formavera va in vacanza, per ripartire a settembre con un nuovo ciclo e alcune novità nel gruppo redazionale. Durante la pausa estiva pubblicheremo alcuni degli editoriali che hanno accompagnato e scandito il nostro percorso, dall’inizio fino ad oggi.
Questo editoriale è stato pubblicato la prima volta nel gennaio 2014.
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di Alessandro Perrone e Marco Villa
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Cerchiamo una poesia che sappia parlare del nostro tempo e che ne sia all’altezza. E se il regime monadico tuttora imperante basta a rendere vuota e ormai comica qualsiasi rivendicazione collettiva che passi attraverso un noi ingenuo e a-problematico (tanto vago quanto falso), un centro lirico diventa allora il filtro ineludibile fra gli eventi esterni e la poesia, fra il transitorio e l’essenziale (per citare Montale via Baudelaire).
Questa posizione, fondata non su un a priori ideologico e/o di poetica, ma sulla realtà storica di cui chiunque fa quotidianamente esperienza, resta lontana da qualsiasi supervalutazione dell’io: non ignora i mutamenti intervenuti a destabilizzare ogni pretesa di soggettività salda, ma nemmeno accoglie la rinuncia (o peggio la pregiudiziale cancellazione) ad un punto di accentramento in grado di gestire i materiali storici restituendone attraverso la propria lingua l’individuale – senz’altro limitata e provvisoria – interpretazione.
Ciò da un lato consentirà di riconoscere e marcare quel movimento che, negli ultimi decenni, ha portato la lirica ad un’ibridazione inedita per modalità e proporzioni, permettendole di trascendere non se stessa come genere, ma la sua versione più autotelica e solipsistica, omologa e complice del narcisismo di massa. Dall’altro lato, rinunciando alla dizione stereotipica del linguaggio ideologico preesistente il soggetto, e risalendo invece alla propria condizione di verità di quel linguaggio, che verrà quindi pronunciato col canto trascendendo il soggetto in una dizione davvero collettiva, viene scongiurato il rischio massimo della retorica, apologetica o indignata che sia, la cui liquidazione teorica è da molto tempo superflua ma che ancora inficia tanta parte della poesia cosiddetta civile, dimostrandone la volontaristica e pigra velleità testimoniale e di ristrutturazione del reale.
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Una simile attitudine ammetterà uno spettro di soluzioni assai ampio. Un nuovo confronto con il contingente in quanto necessario dato di partenza per l’astrazione – raggiungibile tanto per via simbolica quanto riflessiva – che ne dichiari le strutture profonde; ma anche un’apertura orizzontale in direzione di voci e linguaggi eterogenei, sempre però riorganizzati da una coscienza centripeta, da una soggettività che pur consapevole delle proprie scissioni, della propria contraddittorietà intrinseca, si assuma la responsabilità di stabilire nuove costellazioni di senso, da sottoporre e non imporre al lettore.
L’idea di una poesia che svolga la propria funzione critica ed euristica limitandosi a scandagliare gli oggetti vuoti di un ambiente esterno catastrofico, per far esplodere contraddizioni di cui già siamo consapevoli, ci appare troppo limitante, oltre che poco coraggiosa. La ricettività necessaria nei confronti del dato esteriore deve coniugarsi con la costruzione di un mondo poetico la cui stessa forma rappresenti sì la negazione della realtà storico-sociale in atto, ma che non esista esclusivamente in funzione del negato. Affermare un valore positivo di verità, quindi, sul quale non si possono nutrire illusioni di progettualità futura pena lo scadimento in un ruolo che al poeta è stato revocato da più di un secolo. Questa affermazione che cambia la percezione della realtà e del desiderabile è una previsione che crea volontà e garantisce, anche nella compromissione con la relatività e precarietà del reale, l’autonomia demiurgica del testo poetico.
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Immagine: Sebastiao Salgado, Workers