di Marco Villa
Percorrendo Somiglianze si ha la sensazione di essere come strattonati da due spinte fra loro opposte, le stesse che muovono di continuo le figure umane presenti nelle varie poesie. Da una parte un pressante e faticoso invito a procedere, ad agire, a compiere un «gesto»[1]; dall’altra un dolce risucchio verso il ritorno a un’origine, il sonno, l’annullamento di sé.
Il primo movimento ha un suo spazio d’elezione, quello urbano (fatto di interni ma soprattutto di esterni), e un tempo privilegiato: quello dell’adolescenza o, per essere più precisi, del decisivo confine che separa adolescenza ed età adulta. Si ha quindi a che fare con un avanzamento, un progresso collocato innanzitutto sulla linea cronologica di ogni esistenza ma che richiede a chi lo compie uno scatto individuale, un atteggiamento volontaristico necessario a compiere il processo di maturazione. Tale scatto implica sostanzialmente la fuoriuscita dalla “somiglianza” e la compromissione/confronto con la “diversità”[2]. Somiglianza è ciò che affonda le proprie radici nell’età infantile[3], è l’indistinto, «era noi / nell’immagine di un altro» (La somiglianza). Nella poesia citata il “noi” vorrebbe provare a fissare la corrispondenza e recuperare l’infanzia, ma non è un caso che questo desiderio venga già avvertito come colpevole («domanderemo perdono / per avere tentato»); analogamente in Seconda parte lo stesso tentativo viene associato a una felicità destinata però ad essere punita. Il termine “perdono” è presente in un’altra lirica che esplicita ancora meglio il risvolto negativo della somiglianza, vale a dire il suo essere immobilità, paralisi: «nessuno lo perdonerebbe / se ritorna ghiaccio, l’essere identico a sé / che non cammina» (Dovunque ma non). La somiglianza oltre che affinità con l’altro è coincidenza con se stessi, ma è proprio tale coincidenza a bloccare il movimento che, nella poesia da cui sono tratti i versi citati, riprende solo nel ritmo dell’amplesso con un’altra individualità. È qui che si apre il campo della “diversità”, che è dunque sia rapporto con l’altro da sé, sia mutamento in sé, interiore. La diversità genera paura, assume una connotazione minacciosa e ad essa ci si accosta con esitazione, quando non con esplicito rifiuto[4]. Altrove la paura scaturisce da una vita adulta percepita quale tradimento, come se la maturazione fosse stata compiuta per sottomissione, senza aver mai vissuto davvero l’adolescenza che tale maturazione prepara: la poesia Litanie è in questo senso emblematica. E tuttavia, nonostante il rischio di «distruggersi» che l’avanzamento comporta, la diversità va affrontata per superare il «plagio / di somigliarsi» (Il corridoio del treno) in un gesto decisivo, nell’azione eroica «che esce per prima / e spacca, in tutti, il fratello / che hanno dentro» (Laggiù senza). Uscire dalla somiglianza, che come si è visto equivale anche ad abbandonare un’individualità sterile, è insomma l’atto irrinunciabile per la definizione della propria identità in un contesto sociale. Acquista allora un significato particolare l’ambientazione urbana condivisa dalla maggior parte delle poesie citate. Se la maturazione implica l’ingresso nella dimensione sociale, è naturale che lo spazio in cui la scommessa del suo compimento si gioca sia quello della polis, di tutti i luoghi di aggregazione umana: interni d’auto, stanze, treni, bar, stazioni, scorci di vie cittadine e di periferie (fra davanzali, panchine, pozzanghere, marciapiedi, vetrine, automobili e camion), piazze.[5]
Attorno al passaggio decisivo tra questi due poli fondamentali – somiglianza e diversità, infanzia/adolescenza e età adulta – si muove tutta una costellazione di azioni/acquisizioni, necessarie al compimento del processo e continuamente riprese e ribadite lungo tutta la raccolta. Sarà innanzitutto indispensabile immergersi in una vita connotata come flusso disordinato e rapinoso, minaccioso e attraente al tempo stesso. Il soggetto deve «bagnarsi in un fiume / che non è suo ma lo tiene in vita, e non ha rive» (Dovunque ma non), con un’immersione senza esitazioni e «spiegazioni», secondo la legge di un carpe diem che trova nell’attimo immediato la propria unica possibilità di compimento. Così il personaggio di La luce sulle tempie comprende che «l’abbraccio nasce / non domani, subito» e «pensa al tempo / e alla sua unica parola d’amore: “adesso”»; così l’inizio diventa un ordine che non lascia alternative, un «imperativo / a cominciare» (L’immunità avara); e così deve essere eliminata ogni ipocrisia nell’azione, se è vero che «scendere veramente / senza astuzie, significa tagliarsi / la via del ritorno» (Chi ha osato).
