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Un’ingiunzione al cambiamento può ben provenire
da M. che, mentre revoca la comodità a una sedia,
lasciandolo lì seduto a graffiare l’aria col pensiero,
come un mezzo-adolescente che cicatrizza piagnistei,
gli ricorda che il dolore cristiano e immondo del parto
valeva soltanto per confezionargli un benessere duraturo,
congelarlo negli anni custodendolo con gelosia feroce
e donarglielo come il più sano e il più potente degli scudi.
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Uscire da Roma è un’operazione insolita. Crea effetti diversi, contrastanti, è l’insieme delle istantanee di una periferia gigantesca che ti viene incontro come un taglio aprendo finestre di un grigiore precario, lastricate di disagi collettivi che rendono gli occhi degli uomini più credibili, e mitigate dall’esplosione interessante delle storie degli individui che si colgono come parti di una causa non chiarita, a tratti prescritta. Uscire da Roma è uscire da una malattia. A definire il decorso non è tanto l’idea accudita di un futuro auspicabilmente felice e sano, quanto piuttosto la multiformità delle tentazioni di ricaduta. Nello spazio di tutti tra la Tiburtina e il Raccordo, nei cartelli di preselezione delle corsie, ti sorprendono la puntualità di una ramificazione ancora fruibile, uno svincolo di inversione verso uno dei tanti centri, un cavalcavia malridotto i cui giunti di ferro parlano di uno strano pentimento che altera la pressione dentro i corpi senza averne diritto, mentre un puro rapporto fisico emulsiona i caseggiati nel vortice dentro lo specchietto dell’autobus, per lasciare il posto ai colori timidi dell’erba.
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I.
Acqua tra gli archi, oggi.
È una gigantografia allungata del “capitare”
quella che precipita giù, da Newton in poi
senza occhi nuovi,
senza pretesi fondi di menzogna,
con consapevolezza mingherlina.
« Non si ripeterà in poco tempo,
la logica dei mesi e del loro distanziamento
sarà prevalente e tu potrai riposare,
spegnere quel maledetto cellulare
e fissare il muro bianco della tua camera
nell’illusione che da fuori qualcuno venga a origliare
anche solo per dimensionare a mente i tuoi gesti in disparte. »
Il corridoio si dilata. Con l’interruttore
si sta giocando un po’ troppo. Salterà la luce,
prima o poi.
«Smettila di aggiustare questo cazzo di armadio
siediti stai fermo (renditi compresente).»
Uscirà una bara da lì, massa netta, e sarà uno scompenso di frequenze
tra le ringhiere da poco dipinte, il liquido
costante di una rigenerazione che verrà molto più tardi,
a passi lentissimi.
Sarà il più grande input alla modificazione.
In fondo sarà un ritardare, un partire dopo, un anticipo concettuale sul ritardo.
In fondo si godrà di un diverso
fuso orario della parola e dell’azione.
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II.
Il tepore del mio fuoco virtuale
ha reso inoffensive tutte le cartacce per strada.
Il passaggio di automobili, il peso
che a intervalli più o meno regolari assicurano all’asfalto
ha fatto il resto. Ne scorro la tipologia
mentre l’istanza ecologica mi si confina compressa
all’altezza della regione occipitale.
La carrozzeria, alle sue fasi finali, è adibita al trasporto di persone. La necessità coperta dietro il congiungimento di due punti, di due zone, di due città, è la funzione che presiede allo spostamento. Questa forza riesce a unire la volontà di girare le chiavi e accendere il quadro fino al bisogno di tirare il freno a mano. La distanza è colmata. Le vetture sono dimensionate per questo, per reggere un peso, per organizzare la volontà in sistemi orientati. Da costruzioni, lo sanno.
«Esco a prendere due cose, torno tra poco,
tu però promettimi di fare altro,
Un Altro che regga i crismi di una serenità ri-percepita.
(Fingi che il vedere, il legarsi a questa piattaforma iper-salda
tramite la pulizia di sguardi gestibili o esplosi, sia sempre stato dopo di noi,
oltre il mito degli abbracci,
dopo la fissità delle persone,
oltre il rincoglionimento da corpi)»
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Se c’è qualcosa che devo aspettarmi
da ciò che faccio o prometto di assicurare
agli altri, magari uno schermo di attese
tra me e loro,
anche quando io-mente
ha prefigurato altro per sé,
anche quando quegli altri sono gli unici
per cui vale la pena di inghiottire
ogni silenzio autoimposto,
allora non mi sono ancora preso sul serio,
allora gioco ancora a essere un mio surrogato.
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Immagine: Alex S. MacLean, Dinghies Clustered Around Dock, Duxbury, MA, 1993