Yves Bonnefoy, Insieme ancora

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a cura di Jacopo Rasmi

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Ensemble encore è un poemetto presente in Ensemble encore. Suivi de Perambulans in noctem (Mercure de France, 2016), l’ultima raccolta pubblicata in vita da Yves Bonnefoy. In ricordo del poeta francese eccone una traduzione inedita di Jacopo Rasmi.
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Insieme ancora
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I.

È strano, non vi riconosco.
Fa così buio che più non vedo il vostro volto
Nonostante nei vostri occhi questa luce
Cangiante così lontana laggiù.
Capisco che voi tutti, voi non siete più
Al mio fianco che una sola presenza,
A cui allungare la coppa, non so
Né lo voglio, la poso, un momento.
Scorgendo le vostre mani,
Le tocco con le mie, può bastare.

Perché è vero che nulla è reale, di questa sala
Dove siamo tutti insieme, voi e noi.
Avesse delle pareti, queste scompaiono
Non appena mi avvicino. Non so
Se sia dentro, fuori, questa notte chiara,
Prendo la coppa, la sollevo, non è più.

Cosa contenesse, che l’abbia mai saputo,
Sembrava reale, lo era forse,
Diciamo, fu del vino
Che desideravamo bere insieme.
Rammento i nostri luoghi di condivisione,
Eravamo là dove volevamo,
Un prato, e quei grandi alberi davanti al cielo,
O contro rocce, nelle tenebre?
Io mi ricordo, ma cos’è, ricordarsi?
Rapido il nulla che si spalanca nella clessidra.
La memoria è tale pozzo. Intorno, l’estate,
La macchia è deserta. Io son là,
Sollevo il coperchio di ferro rugginoso
Dell’acqua di un altro secolo, di un altro cielo,
Mi chino, sei tu,
Il sorriso di così tanti anni in questa notte.

Cosa volevamo?
Soltanto preservare del senso alle parole.
Erano loro la nostra coppa, il linguaggio,
La alzo per voi e con voi,
Son le nostre voci, questo disordine d’eco,
Sotto una volta, scura, poi questo silenzio?
Sconosciuti hanno forzato la porta,
Passano come un vento attraverso di noi,
La sala si riempie e si svuota.

Amici miei, questa terra va così nera
E addirittura così spesso immonda
Che non so che dire. Questo albero, bello?
Ma si getta un bimbo in fondo a un pozzo,
Questa linea di schiuma? Parlare tradire.
Tradire, perché è continuare a voler vivere,
Felici, addirittura, talvolta. E questi momenti
Hanno bellezza, nevvero? Bella, la luce
Che avvolge, di sera,
I mandorli che avevamo piantato,
Ah, amica mia,
Io credo, quasi so
Che la bellezza esiste e significa. Io credo
Che ci sia ancora senso a fare nascere,
Attesto che la parole hanno diritto al senso.
Ma com’é difficile
Render pensiero una tale fede,
Come sembra naturale vergognarsene!

E chi è,
Quest’uomo che, vedo, ci ha raggiunti?
Ma sì, sei tu
Che mi feci così tanto bene a vent’anni
Quando non dubitavo per nulla di me, e tuttavia
Avevo bisogno di qualcuno che mi desse fiducia.
Non ho mai smesso di darti del lei,
Amico mio. Ma sento ancora
Il battito nella tua voce
Quando ti piaceva dire che è “clamorosa”
La parola insensata della poesia,
Avevi torto, spesso,
Ma io sapevo il vero dei tuoi errori,
Accetta ciò che ti dono, stanotte.
È il mio bisogno di continuare a credere
Che c’è del senso a essere. E anche se
Fuori, è vento e pietra. Appena, lontano,
Qualche sussulto della luce.

E Plotino, parimenti,
Insegnava che la luce nasce dagli occhi,
Si lancia da questi nella materia,
Cerca, e talora questo grande raggio
Che gira, esita di tanto in tanto, si ferma
Per farsi delle parole ancore indistinte,
Emana da occhi ciechi. È commovente,
Vedere queste orbite vuote sprigionare le loro fiamme.

Io vi prendo, mani di cieco,
Poso sulle vostre dita
Le mia labbra che hanno sete. Un altro tra voi,
Fu colui le cui parole, soffocando
d’un bisogno insaziabile di assoluto,
Hanno lacerato con il loro raggio
Il mio cielo che fu così nero per alcuni anni
Conosceva il tipo di sofferenza
Che causa il sapere
Che il bene che desideriamo più di tutto
Si rifiuterà per sempre; e peggio, il capire
Che questo bene non era che il suo sogno. Ma seppe
Che bisognava decidere del reale questo sogno
Per restituire vita
A quella che amava, che non lo amava,
Ma moriva di sogno tanto quanto lui.

