielo occupata dalla sfera del desiderio. Nell’esistenza di quest’altra sfera sta la possibilità umana di cogliere una connessione tra i due mondi, ed è questo un primo significato del titolo originario Reliqua desiderantur.
Il tentativo di accostarsi al divino dalla prospettiva contingente è attuato tramite la costruzione dei testi a partire dalle pericopi delle preghiere cristiane, e questo fa sì che molte poesie del Libro d’oro contengano un doppio livello di significazione, contengano cioè, a un secondo livello, un significato allegorico. Un esempio su tutti è rappresentato da che sei nei cieli:

D’improvviso straziava il pomeriggio
il pianto del bambino
disperato al cancello, per un caso
chiuso di fuori.

Corsi sopra, di lato:
«Alessandro, – chiamai – scendo, ti apro.
Non preoccuparti più. Dammene il tempo!»

«Dove sei? – singhiozzò – Non ti vedo…»

«Qui, affacciato,
settimo piano del palazzo accanto…»

Un attimo, la mano sopra gli occhi,
non mi trova, si scorda dell’aiuto
non sente più, stravolge in una smorfia
dolorosa la bocca, grida forte,
implora il padre, e ormai rinnega pure
la pura verità di avermi udito.[3]

La scena rappresenta un bambino rimasto chiuso fuori di casa e il tentativo da parte di chi dice io di aiutarlo. Per comprendere il carattere allegorico del testo dobbiamo guardare al titolo della poesia, che sei nei cieli, che è una pericope del Padre nostro e a due elementi chiave: uno è il «settimo piano del palazzo accanto» al v. 10, l’altro è «implora il padre» al penultimo verso. Il settimo piano del palazzo da cui giunge la voce in aiuto del bambino è un dato di realtà: Fo, come spiega nella nota alla poesia al Figlio, viveva in un appartamento al settimo e ultimo piano di uno stabile in via dell’Orsa Maggiore a Roma. Ma, come già in al Figlio e poi in Ultimo piano[4], questo settimo piano si carica di un significato allegorico, allorché al primo livello di significazione si sovrappone il riferimento alla simbologia cristiana, per cui il settimo piano del palazzo rappresenta il settimo cielo della teologia cristiana. Alla luce di ciò, «implora il padre» al penultimo verso può significare un’implorazione rivolta al Padre, a Dio, come induce a pensare lo stesso titolo della poesia. Un’altra spia è costituita dal termine «rinnegare», che riporta automaticamente alla tradizione cristiana e all’episodio di Pietro. Se così fosse, come a noi pare, come può essere riletta la scena? Il testo rappresenta un bambino che si chiama Alessandro (come il poeta), il quale si trova in un momento difficile della propria vita e riceve una chiamata in suo aiuto da una voce proveniente dal cielo. Il giovane Alessandro, però, non riesce a vedere chi lo sta chiamando («Dove sei? […] Non ti vedo»), si dimentica di questo aiuto e arriva persino a rinnegare di aver sentito quella voce in suo soccorso. Ora, il titolo della poesia e il settimo piano/cielo da cui la voce in aiuto proviene lasciano pensare che quella voce sia la voce del Padre, che arriva in soccorso del giovane Alessandro Fo in un momento di difficoltà. Il fatto che egli chieda «Dove sei? […] Non ti vedo» indica probabilmente l’ateismo del poeta in quel periodo, o meglio, l’agnosticismo, perché comunque il bambino «implora il padre», quasi a dire: «se davvero esisti, vienimi in soccorso». Tuttavia, il fatto che il giovane Fo non riesca a vedere chi lo sta chiamando può indicare che i dubbi a quell’altezza erano ancora troppo forti, ed egli, infatti, ignora questo segnale di aiuto proveniente da Dio o dalla fede intesa come possibile rifugio in quel momento giovanile di scoramento, arrivando addirittura a rinnegare di aver udito quella voce. Volendo ipotizzare un’altra interpretazione, la scena potrebbe essere letta anche come un episodio di vocazione mancata. Sia come sia, il carattere allegorico di questo testo come di altri presenti in Libro d’oro risulta evidente, ma l’aspetto più originale di questa costruzione allegorica sta nel modo in cui essa viene messa in piedi da Fo, il quale parte sempre da un dato di realtà che però racchiude già in sé un possibile significato secondo, allegorico e divino, accentuato poi dal legame con la vera preghiera. Ed è proprio questa doppia natura, biografica e contingente da un lato, divina e allegorica dall’altro, a rendere i testi del Libro d’oro delle vere e proprie piccole parabole del quotidiano.
Se il legame con le pericopi delle preghiere porta spesso le poesie nella direzione dell’allegoria, d’altro canto queste non ne sono mai condizionate al punto da sfociare nel teologico o nel confessionale, e questo perché il punto di vista è di chi tenta un avvicinamento al divino dalla condizione di «semipagano»[5], di chi cerca non di arrivare direttamente alla sfera divina (qui si cadrebbe nel confessionale) ma di arrivare ad essa partendo dalla sfera contingente, l’unica realtà disponibile alle possibilità percettive umane. E solo su quest’ultima l’uomo può fondare una rappresentazione di quel mondo che per sua natura non è rappresentabile. Per cui, ad esempio, il poeta può immaginarsi il volto della Vergine soltanto combinando una serie di bellissimi volti femminili umani:

