Quattro testi da Fermata del tempo, Marcos y Marcos, 2015. Ringraziamo l’autore per la concessione.
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(sottrazione)
*
1.
Me la immagino uguale la mia faccia,
a fissare dal vetro
il mondo che fa paura
e si avvicina, e io fermo per timore
che lasciare la mia casa
mi facesse scordare
chi mi voleva bene.
2.
Gli occhi piangono, come sempre,
il volto è sempre quello mentre
il corpo se n’è andato
per crescere da solo.
Qualcun altro guarderà
dalla strada, io non più,
perché il più di me si è fatto uomo.
3.
Crescere è peccato.
La mia faccia imbambolata
è rimasta a fare il palo
ai gatti di famiglia, ai piatti
logorati dal risparmio, ai pochi
soldi del pranzo, ai chili di troppo
spesi male nell’affare della vita.
4.
Il ricordo mi distrugge eppure
ascoltare le campane
altrove mi riporta
alle calle della vecchia chiesa,
a mio zio che le metteva sull’altare
senza lasciarmi la mano.
5.
Ma le mani vanno via come
mia madre
che ho cercato di amare,
che sa quant’è duro avere sempre
bisogno di altri e respirare
la stessa aria di chi è indifferente.
6.
Il boschetto dei pini, il contadino
di fonte, un fratello
all’ospedale, questo guarda
la mia faccia mentre il cuore si ammala
per tutto quello che è passato
senza cambiare.
7.
Prego di tornare
al sonno senza pace dei bambini
quando anch’io ho conosciuto
il paradiso di ogni solitudine
e sogno di essere ancora amato
come quando
nessuno mi faceva del male.
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Piano nobile
*
Sono esistite oasi lapalissiane
nel quartiere intatto e inanellato
a tutti i cantieri che il nero e il grigio
delle strade sanno alzare in un giorno.
Per esempio un gabbiotto di campagna
dove usciva Michele il contadino
con la borsa della spesa che riempiva
a mia nonna. O un traliccio su due pale
eoliche che guardavano su, sempre più su,
fino al sentiero di capre che portava
alla casa diseredata. Un pianto ingenuo
viene dalle ispide squame di una cassapanca
piena di foto e di odori, meteora del tempo
andato a male, poi recuperato nella fede
e nel ricordo, non del tutto marcito
tra paglia e giornali – con dentro intero
l’armamentario di un secolo, l’onore
di una famiglia, una schiera di piatti
di porcellana finissima sopravvissuta
a guerre vere o presunte, opere di bene,
camicie di seta, dolori da atleta.
*
L’eredità
*
La parte ingenua di me che è andata a dormire
sotto i vostri occhi e capelli rimarrà per sempre
intatta, nessuno le toccherà i garretti, sia che fosse
una iena, un’aquila, una civetta che rumina
testate nucleari o qualche altro animale dalla pelle
di topo e dal cuore da eroe. Ma dalla vostra mente,
i vostri figli sono divisi. Ilario ama il padre,
Elvio la madre, e dentro di loro voi lottate
con rumore di ingorghi assassini, e con ceselli
d’oro mettete paletti e confini, li disunite
dall’interno, li fate piangere e pendere
dalla perdita di voi o da un vostro sorriso.
Allegrezza castrata è la madre di Elvio.
Un molare penzolante è il padre di Ilario. Sopra
le teste di questa famiglia di quattro
guerriglieri fatti a strati si muovono
indifferentemente cieli e contrade, quotidiani
con notizie di governi e armi a canne mozze,
per questa guerra il cui premio è dolore,
tristezza, rimpianto, spargimento di pezzi
d’identità dentro badili ardenti, in una bella
campagna d’estate come quella
che sovrasta e incenerisce casa nostra soltanto.
*
Preghiera del mezzogiorno
Le cascate del Vesuvio, il senso
del vuoto sparso accanto alle cose
diramate ogni giorno. Chissà cosa
pensa il nevischio che non teme di farsi acqua.
Chissà cosa sente la neve vera, che fa i torrenti
e allinea le auto nei tornanti. E i fiori,
che poco a poco escono da se stessi, in queste
stesso valli di vulcano in un giorno esatto,
cauterizzato di fine inverno. Dove sarò io
che scrivo da un villino di Cave, sembra
in cima al mondo, a metà tra due paesetti, nel mezzo
di migliaia di passi, massi, certezze del mezzodì.
Sarebbe magnifico evaporare,
essere fiore, strada, frontiera,
ascoltare quello che dicono i risorti
con la loro voce di gloria, col permesso
del paradiso in persona, sarebbe intramontabile,
la gioia di lasciare il corpo, assestare la mente,
annientarla nella luce oltremontana, dire credo
che qualcosa cambierà e sarà per sempre,
e non avverrà la vittoria-fuliggine del niente,
per i secoli a venire essere vulcano e stoviglia,
semaforo e allodola, canzone e ramarro, utile come tutte
le creature di tutti i mondi, tutti i momenti. Amen.
Immagine: Sarah Volpini, Stazione di Milano Centrale, 2015
L’ha ribloggato su sonia lambertini.
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Stelvio scava con sobrietà nel tempo e nei ricordi , nel muro e nel fango , nel quotidiano e nell’illusione , stilando , con arguta cultura , versi di ottima fattura. La memoria è il turbine che riesce a riproporre vertigini e sospensioni , in un crescendo di luminosità carezzevoli.
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