L’altra lingua

ad-parnassum-1932-by-paul-klee

di Antonio Prete

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Questo saggio è tratto da Frammenti sull’arte poetica, in A. Prete, Il demone dell’analogia, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 122-124.

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Di quali suoni e di quali sensi è tessuta quell’altra lingua che la lingua della poesia custodisce, sotto le sue parole e nei silenzi che le dividono, come perduta terra dell’Atlantide, o come sogno d’una redenzione dalla lingua stessa, dai suoi poteri e dai suoi limiti?
Sfida silenziosa nel cuore assordante della babele, in grado di assumere, senza perdersi, la frantumazione dei sensi e l’eccesso dei suoni, in grado di trattenere quel che vien perduto quando una parola è pronunciata, in grado infine di rivelare, nel turbinio sacrale della glossolalia, la complicità con l’altro: l’altra lingua è scritta nel bianco che sostiene la parola e nel ritmo che la riporta in quel prima e dopo la lingua che è il musicale.
L’universo linguistico cui la poesia appartiene non coincide con la struttura linguistica che ne designa forme o generi, e neppure con le nascoste geometrie del senso, con i giochi della lettera – anagrammatici o ipogrammatici. L’infinita apertura del codice porta la lingua della poesia da una parte verso la sponda dove l’inconnu cerca una voce, dall’altra verso il non-luogo di quell’altro mondo nel quale soltanto essa è vera (“La poésie,” dice Baudelaire, “ est ce qu’il y a de plus réel: elle n’est vrai que dans un autre monde”).

Dalla dantesca “pantera profumata” alla vichiana “prima lingua” alla mallarmeana assenza della “suprême” che “le mot total”, in quanto idea, immagine, musica, intende adombrare, l’altra lingua è l’ordine rarefatto, ebbro, persistente, nel quale la voce “anteriore” incontra la possibilità del verso. Ma il verso subito si distanzia da quell’ordine, come da una riva mai abitata e sempre sognata, come da larve che la luce della parola ha subito disperso.
Lingua pura, che solo chi intende la lingua degli uccelli può ascoltare. Lingua d’una festa cui i poeti sono ammessi, ma poi trattenuti sulla soglia, come accade al convitato della Ballata di Coleridge, per ascoltare la narrazione d’un’avventura di mare e di visioni.

“Trouver une langue”: Rimbaud, “voleur de feu”, sperimenta, diventando veggente, il sacrificio delle lingue, la loro consunzione nei dizionari felpati e sulla superficie d’una comunicazione fatta di parole-fossili, di parole-polvere, di parole ragionevoli.
Una lingua che preceda e segua la lingua, per la quale le correspondances di Baudelaire hanno battuto un sentiero: “cette langue – aggiunge Rimbaud – sera de l’âme pour l’ âme, résumant tout, parfums, sons, couleurs, de la pensée accrochant la pensée et tirant”. Farà eco, più tardi, Valéry, scrivendo: “La poésie n’est en vérité que le sensuel du langage.” Una lingua corporale che abbatta gli artifici passando attraverso la tecnica dell’ebbrezza: sogno, ancora romantico, d’una cancellazione della distanza tra natura ed artificio, tra visione e comunicazione, tra tempo della poesia e tempo della storia?
Le lingue appaiono coinvolte nelle rovine della storia e della ragione. Un caleidoscopio basta ad illudere della loro attivazione fantastica, della loro rinascita? Illusione che coincide con la difficoltà dell’atto poetico, il quale pretende, sempre, di dissolversi nel linguaggio privo di parole che è la musica, restando costellato di parole: “La difficulté de la poésie – dice ancora Valéry – est de trouver des paroles qui soient en même temps musique par elle- même et musique par analogie.”
Il disordine che la poesia introduce nell’ordine del senso, e l’ordine che istituisce nel disordine del discorso naturale, le assegnano il regno della differenza e della dissonanza. Un’incoerenza armonica presiede alla poesia. Ma questo scarto e questa differenza sono vissuti dai poeti come un pallido rimedio all’assenza dell’altra lingua. I pensieri volteggiano attorno a quel passaggio del mallarmeano Crise de vers che diverrà per Benjamin l’offerta tematica per la meditazione sul compito del traduttore: “ Les langues imparfaites en cela que plusieurs, manque la suprême: penser étant écrire sans accessoires, ni chuchotement mais tacite encore l’immortelle parole, la diversité, sur terre, des idiomes empêche personne de proférer les mots qui, si non se trouveraient, par une frappe unique, elle-même matériellement la vérité.”
La parola da sempre taciuta, frammento di una lingua primigenia, si presenta sulla soglia dove il pensiero pretende all’evocazione dell’essere, bruciando le sequenze composite e monologanti dei saperi, ritirandosi dall’abbacinio dei discorsi – di potere e di confidenza -, e dal vociare che nel teatro del mondo fa della presa di parola un sigillo dell’azione, un dissolvimento del sogno, un compenso all’impossibile utopia. La mancanza della lingua suprema, nella quale tutti i silenzi sono raccolti come le iridescenze d’un diamante, dischiude, con l’imperfezione delle lingue, la possibilità di una remunerazione del difetto: il verso è il greto di un fiume mai esistito, che con quell’assenza costruisce parole come ghirlande per un ritorno che non ci sarà, per una celebrazione che non avrà luogo. E’ per questa distanza dall’essere che il pensiero poetante si profonda nelle rovine delle lingue, nelle loro ceneri e nelle loro immaginarie resurrezioni. Se la parola coincidesse con la verità, se la parola attingesse l’autentico di una disvelazione, la poesia non avrebbe più dalla sua la follia d’una mancanza; la lingua della poesia, insieme con la lingua della filosofia, sarebbero prosciugate da un’immensa contemplazione priva di suoni, di stormire, di visioni. Il naufragio nel gran mar dell’essere non è un impulso distruttivo, ma l’ascesi della lingua poetica che vuole oltrepassare se stessa e la sua complicità con le rovine. E vuole attingere, col silenzio, la fine del tempo poetico, la fine del tempo della povertà.
Il sogno dell’altra lingua vuole abolire i vuoti che separano il nome dalla cosa, la fonesi della parola notte dall’oscurità della notte, la pronuncia della parola giorno dalla luce del giorno, le luminescenze delle pietre preziose dai colori delle scritture geroglifiche e dai lampi e dai paesaggi che le compongono.
Omofonie, onomatopee, fonosimbolismi, così frequenti nella lingua della poesia,sono la scorciatoia che allude a questa impossibile abolizione. Il sogno dell’altra lingua è anche il sogno d’una lingua naturale. Ma anche questa coincidenza è un’abbreviazione: l’imperfezione delle lingue, la loro pluralità e difettosa traducibilità, cercano nella immediatezza della natura i silenzi dell’origine, nella rinominazione una nuova creazione.
Il poeta torna alla sua lingua – di cenere e di polvere -, ai suoi nomi distanti dal segreto delle cose, ai suoi pensieri, che volteggiano nella distanza dall’essere. Ogni volta il demone dell’analogia lo sospinge verso l’antica sfida. Residua, clownesca, eroicità del poeta: rifondare la lingua, rifare il mondo.

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Immagine: Paul Klee, Ad Parnassum, 1932

 

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