di Daniele Iozzia
*
Di fronte al rischio di anacronismo generato da un voltaggio troppo sbilanciato su una convergenza “a freddo” verso il Grande Stile, occorrerebbe interrogarsi più a fondo sui possibili ancoraggi strutturali che ne consentirebbero comunque un approdo stabile e allo stesso tempo privo di qualsiasi pertinenza ironico- ludica. Sminuzzato nelle sue componenti (che si configurano in maniera reticolare, una rete a maglie strette cooperanti secondo matrice sistemica), apparirà chiaramente il peso assunto dall’impostazione e dalla centralità del movimento sintattico. Presupposto plasmante, la sintassi ha a che fare in modo intimo col respiro del testo poetico, con la sua “biologia”. Essa sembra dispiegarsi in maniera duplice: da un lato, articolando il corpo del testo, smembrandone e assemblandone le componenti, ratifica un movimento tensivo votato all’organizzazione del materiale; dall’altro, presiede a concretare l’impulso alla scrittura, salvaguardandone l’igiene centripeta e fungendo da catalizzatore di una pronuncia organica e decisa. Pur essendo linee percettive sovrapponibili, è su questo secondo aspetto che vogliamo soffermarci. Le riflessioni e gli esiti della scrittura di ricerca contemporanea mostrano l’elaborazione di strategie che gettano luce su alcuni dei territori praticabili:
– un mimetismo autoreferenziale e a senso unico, appiattito esclusivamente sulla simulazione estesa della schizofrenia del presente, che pone l’obiettivo della rappresentazione in misura maggioritaria nella figurazione iconica dello sfacelo. Dunque una scrittura-depliant, una poesia-scontrino fitta di enumerazioni aggregative, affastellate in congeries strutturanti, inerti granulari del post demolizione, un impiego di metafore continuate e allegorie preparate al momento, finalizzate all’esplicazione dell’isteria e della friabilità di ogni possibile condizione umana e a una sua presunta resa plastica;
– una debolezza pseudo- contemplativa, stabilmente giocata sul rilievo dato agli oggetti. Ciò che si vuole perseguire è un’adesione totale alla pressione della presentatività e della nominazione del mondo, un dare sfogo a una constatazione azzimata e retinica: se ciò che ho di fronte quotidianamente è l’esito di processi di metamorfosi seriali non ancora stabilizzate che hanno annoverato e prevedono un grado massimo di sismicità semantica che porta al franare di ogni tappa precostituita, la mia attività di scrittura privilegerà l’acclimatarsi su un piano orizzontale di mera registrazione, fotogrammetria al minuto di un accadere che so essere sempre comprimibile e archiviabile. Questa postura cova un rischio latente: oltre a mostrarsi come la versione tenue e meno “euforica” della posizione precedente, insegue comunque una forma di mimesi esclusivamente analitica, anche se meno espressionistica, in cui la logica dell’elenco potrebbe arrestarsi con troppa prudenza alla soglia dell’operazione di un candido inventario o di una catalogazione bonaria. A mancare sarebbe una forma di tensione, una scossa impulsiva che sia sintomo di un atto corporeo e testimonianza di una volontà organizzativa che, seppure minima, possa riuscire a garantire un controllo etico sulla gestione dell’enunciazione;
– una poesia che riconosca il supporto attivo di un movimento riflessivo sotterraneo, non predominante ma costante e presente, una forma di scrittura che, non rifiutando a priori la mimesi ma la sua facies a circuito chiuso e fine a se stessa, si percepisca come campo di forze sfrangiate e in frizione, passibili di essere incanalate da una dominante organica in una direzione chiara e riconoscibile, che si vuole anti-centrifuga e non dispersiva. Una poesia (da non intendersi soltanto in riferimento al testo singolo, ma in un’ottica che si allarga ovviamente anche a comprendere la logica della raccolta o del percorso di ricerca) la cui intenzione primaria sia un bilanciamento moderato di istanze tonali troppo verticalizzanti o, viceversa, smaccatamente prosastiche e rasoterra. Una ricerca che, pretendendo comunque di parlare del mondo e dall’interno di esso da un’ottica allo stesso tempo prismatica e sintetica, non svaluti troppo in fretta gli elementi vivi della forma, riconoscendovi, nemmeno tanto implicitamente, un serbatoio in fermento di strumenti operativi in grado di solidarizzare con la necessità espressiva di una visione assertiva, inclusiva, composta e non chiassosa del contemporaneo.
Quest’ultima prospettiva, a cui ci sentiamo più affini, parrebbe nutrirsi di una robusta sinergia cooperativa: prolungando il legame fiduciario con una concezione vitalistica della forma, ne accentua il beneficio di una misura etica, la valenza ausiliare in vista della realizzazione della dizione. I presupposti formali, pertanto, non sarebbero semplicisticamente elementi esterni calati o integrati a un contesto tematico preesistente né soluzioni additive impiegabili per rafforzare l’entropia della spinta mimetica; fungerebbero bensì da coefficienti semantici da assimilare e interiorizzare, pratiche vive legate a un’idea di fisicità della scrittura che orientano la tenuta del discorso verso il perseguimento dei fini dell’asserzione e che tendono contemporaneamente a ispessirsi e a rendersi trasparenti. Uno snodo esemplificativo in direzione della cooperazione dinamica tra gestione della dizione e flusso formale può essere individuato, come anticipato in precedenza, nella riflessione attorno a una certa idea di sintassi e a ciò che essa comporta. Intendiamo sfruttarla in un’ottica multiplanare: sia come antidoto di non dispersione e di tessitura organica del magma presente, nucleo di partenza per una ecologia enunciativa, sia come cloison demarcativo che sostenga e riempia non solo una mite verbalizzazione dell’accadere ma la possibilità stessa di una forza o di un gesto intesi come presa di posizione tenace e come partecipazione razionalizzante e volitiva alla vita, sia come sonda analitica e graduabile del molteplice dell’esistenza. Pensiamo che quest’ultimo punto sia poi cruciale: il pensiero della complessità, delle sfaccettature moltiplicabili si salda in maniera solida all’idea di una sintassi che tenga insieme contemporaneamente un’apertura al qualsiasi e una volontà di controllo. Con Morin: «L’imperativo della complessità consiste anche nel pensare in forma organizzazionale, consiste nel capire come l’organizzazione non si risolva in pochi principi d’ordine, in poche leggi e come essa abbia invece bisogno di un pensiero complesso estremamente elaborato»1. Una sintassi, dunque, a vocazione costruttiva e dimensionale, che riesca a seguire i tracciati impervi ed espansi della nostra forma di vita, assunti frontalmente nelle loro asperità, senza comunque respingere in modo unilaterale un rapporto limpido, confidenziale e paritario con l’esserci adesso.
*
Immagine: Mel Bochner, Working Drawings (1966)
*
*
NOTE
1 E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Cerutti, Feltrinelli, Milano 1985, p. 60