[…]
Tento anch’io così di combinare
qualche bel volto umano
nello sforzo profano
di riuscirmela a raffigurare.
Ma non so levitare
all’inimmaginabile visione,
con altri sensi (questi),
in un’altra dimensione.
[…][6]

La doppia natura delle poesie di questa prima sezione, contingente e astratta, è riscontrabile, in un certo senso, anche sul piano stilistico e lessicale, soprattutto nell’uso della citazione e del rimando. Si tratta di una sorta di ‘traduzione’ a livello testuale della compresenza di alto e basso che abbiamo sul piano del significato, per cui abbiamo citazioni e rimandi afferenti tanto alla sfera colta quanto a quella pop e prosastica: troviamo, infatti, rinvii ai Vangeli (Stagioni), riferimenti a Virgilio, a Sofocle, frammenti in latino (della nostra morte) e allo stesso tempo la trascrizione di frasi trovate sulle pareti dei bagni pubblici, The Elephant Man di Lynch e la canzone Cesso di Pippo Franco (adesso). Commistione, questa, rintracciabile anche in uno stesso testo, come in al Figlio, poesia programmatica anche per tale ragione stilistica:

[…]
Dal terrazzo si poteva ascendere,
volendo, fino a Dio,
se non come Agostino,
gettandosi lo stesso
oltre i dubbi in un salto
verso la luna, verso l’Orsa Maggiore,
magari, come da ragazzo, alla Fosbury.
[…][7]

Nel giro di sei versi si incontrano prima «Dio» e «Agostino», poi l’«Orsa Maggiore» e il salto alla «Fosbury», dove l’Orsa Maggiore è sì il nome di qualcosa di ‘alto’, se così si può dire, ma è anche il nome della via dove si trovava l’appartamento protagonista della poesia. Ecco, quindi, la compresenza testuale di ‘alto’ e colto (Dio e Agostino) e di ‘basso’ e prosastico-quotidiano (Orsa Maggiore e Fosbury). Ma questa commistione è presente anche a livello generale, sul piano più propriamente stilistico e lessicale: alla stretta contingenza, data in particolare dalla molteplicità di nomi di luoghi che serve a circoscrivere queste preghiere nel reale ambito della vita familiare, fa da controcanto una serie di termini ricorrenti che rimandano all’astratto: «alto», «cielo», «Dio», «pensiero».
Questa particolare coesistenza di alto e basso, che per principio rimanda al «cozzo di aulico e prosastico» compiuto per la prima volta da Gozzano, non fa altro che rispecchiare la stretta contingenza di Alessandro Fo, uomo e uomo di cultura, la cui reale esistenza è caratterizzata tanto dalla presenza di Agostino quanto dalla scritta DIO È MORTO. FEDERICO NIETZSCHE trovata sul muro di un bagno pubblico (citazione colta anche questa se vogliamo, ma ironicamente  declassata visto il luogo in cui è riportata). Ma il grande merito del poeta sta nella naturalezza con cui accosta questi elementi e soprattutto nel non aver paura o vergogna di farlo.

Il tono blu (variazioni Chopin) è la sezione che fa da intermezzo, o meglio da interludio, visto il tema musicale, tra le altre due, più affini tra loro come progetto. Tuttavia, anche se apparentemente si direbbe la silloge più autonoma perché dotata di un tema ben circoscritto, essa in realtà risulta perfettamente coerente all’interno di Mancanze. A ben vedere, infatti, il filo conduttore delle tre sezioni è il tentativo di accostarsi, in generale, al metafisico, a ciò che risiede oltre la sfera del materico e per questo ‘manca’: al divino nella prima e nella terza, alla musica nel Tono blu. E sia nel Libro d’oro che nel Tono blu questo avvicinamento al metafisico viene attuato partendo dalla contingenza, dalla vita reale: quella dell’autore nella prima silloge, quella di Chopin – ricavata da biografie, articoli, ritratti – nella seconda. Nel Tono blu, in realtà, Fo utilizza un doppio ipotesto: non solo biografie, ma anche materiale saggistico sulla musica vera e propria del compositore, e in particolare le Note su Chopin di Gide. Si vengono così a distinguere due tipologie di poesie: quelle più strettamente legate alla biografia del compositore, in cui Fo fantastica a partire da episodi e personaggi reali, immaginando ad esempio che la fanciulla presente in uno schizzo di mano del musicista sia la sua amante George Sand (Impromptus (suoi disegni)), oppure diventando egli stesso Chopin mentre scrive a Delacroix (A Delacroix) o all’amico Grzymala (Pigne e viole); dall’altro testi che sono vere e proprie analisi in versi della produzione di Chopin, come l’intera serie di variazioni su osservazioni di Gide (serie che costituisce la seconda parte della silloge). Un esempio di questa seconda tipologia è dato da Studio in la minore (op. 25, n. 11):

