Larry Levis, La proprietà della notte

Max Klinger

Larry Levis è nato a Fresno, California, nel 1946. Figlio di un viticoltore, è cresciuto coltivando un vigneto a Selma, California, un paesino agricolo della San Joaquin Valley. La sua prima raccolta di poesie, Wrecking Crew, ha vinto lo United States Award della International Poetry Forum nel 1972, premio che gli fa ottenere una pubblicazione presso la University of Pittsburgh Press. La sua seconda raccolta, The Afterlife, ha vinto il Lamont Award della American Academy of Poets nel 1976. Nel 1981, The Dollmaker’s Ghost ha vinto la Open Competition della National Poetry Series. Tra gli altri riconoscimenti ci sono tre fellowships per la poesia dalla National Endowment for the Arts, una Fulbright Fellowship, e una Guggenheim Fellowship nel 1982. È morto per un infarto a Richmond, Virginia, nel 1996.
Di Levis, poeta ancora poco conosciuto negli Stati Uniti, ma molto amato dal suo seguito, pubblichiamo due testi da The Dollmaker’s Ghost e uno, The Double, da The Afterlife, con le traduzioni di Todd Portnowitz.

*

*

Ventaglio perso, Hotel Californian, Fresno, 1923

*

A Fresno è il 1923 e tuo padre timido
Ha raccolto un ventaglio cinese abbandonato
Fra i corpetti calpestati sulla pista da ballo.
Nel disegno, un uomo con dei rotoli
Attraversa un ponte di corda
Sopra un’acqua via via più bianca
Se guardi bene puoi vedere le pennellate che dovevano
Essere trote.
Puoi vedere che in generale la scena
È secoli più vecchia
Dell’albergo, oppure di Fresno
Nella luce dura della mattina,
E la ragazza
Che usava il ventaglio per coprirsi la bocca
O il seno, sotto lo splendore fresco
Dei lampadari,
È sparita su un treno che scivola lungo un binario
Bucherellato di ruggine.
Tutto questo la porta a sud
E ora che tuo padre apre il ventaglio
Puoi vedere il tremolare del ponte di corda
E le rughe di concentrazione
Che passano per la faccia dello studioso magro
Che ogni anno fa da solo lo stesso viaggio
Ai valichi alti,
Che dorme sul suolo ghiacciato e ascolta la neve
Che gli si scioglie intorno mentre lui si sforza
Di non esserne coinvolto, di non essere
Svegliato da una primavera mai intesa
A coinvolgerlo…
E benché senta sopra di sé il chiasso delle oche
Come se un ragazzo correndo tenesse
Fermo un ramoscello contro lo steccato
Di una casa in vendita;
E benché abbia visto gli aquiloni dei figli
Che scalano l’aria
Con degli animali goffi, draghi e buoi
Dipinti sopra in ogni dettaglio, non gli importa
Se gli aquiloni continuano a irrigidirsi
Ogni anno contro il cielo, contro il sole.
Quando pone
L’unico buon orecchio alla terra e si pensa
La fine di qualcosa discusso tutta una sera,
Pensa il proprio teschio come un tamburo
Con la membrana spaccata
Abbandonato sotto la pioggia,
Lavato continuamente
Ma che non sarà raccolto,
Neanche come qualcuno che raccoglie
Un ventaglio, per curiosità,
Lo fa girare piano piano
E ora dolcemente lo chiude.
E benché i lampadari siano coperti
Da mosche stamattina,
I semi nuovi sfumano sottoterra
La neve si scioglie
Si alza la nebbia dal fiume in disgelo
E la ragazza si sveglia nella cuccetta –
La faccia che culla un vago cipiglio,
Come se fosse appena diventata
Troppo grande per il ballo
E si fosse fatta seria, come il cielo.

 

 

***

*

La proprietà della notte

*

1.

Dopo cinque anni
Mi trovo in cucina nella casa dei miei
Un’altra volta, ad ascoltare il frigo moribondo
Che persiste nella sua musica
E a guardare un insetto che muore sul tavolo,
Facendo dei giri.
La faccia riflessa nella finestra di notte
È più pallida, più spenta, persino d’estate.
E ogni anno
Il sonno mi dispiace di più
Come mi dispiacciono le ore passate
Dentro qualcosa di tanto nero
Quanto il mio teschio . . .
Io guardo
Questa tignola del pesco battere le ali.
Ora si ferma.

2.

