di Pietro Cardelli
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New Dawn Fades è la quinta traccia di Unknown Pleasures (1979) dei Joy Division, la canzone che chiude il lato A dell’album. Dalla sua traduzione è nata una rilettura, da questa una prosa.
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Un mutamento di velocità, una variazione di stile, un cambio di scena, senza rimpianti. Una possibilità di osservare: ammirare la distanza fino alla dispersione, quando le definizioni si offuscano e i confini costruiscono spazi meno sicuri. Ho immaginato di consustanziarmi nelle cose – un frigorifero di classe A, un pioppo lungo la statale. Era un modo di trovare un’uscita: incistarmi come un corpo estraneo ma con una volontà positiva, senza far male. Ciò che ci stringe è un senso di nausea più pacato, quotidiano, seriale del solito, una sensazione obsoleta. La tragedia è uno spazio privato, una farsa. E il mio espandermi (che poi era un immergersi) non portava che ai soliti luoghi, come se le pareti che occupavo e in cui mi identificavo fossero una rimozione dall’alone familiare, con le sue crepe sempre nei soliti angoli e la muffa ad aprirsi sotto le tegole. Era un lavoro che mi toglieva molto tempo, dimentico di molte cose: i colori per esempio o la luce, la luce dei neon nel suo diffrangersi per tutta la parete del frigorifero. Su tutti gli errori commessi mi prendo la colpa. Quando mi capitano queste giornate penso che forse ho assunto qualche sostanza non commestibile o scaduta, e che è difficile insegnare – fare il pedagogo – se poi sono necessarie tutte queste coincidenze anche solo per poter parlare. Una pistola carica non ti renderà libero, così dici. Berremo qualcosa e usciremo fuori – una voce irata, una che piange – solo per placare qualche bisogno: stare tra la gente, ostentare fiducia. I muscoli però si contraggono e le arterie o lo vene le sento esplodere, come se qualcuno pompasse sangue secondo dopo secondo con un’intensità e una rabbia non sostenibile. Rimaniamo così, a contemplare la dilatazione: non ci faremo vedere. Ci diciamo spesso: lo sforzo è troppo/è ora di finirla/la sopportazione ha un limite, e invece ci troviamo sempre nelle stesse posizioni, senza rinunce né scarti a cui aggrapparsi. Ho camminato sull’acqua come un dio di periferia, fra ripiano e ripiano, sotto la luce elettrica, corso tra le fiamme fino a non sentire più niente. Ero io: aspettavo me stesso, cercavo una causa diversa, un intendersi, l’apnea che desiste.
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Immagine: Ari Sigvaldsson, Autumn bathing romance in Iceland.