E questi altri, alcuni altri,
Faceva notte, già, mi offrivano dei libri,
Ne giravano le pagine. Non osavo
Ascoltarne le parole, che si scavavano
In me come loro un abisso, con queste grida
Di livello in livello sul fianco di pietra,
Queste braccia che si gettavano verso il cielo vano,
Questi colpi sordi in sale senza finestre,
E tanta, tanta per sempre di questa morte
Che ci è incomprensibile. Ma ascoltavo
Attraverso la mia angoscia, Ed era vedere
Più in basso, come un bimbo raggomitolato
Nella pace del suo sogno, il cielo, la terra,
Con dall’uno all’altra il pergolato degli alberi
Ancora grigio dell’alba che prendeva
A piene mani nel colore prossimo.
Uscire, presto di mattina, quando tutto è calmo,
Quando il bene, è il frutto nel fogliame,
E il vero il rumore quasi impercettibile
Delle bestie che si svegliano dappertutto.
Amici miei, comprendiamo che queste vite pensierose
Dei rami, degli arbusti,
Sanno; che la loro attesa
Giustifica che noi amiamo. Decidiamo
Che la fiamma del nostro abbecedario sui nostri tavoli
Bruci dritta, stanotte ancora. Prendiamo la coppa
Delle nostre parole per quanto incallite, carbonizzate,
Beviamo a collo il nulla.
Amiamo il nulla degli ammassi di stelle, delle nane bianche.

Uno tra noi si alza, lascia la sala,
Guarda il cielo sopra la notte.
È un fiume senza rive, ma la sua corrente
Si gira all’improvviso, laggiù, come chiamato
Da non so quale grido, nel futuro.
Andrete mai fino a lui,
Toccherete mai con la mano la sua spalla,
No, non sussulterà,
Il suo nome,
Parrà di non sentirlo.
Pur voltando verso di voi,
Ciò che resta, sotto le stelle, del suo viso.

E mi dico, sei tu,
Il mio professore, il mio maestro di filosofia,
Che ci diceva, col suo piccolo sorriso,
Che rifiuterebbe di stringere la mano
Di un visitatore celebre ma menzognero.

Tu sapesti tradurre
L’epitaffio sublime di Kierkegaard.
*
*

II.

Coppa della fiducia,
Modellata nell’argilla dei grandi vocaboli,
Sappiamo bene
Che la tua forma è informe, ma che importa,
Amare ci prova di più. Avevo eletto
Nell’impressione felice di un primo giorno,
Una pietra, il blu cobalto. Oh amica mia,
Conserviamogli questo bel nome. Io prendo la tua mano,
Questo battito al polso, è il fiume.

E le nostre mani si cercano, si trovano, si amano,
Abbiamo modellato un’altra vita,
Una tempesta è nata dai soli nostri palmi
Che si sfiorano, si urtano, si accavallano,
In questa creta, il desiderio, nell’amare, questo augurio.

Poi, nel cavo dell’argilla, questi occhi nuovi,
Fu, lo capimmo,
Questo stesso bagliore che avevamo
Amato veder sgorgare, presto, prima del giorno,
Da sotto la cima ancora poco nitida
Dei nostri monti bassi: e quali preparativi
Silenziosi nel metallo in fiamme
Dell’immensa dolcezza che sarebbe l’alba!
Un albero poi un albero appaiono,
Ancora neri, si sarebbe detto, secondo quei segni
Che parevano tracciare sul fondo della bruma,
Che un dio di benevolenza concepiva,
Così perfetta com’era,
Questa terra, per conciliare spirito e vita.
L’anello che non mettemmo al dito,
Che sia questo luogo,
Evidenza senza prova, sufficiente.

Era del reale, ciò che fummo,
Il guscio d’un’attesa che la fenderà
Un giorno, con la sua crescita debole, invincibile?
Blu questo pendio sotto il nostro sentiero,
Silenziosa la barriera di legno della nostra soglia,
Alti sono i fumi. Il visibile è l’essere,
E l’essere, ciò che assomiglia. Oh tu, e tu,
Vita nata dalla nostra vita,
Voi mi tendete le vostre mani, che si congiungono,
Le vostre dita sono insieme l’Uno e il molteplice,
I vostri palmi sono il cielo e le sue stelle.
Siete proprio voi che tenete il grande libro,
No, che lo fate nascere, rimontandolo,
Pagine cariche di segni, di questo abisso
Che è la cosa in attesa del suo nome.

