a cura di Luigi Fasciana
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Da una lettera del 1945 veniamo a sapere che Clarice Lispector, ancora molto giovane, fece leggere i suoi versi a Manuel Bandeira, già allora poeta tra i più importanti del modernismo brasiliano. Le poesie però non vennero accolte con grande entusiasmo e la Lispector se ne sarebbe sbarazzata.
I due testi che seguono nascono entrambi come “cronache”, definizione curiosa dentro la quale si tiene a bada quel che la Lispector pubblicava ogni sabato, tra il 1967 e il 1973, sul Jornal do Brasil. Il filo conduttore esplicito che unisce le due cronache, la seconda proposta qui nella versione pubblicata successivamente fra i racconti, è il silenzio. Silenzio, quello della Lispector, che non è mai stanca rinuncia alla comunicazione ma spazio fertile, punto di tensione. È l’incontro febbrile con se stessi e con gli altri. L’occasione per lasciare alle spalle ciò che si è stati e mettersi in cammino verso l’ignoto.
Non so fino a che punto questi testi possano essere accostati al territorio incerto della poesia; quel che possiamo comprendere senza problemi, però, sono le parole che si affrettava a scrivere Bandeira: «Ancora oggi conservo il rimorso per quanto ho detto sui versi che mi hai mostrato. Hai interpretato male le mie parole. (…) scrivi versi, Clarice, e ricordati di me».
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Silenzio
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Così vasto il silenzio di una notte in montagna. Così disabitato. Invano ci si dà da fare per ignorarlo, pensando in fretta si cerca di nasconderlo. Oppure si inventa un programma, fragile appiglio ci guiderebbe fino al giorno che si rivela improbabile, domani. Questa pace ci spia, come oltrepassarla. È così grande il silenzio, che la disperazione si fa timida. Così alta la montagna, la disperazione si fa timida. Le orecchie si affinano, la testa si inclina, il corpo intero ascolta: nessun rumore. Non c’è neanche un gallo. In che modo essere alla portata di questa profonda meditazione del silenzio. Questo silenzio che non ha memoria di parole. Se sei la morte, come raggiungerti.
È un silenzio che non dorme: è insonne. Immobile ma insonne; e senza fantasmi. È terribile – non ci sono fantasmi. Lo si vorrebbe inutilmente popolare con l’eventualità di una porta che si apra cigolando, una tenda che si apre, che dice qualcosa. È vuoto e senza promesse. Se almeno ci fosse vento. Vento è furia, furia è vita. O la neve. Che è muta ma lascia tracce – tutto diventa bianco, i bambini ridono; il passo crepita e affonda. Questa sequenza è vita. Il silenzio invece non lascia indizi. Non si può parlare di silenzio come si parla di neve. A nessuno si può dire, come si sarebbe detto della neve: hai sentito il silenzio questa notte? Chi l’ha sentito ammutolisce.
La notte scende con le piccole allegrie di chi accende una lampada, la stanchezza a giustificare così la giornata. I bambini di Berna si addormentano, le ultime porte si chiudono. La via risplende nelle pietre per terra, splende già vuota. Le luci più lontane infine si spengono.
Questo silenzio iniziale però non è ancora il silenzio. Che si aspetti: le foglie troveranno l’ordine giusto sugli alberi, qualche passo tardivo è atteso per le scale.
Ma è il momento in cui dal corpo affaticato si solleva attento lo spirito, e dalla terra la luna alta. E allora il silenzio appare.
Il cuore che lo riconosce batte.
Si può pensare in fretta al giorno che è passato. O agli amici passati e per sempre perduti. Ma è inutile sottrarsi, è il silenzio. Anche l’amicizia perduta, la sofferenza peggiore, è soltanto fuga. Se all’inizio il silenzio sembra custodire una risposta – a tal punto ci struggiamo perché ci venga chiesto qualcosa – presto si scopre che da te, lui, non esige nulla, forse soltanto il tuo silenzio. Quante ore perdute al buio pensando che il silenzio ti giudichi – allo stesso modo aspettiamo invano il giudizio di Dio. Sorgono le spiegazioni, spiegazioni forgiate tragicamente, scuse di umiltà persino indegna. Così dolce è per l’uomo essere l’umiliato, mostrarsi indegno dalla nascita e ottenere il perdono.
Fino a quando si scopre: non è la tua vergogna che vuole. Lui è il silenzio.
Si può anche tentare di ingannarlo. Casualmente si lascia cadere un libro sul pavimento. Ma – orrore – il libro cade dentro al silenzio e si perde nella sua voragine immobile e muta. E se impazzito un uccello cantasse? Speranza inutile. Il canto attraverserebbe il silenzio come un flauto sottile.
