di Jacopo Rasmi
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Come possiamo accogliere La scolta? Come può essere una esperienza decisiva questo libretto, questa “scolticina” – così (mi) scrive – che nella sua trasparenza quasi naïve, si ispessisce e si aggroviglia alla ri-lettura, diviene mole? Nell’operazione poetica di Gian Maria Annovi si sfiora l’intollerabile, forse, si gioca con l’illecito, forse. Queste sue maschere (stereotipe), questa messa-in-scena, questo fare voci d’altri… Molti fantasmi d’opportunità d’etica e di gusto attraversano i pensieri del deontologo letterario. E quasi il giudizio già sfugge, tra i denti, e inchioda alla colpa (e ancora si esita tra frivolezza o pretenziosità).
Ma questa Scolta pare francamente ingiudicabile, ha una specie di innocenza impeccabile. Perché, per essere giudicati, per peccare, bisogna pur avere una certa sostanza, una certa identità che l’opera in questione non sembra pretendere: sembra piuttosto riposare su un letto di beata e incosciente reticenza. Fosse canto, avesse dichiarato domicilio nel paese serissimo e lirico del canto, ecco già che la giudicheremmo: di falsetto ingenuo, d’indelicatezza, di multimedialità posticcia. Certo, giudicheremmo e sarebbe in fondo giudizio di profanazione.
Ma non siamo qui al canto, siamo vicini probabilmente. Prossimi, simili (παρα, simile) . Gli siamo nei pressi all’ᾠδή (canto). E questo essere vicini che suggerisce sempre e non identifica mai, che non è prossimità senza essere altrove, che si mantiene in uno spazio sfocato di indistinzione potrebbe essere lo statuto più vero della Scolta. E, se così fosse, questa poesia si catalogherebbe nel repertorio della parodia (παρῳδία) come ci è stata consegnata da Giorgio Agamben (con riferimento alla Morante, in prima battuta, e a Pasolini, in seconda). Ci spiegheremmo così come possa funzionare (eccezionalmente, malgrado molte cose, malgrado tutto) questo poemetto in forma teatrale.
È una parola che vive nella somiglianza, nell’accanto di un allusione: distante da nulla eppure inconciliabile, un’attesa eponima che indica. Funziona – se siamo d’accordo che funzioni – come un operatore di disidentificazione che sgombra spazi per possibili identificazioni ulteriori, come un dispositivo di sovrapposizioni che non salda nulla, come una funzione profanante che disinnesca sempre il dissacrante. In questo luogo poetico il teatro greco, il cinema di Bergman, la lingua di Dante possono prestarsi alla rivelazione d’una certa, negletta, pie(a)ga socio-politica del care contemporaneo nella Penisola. Didascalie di sceneggiatura si giustappongono ad un parlare torto e smozzicato di migrante assieme al freddo italiano colto di una morente compatriota dal passato professorale. Le voci ed i volti si diffrangono in un regime d’anonimato impersonale (certo, la scolta e la padrona, e le vicine anche, e poi quante scolte in realtà? E quante padrone dietro quei cancelletti numerati?) e rischiano di riassumersi, vertiginosamente, nell’identico: e così volto e voce dell’autore si spogliano di ogni evidenza lirico-narcisistica ma si propagano in una sorta d’ubiquità sottile.
In fin dei conti questo παρα indecidibile è anche soprattutto un ponte lanciato tra tragedia (poesia da patirsi, indubbiamente) e commedia (poesia attraversata da spasmi esilaranti). Dunque l’indecisione sfuggente di un tono tragi-comico ma, ancora di più, un’indecisione fondamentale tra poetico e prosastico, come nel tardo e manieristico Pasolini. Laddove Annovi sembra puntare verso una netta uscita dal canto, per una parola referenziale ovvero tagliente e storicamente (banalmente?) politica, ecco che si organizza la sorpresa di micro-resistenze liriche e composti ritmico-melodici. E così La scolta diviene leggibile e decisiva come un’ipotesi (benvenuta, sacrosanta) di poesia che articoli praticamente una dimostrazione su cosa possa. Cosa può la poesia? Pare possa molto in questa infedele devozione al canto, in questa esatta variabilità. Non può il canto (solo) probabilmente, né canto oggettivo né soggettivo. In quanto canto non (mi) pare possa molta storia. Ma sistematasi nei paraggi del canto (mi) pare che guadagni nuova aderenza, che dal fuori rinnovi una certa cittadinanza interna. In parodia può lavorare la lingua, scatenare dialettiche e soggettivazioni, coagulare esperienze culturali, esercitare un infinito ricollocamento autoriale, trancher l’attualità politica ed i suoi veli ideologici, far brillare il commovente enigma dell’esistenza… Può, tout simplement.
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Immagine: Frank Stella, Seward Park (1958)