Mi ricordo.
La notte era stata una bella tempesta
Poi, ai corpi in disordine
L’acquiescenza complice del sonno.
Con il giorno il bambino è entrato nella camera.
La mattinata, fu
Per cogliere reali i frutti visti in sogno,
Estinguibili le seti. E che la luce
Possa arrestarsi, è la felicità.
Me ne ricordo. È questo, ricordarsi?
Oppure immaginare? Varcabile agevolmente
La frontiera laggiù tra tutto e niente.
*
*

III.

Miei prossimi, vi lascio in eredità
La certezza inquieta di cui ho vissuto,
Quest’acqua buia trapuntata dei riflessi d’un oro.
Perché, sì, tutto non fu un sogno, nevvero?
Amica mia, congiungemmo davvero le nostre mani fiduciose,
Abbiamo proprio dormito dei veri sonni,
E la sera, era davvero stata queste due nubi
Che si stringevano, in pace, nel cielo chiaro.
Il cielo è bello, la sera, è a causa nostra.

Amici miei, miei amati,
Vi lascio i doni che mi faceste,
Questa terra vicina al cielo, a lui unita
Da queste mani innumerevoli, l’orizzonte.
Vi lascio il fuoco che guardammo
Bruciare nel fumo delle foglie secche
Che un giardiniere dell’invisibile aveva spazzato
Contro uno dei muri della casa perduta.
Vi lascio queste acque che sembrano dire
Al cavo, nell’invisibile, del burrone
Ch’è oracolo il nulla che portano
E promessa l’oracolo. Vi affido
Col suo poco di brace
Questo mucchio di cenere nel focolare spento,
Vi lascio lo strappo delle tende,
Le finestre che sbattono,
L’uccello rimasto prigioniero della casa chiusa.

Cosa ho, da lasciare? Ciò che ho desiderato,
La pietra calda di una soglia sotto il piede nudo,
L’estate eretta, con le sue onde improvvise,
Il dio in noi che non avremo avuto.
Ho qualche fotografia da lasciare,
Su una di queste,
Tu passi, accanto ad una statua che fu,
Giovane donna col suo bimbo che rideva rincasando
Nel rovescio improvviso di quel giorno,
Nostro mutuo segno di riconoscenza
E, nella casa vuota, il nostro bene
Che resta presso di noi, ora, nell’attesa
Del nostro bisogno di questa all’ultimo giorno.
*
*

*
*
*

Ensemble encore
*
*

I.

C’est bizzare, je ne vous reconnais pas
Tant il fait nuit je ne vois plus votre visage
En dépit dans vos yeux de cette lumière
De diverses couleurs si loin là-bas.
Je comprends que vous tous, vous n’êtes plus
Auprès de moi qu’une seule présence
À qui tendre la coupe, je ne sais
Ni ne le veux, je la pose, un instant.
Apercevant vos mains,
Je les touche des miennes, c’est suffisance.

Car c’est vrai que rien n’est réel, de cette salle
Où nous sommes ensemble, vous et nous.
A-t-elle des cloisons, elles s’effacent
Dès que je m’en approche. Je ne sais
Si c’est dedans, dehors, cette nuit claire,
Je prends la coupe, je l’élève, elle n’est plus.

Et que contenait-elle, ai-je su jamais,
Cela semblait réel, ce l’était peut-être,
Disons, ce fut un vin
Que nous avions à désir de boire ensemble.
Je me souviens de nos lieux de partage,
Etions-nous là où nous désirions,
Un pré, et ces grands arbres devant le ciel,
Ou plaqués à des rocs, dans des ténèbres?
Je me souviens, mais qu’est-ce, se souvenir?
Rapide l’évasement du rien dans le sablier.
La mémoire est ce puits. Alentour, l’été,
La garrigue est deserte. Je suis là,
Je lève le couvercle de fer rouillé
De l’eau d’un autre siècle, d’un autre ciel,
Je me penche, c’est toi,
Le sourire de tant d’années dans cette nuit.

Que voulions-nous?
Seulement préserver du sens aux mots.
C’étaient eux notre coupe, le langage,
Je la lève pour vous et avec vous,
Est-ce nos voix, ce désordre d’échos
Sous une voûte, sombre, puis ce silence?
Des inconnus ont forcés notre porte,
Ils passent comme un vent à travers nous,
Notre salle s’emplit et se désemplit.