Quasi temendo qualcosa di nuovo,
passeggiata densa di scoperta
cresce sulla sua stessa indecisione.

Muove a sorpresa,
*                               *esita,
*                                          *si accerta
ch’era già noto il segreto che trova,

ma oscuro al fondo dell’immaginazione.[8]

Da un lato, quindi, Il tono blu è composto da queste poesie più ‘astratte’, metafisiche, tali anche per un linguaggio maggiormente rarefatto (anche se questo caratterizza, in generale, tutta la sezione rispetto alle altre due), dall’altro, dai testi in cui entra direttamente la biografia di Chopin, come in Fuga, vera e propria rassegna di ritratti del musicista in cui è riscontrabile quella convivenza di riferimenti colti e contingenti già incontrata precedentemente, per cui Chopin, in base alla raffigurazione, assomiglia a Mozart ma anche a Del Piero, a Leopardi come a un collega dell’autore:

Il volto è inafferrabile. Ogni volta
in un nuovo ritratto è un altro uomo.

Il dagherrotipo non ne dice molto
*     *(quello del ’48; ce n’è un altro
*      *tutto diverso, e ora un terzo – falso? –
*       *di lui, se è lui, appena dopo la morte):
lo presenta caricaturale,
carta da gioco della sofferenza.

Una impressione è il ritratto del ’38,
per quanto a firma Eugène Delacroix.

Ora in questi occhi sembra quasi Mozart,
ora invece un abate, un Del Piero,
e qui è Leopardi, qui Stefano Carrai,
in un dipinto di Maria Wodzińska.

*                                   *Ora il naso è piegato
per un gradino improvviso sul taglio.
Ora è tagliente, sottile, arcuato.
Nel dagherrotipo è come spappolato
fra le borse degli occhi, tumefatto.

E il calco della mano non appare
molto di più di un cartello stradale.

Mentre lo cerco, nel febbraio del ‘quattro,
nella mia città non sono il solo.
Un ignoto alter ego, un suo alter ego,
è passato ieri in libreria:

«Ha cercato al pc ben quarantotto
titoli su Chopin
prima di andare via».[9]

La terza e ultima sezione, Figure d’angeli, è aperta dall’epigrafe che riporta il passo della Vita nova da cui è tratto il titolo: «Onde partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli». Come Dante sopperiva all’assenza di Beatrice disegnando figure che ne incarnassero l’essenza celeste, allo stesso modo Fo di fronte alla ‘mancanza’ di quella sfera divina irraggiungibile disegna figure umane che «in qualche loro gesto o atteggiamento schiudono un raggio di sostanza angelica»[10], afferma, cioè, come già faceva nel Libro d’oro, la possibilità di cogliere particelle di quel mondo ultraterreno nelle nostre reali esistenze, persino nelle persone in cui capita di imbatterci nella vita di tutti i giorni. E allora l’ultima sezione di Mancanze si configura come una vera e propria rassegna di documenti umani, una grande ekphrasis di angeli della terra ritratti sulle pareti dell’enorme chiesa profana che tutti frequentiamo. Fo coglie tracce di divino in persone incontrate per caso, passanti, ma anche amici e conoscenti: da una rediviva Simonetta Cattaneo Vespucci scorsa dietro a una finestra (Angelo del Botticelli) a un umile prete indiano (Angelo Ciriaco), da una donna seduta su una panchina (Angelo distratto (o malizioso)) al padre malato in ospedale (Padre già quasi angelo), dalla più tradizionale figura della passante connotata angelicamente (Angelo a sorpresa (incrociandolo)) a una donna che racchiude in sé tutta la bellezza divina e che è la protagonista della poesia che più di tutte rivela il senso dell’ultima silloge:

L’infinita bellezza del creato
si rifrange in singole creature.

Me ne stavo in un angolo.
Si fece largo fra le campiture,
le stelle cesellate,
in un piumino bianco,
che ne risplendeva tutto il campo
sotto il passo aggraziato.

