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VACANZA
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Prende contatto con le coperte lentamente, abbandona cellulari incrociando le gambe, sgancia il monologo. È uno di quei momenti in cui la condizione legale che permette a tutti di stare in reciproca consultazione va valutata pienamente nel suo beneficio, perché oltre il bianco dei fogli, oltre le superfici percorse dalle firme, ha ratificato in potenza la scoperta di molte possibili forme di condivisione del respiro con un sottobosco umano livellatissimo.
Sono i vuoti a compiere i miracoli. Quelli che guardano e parlano al passato, quelli che evitano a tutti i costi di incrinare la loro legge delle tavole che affida un’esclusiva ferrea a qualunque loro verità. (Ma si vede benissimo che le province che possediamo rivestono con cura confini mentali e geografici e fisici e tissutali.) Hanno il respiro affannato. Lo abbiamo tutti per ragioni diverse, ma loro di più, per loro l’intonazione è compiutezza del pensiero da affastellare, breve, nervosa, affatto coesiva. Tutti con toni definitivi. L’impressione è che vengano sempre fuori con qualcosa di saldo, conquistato rovinosamente da qualche parte, reso solido da chissà che travagli. Si formano. Devono essere investiti della forma più alta di rispetto. Finezze discorsive imballate nella loro personale gestazione, mentre tentano l’irrobustimento come piante grasse scordate al sole.
La stanza va di fumo, la misura delle pareti è sempre quella, è inevitabile che il catrame reclami la sua parte sull’intonaco bianchiccio. La finestra aperta, le persiane senza ordine puntano la strada, filtra poca aria, si definiscono gli estremi del gioco raggio-fumo. Le discussioni capitali avvengono in questo sudiciume da bettola. Quasi sempre. Qui riescono a muovere qualcosa, anche di piccolo, qui viene fuori che vedere meglio è svuotarsi progressivamente. (Prendere tutto ciò come cosa buona.)
Da confronti ripetuti viene fuori una facile disposizione al cambiamento emozionale e a schemi di controllo, dopo aver incassato spinte che non si volevano, dopo aver dovuto assecondare la necessità di ciò che per qualche motivo è sembrato spesso preordinato rispetto al “si” o al “no” del momento. (Bene.)
Il risultato dei fiati mescolato alle volute e agli spiragli che vengono dalle fessure e dalle persiane calanti ha un qualcosa di sgradevole. (E di questo si è certi.)
La parte di me che vorrebbe tenere viva sul momento una responsabilità interna della dizione perde terreno. Mi tiene per mano, ha occhi minacciosi, lascia che io decida di non muovere un dito. Continuo a esercitare una forza verticale sulla sedia, seguo con cenni del capo accennando leggermente a destra con la spalla e seguendo gli impulsi irregolari delle costole.
Vuoto è chi, non volendo barattare con niente il proprio sapere spicciolo, si ritiene più-che-formato, più-che-pronto, con ogni ragione. Chi riesce a lasciarsi oltrepassare dal significato scendendo con qualche stazione d’anticipo. Chi del pulviscolo saliente negli spiragli di luce arriva a fare uno schermo sottile per filtrare una quiete non verbale, una benedizione necessaria, un nulla infossato e appena germinale, un passo di cui la vita ha bisogno per smaliziare le preoccupazioni, per salvare spesso oltre tutti i contenuti.
(Percepirci fino in fondo come contorni pieni e affusolati, invocazione e piano scabro di lavoro, tenerezza a rate, muri a rate, corpi ispessiti?)
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Immagine: M. K. Čiurlionis, Creation of the World (II), 1905