I testi che seguono sono tratti dalla plaquette Fari. 1984-2006. Ringraziamo l’autore per la concessione.
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TESTAMENTO
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Quindici giorni prima di morire
mio padre accese la televisione
e si mise a guardarla lento e solo.
Ero andato a vedere come stava
e lui mi disse di sentirsi solo
e decisi di fargli compagnia.
Trasmettevano un film americano
dove la polizia statunitense
s’era appropriata delle arti marziali
di una feroce banda gialla tanto
che li batteva sul loro terreno.
Chiesi a mio padre dove si svolgeva
e con un tono di stanca ovvietà
‘Nelle Marche’ rispose ed insistendo
io per una maggiore precisione
un suo gesto indicò di là dal vetro
l’immediata e notturna vicinanza.
Quando passarono i titoli di coda
puntò il suo dito verso quel biancore
indecifrabile e mi disse ‘Guarda,
Recanati ci è scritto’ e io assentii.
E chiedetevi pure se era lucido
se vi piace la stupida parola,
ma è questo il testamento di mio padre.
Voleva dire: da qualunque punto
si può capire e leggere il mondo;
voleva dire quanta sia violenza
nella quieta campagna marchigiana;
voleva dire che era il suo corpo
la marca vinta dalla non vittoria.
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RABELAIS
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Dubbio non c’è che abbiamo perso, e molto.
Da sempre abbiamo perso, dalla nascita.
Ma perché ricordarlo ad ogni passo?
Perché lenire d’elegia la piaga?
Perché sfibrare la dura corteccia
che ha solchi e pieghe di nostro lignaggio?
Restiamo al dono che ci è stato fatto:
gettiamo le parole nei crocicchi
poi le scordiamo e quando gigantesche
si fanno avanti nuove al nostro sguardo
con un trasporto di riconoscenza
corriamo verso e lì contro inciampiamo
addosso e intorno tumefatte membra
stillanti i corpi di tutte le linfe
della divina, timorosa scienza.
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EST
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Come in tristi lettucci di ospedale
stanno smunte le frasi ed allibite
se un asterisco le ha già condannate
quando raddoppia è morte avvenuta
più i vari gradi della malattia
tra l’asterisco e il punto di domanda
e tutte quelle cui astro perdona
non sai se sane o invece guarite.
Radiografici lampi diramati
lungo l’esile corpo delle frasi
in qualche modo risalgono il tempo
questi alberi cresciuti ai grandi laghi.
Sia lode a Chomsky e all’intera sua scuola
per averci mostrato che la lingua
più non è vita ma morte sonora
ed il suo passo teoria di una traccia.
Sceso dal Tibet, scampato al diluvio
pungolato e ammansito nei deserti
lucido e grasso sui campi di Grecia
senza fermarsi alle antiche dimore
vediamo adesso che il linguaggio è carne
che languisce alle rive d’occidente
enorme leviatano in agonia
metastasiante cancro che si affina.
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TRAGEDIA
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Il fatto di abitare mi sgomenta,
perché, mi chiedo, che diritto abbiamo,
per questo in sogno precipizi letti
finestre mute stanze senza luce.
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Immagine: Carol Rama, L’isola degli occhi (1967).