Mes amis, cette terre va si noir
Et même si immonde si souvent
Que je ne sais que dire. Cet arbre, beau?
Mais on jette un enfant au fond d’un puits,
Cette ligne d’écume? Parler, trahir.
Trahir, puisque c’est continuer de vouloir vivre,
Heureux, même, parfois. Et ces instants
Ont beauté, n’est-ce pas? Belle, la lumière
Qui enveloppe, le soir,
Ces amandiers que nous avions plantés,
Ah mon amie,
Je crois, presque je sais
Que la beauté existe et signifie. Je crois
Qu’il y a sens encore à faire naître,
J’atteste que les mots ont droit au sens.
Qu’il est difficile pourtant
De faire de cette foi de la pensée,
Qu’il semble naturel d’avoir honte!

Et qui est-il,
Cet homme que je vois qui nous a rejoints?
Mais oui, c’est toi
Qui me fis tant de bien quand j’avais vingt ans
Et ne doutais nullement de moi, et pourtant
Avais besoin d’un qui me fit confiance.
Je n’ai jamais cessé de te dire vous,
Mon ami. Mais j’entends encore
Le martèlement dans ta voix
Quand tu aimais  à dire qu’est “fracassante”
La parole insensée de la poésie.
Tu avais tort, souvent,
Mais je savais le vrai de tes errements.
Accepte ce que je t’offre, cette nuit.
C’est mon besoin de continuer de croire
Qu’il y a sens à être. Et même si
Dehors, c’est vent et pierre. À peine, au loin,
Quelques trébuchement de la lumière.

Et Plotin, aussi bien,
Enseignait-il que la lumière naît des yeux,
Elle s’élance d’eux dans la matière,
Elle cherche, et parfois ce grand rayon
Qui tourne, hésite à des instants, s’immobilise
Pour se faire des mots encore indistincts,
Émane d’yeux aveugles. Il est émouvant,
De voir jeter leurs feux ces orbites vides.

Je vous prends, mains d’aveugle,
Je pose sur vos doigts
Mes lèvres qui ont soif. Un autre parmi vous,
Ce fut celui dont les mots, suffoquant
D’un besoin insatiable d’absolu,
Ont déchiré de leur rayon à eux
Mon ciel qui fut si noir quelques années.
Il connaissait la sorte de souffrance
Que cause de savoir
Que le bien qu’on désire plus que tout
À jamais se refusera; et, pire, de comprendre
Que ce bien n’était que son rêve. Mais il sut
Qu’il fallait décider du réel ce rêve
Pour rendre vie
À celle qu’il aimait, qui ne l’aimait pas,
Mais mourait de rêver autant que lui.

Et ces autres, ces quelques autres,
Il faisait nuit, déjà, ils m’offraient des livres,
Ils en tournaient les pages. Je n’osais pas
En entendre les mots, qui se creusaient
En moi comme eux aussi un gouffre, avec ces cris
De niveau en niveau à flanc de pierre,
Ces bras qui se jetaient vers le ciel vain,
Ces coups sourds dans des salles sans fenêtres,
Tant et tant à jamais de cette mort
Qui nous est incompréhensible. Mais j’écoutais
À travers mon angoisse, et c’était voir
Plus bas, comme un enfant pelotonné
Dans la paix de son rêve, le ciel, la terre,
avec de l’un à l’autre l’arceau des arbres
Encore gris de l’aube qui prenait
À pleines mains dans la couleur prochaine.
Sortir, tôt le matin, quand tout est calme,
Quand le bien, c’est le fruit dans le feuillage,
Et le vrai la rumeur presque imperceptible
Des bêtes qui s’éveillent de toutes parts.
Mes amis, comprenons que ces vies pensives
Des branches, des buissons,
Savent; que leur attente
Justifie que l’on aime. Décidons
Que la flamme de cet abécedaire sur nos tables
Brûle droit, cette nuit encore. Prenons la coupe
De nos mots même racornis, carbonisés,
Buvons à même le rien,
Aimons le rien des amas d’étoiles, des naines blanches.

L’un d’entre nous se lève, il quitte la salle,
Il regarde le ciel par-dessus la nuit.
C’est un fleuve sans bords, mais son courant
Tourne d’un coup, là-bas, comme appelé
Par on ne sait quel cri, dans l’avenir.
Ires-vous jusqu’à lui,
Touchez-vous de la main son épaule,
Non, il ne sursautera pas.

Son nom,
Il semblera qu’il ne l’entende pas.
Tout de même tournant vers nous
Ce qui reste, sous les étoiles, de son visage.

Et je me dis, c’est toi,
Mon professeur, mon maître en philosophie,
Qui nous disait, avec son petit sourire,
Qu’il se refuserait à serrer la main
D’un visiteur célèbre mais qui mentait.

Tu sas traduire
L’épitaphe sublime de Kierkegaard.
*
*

II.