Una volta,
Per festeggiare un anno buono per il moscato,
I miei andarono in vacanza a Pismo Beach,
Serrata e fredda in bassa stagione.
Quando guardo di notte il rompersi delle onde
Potrebbe essere una ragazza in uno slip bianco e nero
Potrebbe essere nessuna cosa.
Ma non credo più che sia qui
Che finisce l’America.   Io so
Che continua come petrolio, o tristezza, o una piccola
Isola con delle palme
Che decorano le orme dell’asfalto
Cotto dal sole e rovinato
Della sua pista d’atterraggio.
Li nel mezzo dorme un grande serpente
E non c’è bisogno di pensare alla guerra
O all’isolamento di un padre qualunque,
Solo su un gommone nel Pacifico,
Di notte, o a quanto profonda può essere l’acqua
Là sotto di lui . . .
Non quando posso pensare allo sguardo distante
Che si sarebbe dovuto aprire
Sulle facce dei miei genitori mentre
Mi concepivano qui
E ciascuno si ritirò, solo,
Mentre scintillavano le onde e si ritiravano.

3.

Stasera i miei pensieri
Costruiscono di continuo ponti bianchi
Dentro il crepuscolo, e ora la piccola coppia
Nella distanza
Nella foto che ho di loro in quel posto,
Questa donna incinta dopo la guerra
E quest’uomo che fischia con un cane alle calcagna
E che pensa a tutto questo come al suo paese,
Li attraversa senza
Voltarsi, senza salutare.
Di già, nei frutteti dietro di loro
Gli alveari solitari sono cose;
Hanno la dignità delle cose,
Un’apparenza grigia e precisa,
Mentre le vespe nuove
sciamano fuori astiose
E gli alberi offrono boccioli freddi
E, nella distanza, il cielo
Non fa caso al suo unico uccello
Che ormai è soltanto una vaga pennellata
Su una tela in cui tutto è smorzato e
Reale.    Come reale è il ridere
Quando finisce, d’improvviso, fra due sconosciuti,
E vai a passo rapido via da loro, dentro la notte.

*

 

***

*

Il doppio

*

Qua fuori posso dire ogni cosa.
Posso dire, per esempio, che una ragazza
che sparisce questa sera
dormirà o guarderà fuori
fissamente, mentre il treno la porta
dentro la sua maturità di polvere
e raccordi.

Ricordo che guardavo vespe
nelle sere calde
volare pesanti sopra i lampadari
negli ingressi di alberghi.
Pure quelli li hanno smontati.
E i vecchi ubriaconi
che sembravano non fare caso a niente,
che sembravano cercare il resto
nelle tasche, mentre fissavano
la ragazza nello spot della Pepsi,
e la ragazza che posò per lo spot,
ormai dovranno essere tutti morti.

Già capisco che questa
non è una poesia da mostrare a te,
questa poesia d’amore. È così
piatta e trascurabile,
come l’uomo che fuma una sigaretta
dietro l’altra, che scopre alla fine
di non essere più in attesa di nessuno
e che va al cinema
da solo il sabato, e che sorride,
e gli piace.
Questa poesia così simile all’ora
in cui i semafori passano
al giallo e lampeggiano,
e il professore tranquillo
brucia un altro libro
e la divorziata annaffia la sua pianta
perennemente in punto di morte.
Questa poesia così simile a me
che potrebbe essere il mio doppio.

Sono rimasto a lungo
nella sua ombra, come rimasi
nell’ombra del coinquilino morto
che ho dovuto tirar giù dal soffitto
durante le vacanze di Pasqua
quand’ero giovane.

Quella sera
misi in folle la macchina
e spensi il motore
e i fari per scivolare giù
e sentire il vento che strappava
il metallo morto.
Dovevo capire cosa si provava
e, sotto la luna,
sempre più veloce, volevo scivolare
fuori dal mio corpo
e farla finita con lui.

Un uomo può smettere col fumo
e col cinema e vivere tanti anni,
sentire il vento che ticchetta di tetto in tetto
senza mai staccare gli occhi
dalla sua unica pagina, o dalla piccola
vita che lì sopra incide e incide,
e quando tutti intorno a lui sono morti
può spostare in casa il pianoforte a coda
e sedersi davanti, e infine suonare,
sicuro che nessuno lo sentirà
benché suoni più forte che può,
al punto che quando verranno i morti
a togliergli le mani dai tasti
saranno invisibili, come l’aria
e la musica non lo sono.

*

 

Immagine: Max Klinger, Un guanto (Azione), 1881

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