Come fa a condensarsi (riflettevo)
così la Sua bellezza,
e in simile evidenza
*                                 *inoppugnabile?

Il mistero resta inafferrabile
(ma a noi qui il privilegio
dell’incontro con l’angelo).[11]

«L’infinita bellezza del creato | si rifrange in singole creature»: in questo distico iniziale è racchiuso il significato di Figure d’angeli, ma in realtà di tutta l’opera. Perché Fo, con Mancanze, ci dice proprio questo, che quella sfera, nonostante sia oltre le nostre possibilità percettive, non è irraggiungibile: tracce di essa sono sparse nel mondo di quaggiù, sta a noi il compito di coglierle. Ma soltanto di tracce possiamo accontentarci, mentre il resto, ciò che veramente ‘manca’, è e sarà sempre qualcosa che possiamo soltanto desiderare.
A questo punto il senso di quelle righe conclusive di Vecchi filmati riportate in apertura appare chiaro e illumina quanto detto finora. Se Vecchi filmati era, infatti, un libro «tramato dalle assenze», a partire da quella di chi lo ha scritto, Mancanze è una sorta di continuazione di quel libro, è quella raccolta che avrebbe dovuto intitolarsi «L’assente». Continuazione dell’opera precedente, ma a partire da una prospettiva differente. Se in Vecchi filmati Fo cantava «la somma di tutte le possibili conquiste impossibili», con Mancanze prosegue questo canto, ma da un punto di vista nuovo, quello di chi, in un certo senso, è diventato adulto. La somma di tutte le possibili conquiste impossibili, infatti, non si incarna più in una figura femminile, ma in quel figlio la cui mancanza è cantata proprio in apertura del libro, annunciando in questo modo che esso sarà un’opera su ciò che è rimasto fuori dalla vita reale e su ciò che per propria natura ne rimane e rimarrà sempre fuori, nella sfera del desiderabile. Ed è questo è il vero significato del titolo originario, Reliqua desiderantur.

Ma il principio della mancanza è anche un’idea di poesia. E questo in due sensi. Per Fo scrivere significa fermare sulla pagina «spicchi di tempo», il che vuol dire separarsi definitivamente da essi, farsi assente da quegli episodi di vita che a loro volta diventano assenze, mancanze, il cui unico spazio di vita diventa quello della poesia. Ma ogni poesia, propriamente, nasce da una mancanza: di ciò che della vita non si riesce a cogliere e a comprendere. Il metafisico e il divino rappresentano quanto di più ‘mancante’ esista nella vita dell’uomo, il quale può cercare soltanto di avvicinarsi a tali sfere e solo dalla prospettiva umana e contingente. Tuttavia, una connessione tra questi due mondi esiste e l’uomo può rintracciarla ponendosi in quel punto intermedio, in quel luogo a metà tra terra e cielo che è occupato dalla sfera del desiderio, la quale altro non è che la sfera della poesia. L’esistenza umana dovrà sempre fare i conti con la mancanza di significato, con ciò che non riusciamo a comprendere perché oltre le nostre possibilità conoscitive e percettive, ma in Mancanze, come in tutta l’opera di Fo, questo non è visto negativamente, «anzi è bello così, a mio parere»[12], e infatti il libro non canta l’abisso e il vuoto esistenziale, bensì descrive la ricerca del polo opposto all’abisso. Mancanze non rappresenta la saison en enfer del poeta, ma, al contrario, il percorso nella vita quotidiana di chi non solo ha già compiuto quella discesa, ma è anche risalito fino ad arrivare a toccare quel mondo intangibile che sta al polo opposto. In questo senso Mancanze rappresenta davvero il libro della maturità di Fo.
Assenze e mancanze rappresentano ciò che resta al di là di quanto possiamo afferrare e comprendere, mondi e cose di cui possiamo individuare soltanto tracce e frammenti sparsi nel contingente delle nostre esistenze di ogni giorno. Ma è proprio da queste tracce che si può risalire a quei mondi e a quelle cose, a quei reliqua che possiamo soltanto desiderare, mentre coglierle è e resterà sempre il compito della poesia.

*

*

[1] A. Fo, Mancanze, Torino, Einaudi, 2014, p. 112.

[2] Ivi, p. 111.

[3] Ivi, p. 9.

[4] Ivi, p. 32.

[5] Ivi, p. 111

[6] Ivi, fra le donne, p. 26.

[7] Ivi, p. 5, vv. 9-15.

[8] Ivi, p. 63.

[9] Ivi, Fuga, pp. 61-62.

[10] Ivi, p. 112.

[11] Ivi, Angelo che cerca posto, p. 80.

[12] Ivi, p. 117.

 

Immagine: Carl Andre

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