A quel punto, se si ha il coraggio, non si lotta più. Si entra dentro, si va con lui; noi, ultimi fantasmi di una notte a Berna. Si entri pure. Non si aspetti l’oscurità che gli resta davanti, ma lui soltanto. Ci ritroveremo su una nave così straordinariamente grande che non avremo l’impressione di starci, e prenderà così tanto il largo che non ci accorgeremo di navigare. Più di questo un uomo non può. Vivere sull’orlo delle stelle e della morte è vibrazione che le vene non riescono a sopportare. E non c’è figlio di un pianeta o di una donna che abbia la pietà di intromettersi. Il cuore dovrà mostrarsi al nulla da solo e da solo battere forte al buio. Non si sente che il proprio cuore nelle tempie. Quando si presenta interamente nudo non è per comunicare, è sottomissione. Non siamo stati creati che per un piccolo silenzio.
Se il coraggio non c’è, meglio non entrare. Si aspetti davanti al silenzio ciò che resta del buio, i piedi appena bagnati dalla spuma di qualcosa che dentro di noi si infrange. Si aspetti. L’uno impenetrabile all’altro, due cose che non si vedono nell’oscurità. Si aspetti. Non la fine del silenzio, ma l’arrivo provvidenziale di un terzo elemento, l’aurora.
Da quel momento però non si dimentica più. Non serve fuggire verso un’altra città. All’improvviso, quando meno te l’aspetti, lo riconosci. Dentro al rombo delle automobili attraversando la strada. Nell’esplosione allucinata di due risate. Dopo che una parola è stata detta. A volte proprio dentro al cuore di una parola. Ottenebra le tempie, stravolge lo sguardo – eccolo. E questa volta è fantasma.
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Silêncio
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É tão vasto o silêncio da noite na montanha. É tão despovoado. Tenta-se em vão trabalhar para não ouvi-lo, pensar depressa para disfarçá-lo. Ou inventar um programa, frágil ponto que mal nos liga ao subitamente improvável dia de amanhã. Como ultrapassar essa paz que nos espreita. Silêncio tão grande que o desespero tem pudor. Montanhas tão altas que o desespero tem pudor. Os ouvidos se afiam, a cabeça se inclina, o corpo todo escuta: nenhum rumor. Nenhum galo. Como estar ao alcance dessa profunda meditação do silêncio. Desse silêncio sem lembranças de palavras. Se és morte, como te alcançar.
É um silêncio que não dorme: é insone: imóvel mas insone; e sem fantasmas. É terrível – sem nenhum fantasma. Inútil querer povoá-lo com a possibilidade de uma porta que se abra rangendo, de uma cortina que se abra e diga alguma coisa. Ele é vazio e sem promessa. Se ao menos houvesse o vento. Vento é ira, ira é a vida. Ou neve. Que é muda mas deixa rastro – tudo embranquece, as crianças riem, os passos rangem e marcam. Há uma continuidade que é a vida. Mas este silêncio não deixa provas. Não se pode falar do silêncio como se fala da neve. Não se pode dizer a ninguém como se diria da neve: sentiu o silêncio desta noite? Quem ouviu não diz.
A noite desce com suas pequenas alegrias de quem acende lâmpadas com o cansaço que tanto justifica o dia. As crianças de Berna adormecem, fecham-se as últimas portas. As ruas brilham nas pedras do chão e brilham já vazias. E afinal apagam-se as luzes as mais distantes.
Mas este primeiro silêncio ainda não é o silêncio. Que se espere, pois as folhas das árvores ainda se ajeitarão melhor, algum passo tardio talvez se ouça com esperança pelas escadas.
Mas há um momento em que do corpo descansado se ergue o espírito atento, e da terra a lua alta. Então ele, o silêncio, aparece.
O coração bate ao reconhecê-lo.
Pode-se depressa pensar no dia que passou. Ou nos amigos que passaram e para sempre se perderam. Mas é inútil esquivar-se: há o silêncio. Mesmo o sofrimento pior, o da amizade perdida, é apenas fuga. Pois se no começo o silêncio parece aguardar uma resposta – como ardemos por ser chamados a responder – cedo se descobre que de ti ele nada exige, talvez apenas o teu silêncio. Quantas horas se perdem na escuridão supondo que o silêncio te julga – como esperamos em vão por ser julgados pelo Deus. Surgem as justificações, trágicas justificações forjadas, humildes desculpas até a indignidade. Tão suave é para o ser humano enfim mostrar sua indignidade e ser perdoado com a justificativa de que se é um ser humano humilhado de nascença.