Coupe de confiance,
Façonnée dans l’argile des grands vocables,
Nous savons bien
Que ta forme est informe, mais qu’importe,
Aimer nous prouve plus. J’avais élu
Dans l’illusion heureuse d’un premier jour,
Une pierre, le safre. Ô mon amie,
Gardons-lui ce beau nom. Je prends ta main,
Ce battement au poignet, c’est le fleuve.

Et nos mains se cherchant, se trouvant, s’aimant,
Nous avons façonné une autre vie,
La coupe est née de seulement nos paumes
Se frôlant, se heurtant, se chevauchant
Dans cette glaise, le désir, dans aimer, ce voeu.

Puis, au creux de l’argile, ces yeux nouveaux,
Ce fut, nous le comprîmes,
Cette même lueur que nous avions
Aimé voir sourdre, tôt, dès avant le jour,
De sous la cime encore peu distincte
De nos montagnes basses: et quels apprêts
Silencieux dans le métal en feu
De l’immense douceur que serait l’aube!
Un arbre puis un arbre paraissaient,
Encore noirs, on eût cru, à ces signes
Qu’ils semblaient dessiner sur fond de brume,
Qu’un dieu de bienveillance concevait,
Si parfaite était-elle,
Cette terre, pour concilier esprit et vie.
L’anneau que nous ne mîmes pas à notre doigt,
Ce lieu le soit,
Évidence sans preuve, suffisante.

Était-ce du réel, ce que nous fûmes,
La bogue d’une attente qui la fendrait
Un jour, de sa poussée faible, invincible?
Bleue cette pente au bas de notre chemin,
Silencieuse la barrière de bois de notre seuil,
Hautes sont les fumées. Le visible et l’être,
Et l’être, ce qui rassemble. Ô toi, et toi,
Vie née de notre vie,
Vous me tendez vos mains, qui se réunissent,
Vos doigts sont à la fois l’Un et le multiple,
Vos paumes sont le ciel et ses étoiles.
C’est vous aussi qui tenez le grand livre,
Non, qui le faites naître, le remontant,
Pages charges de signés, de ce gouffre
Qu’est la chose en attente de son nom.

Je m’en souviens.
La nuit avait été le bel orage
Puis aux corps en désordre
L’acquiscement complice du sommeil.
Au jour l’enfant est entré dans la chambre.
La matinée, ce fut
De comprendre réels les fruits vus en rêve,
Apaisables les soifs. Et que la lumière
Peut s’immobiliser, c’est le bonheur.
Je me souviens. Est-ce me souvenir?
Ou est-ce imaginer? Aisément franchissable
La frontière là-bas entre tout et rien.
*
*

III.

Mes proches, je vous lègue
La certitude inquiète dont j’ai vécu
Cette eau sombre trouée des reflets d’un or.
Car, oui, tout ne fut pas un rêve, n’est-ce pas?
Mon amie, nous unîmes bien nos mains confiantes,
Nous avons bien dormi de vrais sommeils,
Et le soir, ç’avait bien été ces deux nuées
Qui s’étreignaient, en paix, dans le ciel clair.
Le ciel est beau, le soir, c’est à cause de nous.
Mes amis, mes aimées,
Je vous lègue les dons que vous me fîtes,
Cette terre proche du ciel, unie à lui
Par ces mains innombrables, l’horizon.
Je vous lègue le feu que nous regardions
Brûler dans la fumée des feuilles sèches
Qu’un jardinier de l’invisible avait poussées
Contre un des murs de la maison perdue.
Je vous lègue ces eaux qui semblent dire
Au creux, dans l’invisible, du ravin
Qu’est oracle le rien qu’elles charrient
Et promesse l’oracle.
Je vous lègue
Avec son peu de braise
Cette cendre entassée dans l’âtre éteint,
Je vous lègue la déchirure des rideaux,
Les fenêtres qui battent,
L’oiseau qui resta pris dans la maison fermée.
Qu’ai-je à léguer?
Ce que j’ai désiré,
La pierre chaude d’un seuil sous le pied nu,
L’été debout, en ses ondées soudaines,
Le dieu en nous que nous n’aurons pas eu.
J’ai à léguer quelques photographies,
Sur l’une d’elles,
Tu passes près d’une statue qui fut,
Jeune femme avec son enfant rentrant riante
Dans l’averse soudaine de ce jour-là,
Notre signe mutuel de reconnaissance
Et, dans la maison vide, notre bien
Qui reste auprès de nous, à présent, dans l’attente
De notre besoin d’elle au dernier jour.

*
*
*
*

Immagine: Christian Boltanski, Menschlich, 1994.

 

 

 

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