Até que se descobre – nem a sua indignidade ele quer. Ele é o silêncio.
Pode-se tentar enganá-lo também. Deixa-se como por acaso o livro de cabeceira cair no chão. Mas, horror – o livro cai dentro do silêncio e se perde na muda e parada voragem deste. E se um pássaro enlouquecido cantasse? Esperança inútil. O canto apenas atravessaria como uma leve flauta o silêncio.
Então, se há coragem, não se luta mais. Entra-se nele, vai-se com ele, nós os únicos fantasmas de uma noite em Berna. Que se entre. Que não se espere o resto da escuridão diante dele, só ele próprio. Será como se estivéssemos num navio tão descomunalmente enorme que ignorássemos estar num navio. E este singrasse tão largamente que ignorássemos estar indo. Mais do que isso um homem não pode. Viver na orla da morte e das estrelas é vibração mais tensa do que as veias podem suportar. Não há sequer um filho de astro e de mulher como intermediário piedoso. O coração tem que se apresentar diante do nada sozinho e sozinho bater alto nas trevas. Só se sente nos ouvidos o próprio coração. Quando este se apresenta todo nu, nem é comunicação, é submissão. Pois nós não fomos feitos senão para o pequeno silêncio.
Se não há coragem, que não se entre. Que se espere o resto da escuridão diante do silêncio, só os pés molhados pela espuma de algo que se espraia de dentro de nós. Que se espere. Um insolúvel pelo outro. Um ao lado do outro, duas coisas que não se vêem na escuridão. Que se espere. Não o fim do silêncio mas o auxílio bendito de um terceiro elemento, a luz da aurora.
Depois nunca mais se esquece. Inútil até fugir para outra cidade. Pois quando menos se espera pode-se reconhecê-lo – de repente. Ao atravessar a rua no meio das buzinas dos carros. Entre uma gargalhada fantasmagórica e outra. Depois de uma palavra dita. Às vezes no próprio coração da palavra. Os ouvidos se assombram, o olhar se esgazeia – ei-lo. E dessa vez ele é fantasma.
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Una esperienza
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Per l’animale e per l’uomo forse è tra le esperienze più importanti. Chiamare in soccorso, e per pura bontà e comprensione dell’altro, il soccorso è concesso. Vale la pena forse essere nati perché un giorno senza parole si implori e senza parole si riceva. Ho già chiesto soccorso. Non mi è stato negato.
Mi sentii allora pericolosa come una tigre sulla cui carne affonda una freccia, che si aggira tra persone impaurite, cerca chi la sottragga al dolore. Una di queste sentì a quel punto che una tigre ferita è pericolosa quanto può esserlo un bambino. Si avvicinò alla bestia senza paura di toccarla e la freccia infilzata venne estratta con cura.
E la tigre? No, per certe cose non ci sono animali né persone che possano ringraziare. Io, la tigre, le girai più volte attorno lentamente, esitai, passata la lingua su una zampa, poi – quel che conta non è la parola – mi allontanai in silenzio.
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Uma experiência
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Talvez seja uma das experiências humanas e animais mais importantes. A de pedir socorro e, por pura bondade e compreensão do outro, o socorro ser dado. Talvez valha a pena ter nascido para que um dia mudamente se implore e mudamente se receba. Eu já pedi socorro. E não me foi negado.
Senti-me então como se eu fosse um tigre perigoso com uma flecha cravada na carne, e que estivesse rondando devagar as pessoas medrosas para descobrir quem lhe tiraria a dor. E então uma pessoa tivesse sentido que um tigre ferido é apenas tão perigoso como uma criança. E aproximando-se da fera, sem medo de tocá-la, tivesse arrancado com cuidado a flecha fincada.
E o tigre? Não, certas coisas nem pessoas nem animais podem agradecer. Então eu, o tigre, dei umas voltas vagarosas em frente à pessoa, hesitei, lambi uma das patas e depois, como não é a palavra o que tem importância, afastei-me silenciosamente.
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Silenzio fa parte di C. Lispector, Onde estivestes esta noite (1974), in Id., Contos, Lisboa, Relógio D’Água, 2006, pp. 264-266.
Uma experiência è stato pubblicato il 22 giugno 1968, C. Lispector, A descoberta do Mundo – Crónicas (1984), Lisboa, Relógio D’Água, 2013, pp. 153-154.
Le informazioni sul carteggio tra Bandeira e Lispector si trovano in Nádia Battella Gotlib, Clarice – Uma vida que se conta, Ática, São Paulo, 1995, p. 205.
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Immagine: Clarice Lispector