Ma l’inizio impone altre acquisizioni. Quella di superare la sofferenza, per esempio; oppure quella, più volte ribadita, di rinunciare all’equilibrio, di accettare «di perdere qualcosa»[6][6]. Tutte queste direttive pronunciate dalle diverse voci del libro si accompagnano ad una presa di coscienza da parte del soggetto, una consapevolezza di sé e del mondo esterno con cui entra in inevitabile relazione. Delle poesie che insistono sul “dover sapere” la più emblematica è certamente Lo scheletro del pesce: «Lo sai benissimo: / ne approfittano. / Se lo sai, non fallire / proprio adesso. Sì, lo sai veramente. / Ma il tempo. / Facciamo in fretta: Sono le sei meno venti. / Un solo gesto cosciente. Sono le sei meno venti [corsivi miei]». È fondamentale però che la consapevolezza si traduca immediatamente in questo «gesto»; in caso contrario si fa eccessiva (cfr. più avanti Questo poco), diviene barriera fra sé e il mondo, preparazione che ha già annullato ogni possibilità di azione, come avviene per l’“io” di Differire: «se non toccherò il tuo viso / giustificami / dopo ogni gesto / ne faccio uno che lo prepara», non a caso subito fulminato dall’irruzione di una seconda voce («No, tu sei misero / tu non entri nelle forze»)[7].
La necessità dello scatto in avanti traccia una linea netta fra chi progredisce e chi invece rimane bloccato, una linea la cui funzione discriminante si esercita con crudeltà inflessibile: «nessuno potrà abbracciare chi non ha vinto / il doppione gettato via / nell’acquitrino, il dito silenzioso / di quelli che “non ce la fanno”» (La radio). L’agonismo messo in campo per la maturazione si trasforma in lotta, in una prova dove il soggetto «si gioca la vita» (La posizione) e di cui Latitudine offre una svolgimento in chiave quasi narrativa. Qui il punto di vista è quello dello sconfitto, di chi «senza più forze» abbandona la corsa lasciando solo una vana richiesta di spiegazioni: la sua rinuncia è quella di chi non sa, di chi non ha compreso la legge che regola «i mondi e le esclusioni». La consapevolezza di questa legge è un altro punto decisivo su cui si gioca il discrimine. Chi resta fermo non potrà essere perdonato (cfr. Dovunque ma non) ed è ciò che, per esempio, mostra di aver appreso la voce di Viene la prima nella sua esortazione: «non aspettarmi, se soffro, non aspettarmi».
Lo sconfitto di Latitudine rappresenta esemplarmente la fisionomia di chi fallisce una volta chiamato alla necessità dell’avanzamento. Ma Somiglianze pullula di figure di perdenti, di individui che non capiscono, che esitano, indecisi e dubbiosi. Limitandomi a pochi esempi sparsi: il «tu» in La parte, il destinatario della Lettera d’amore, il protagonista di Voci sotto il giorno o di Due nelle forze. Nei loro confronti la voce poetante si mostra spesso severa, inquisente addirittura, ma sempre in qualche modo benevola (Una lettera d’amore è in questo senso esemplare fin dal titolo). Il disprezzo colpisce invece chi vive questa condizione limbica con ipocrisia, chi non sceglie illudendosi di poter aggirare la prova senza rischiare niente. È il caso di chi non accettando di perdere «gioca con tutta / l’astuzia» per autoconvincersi che «“forse non è scomparso nulla”» (L’ordine), oppure del “perdente” della poesia omonima, su cui il sarcasmo del poeta si esercita con particolare durezza. Il ritratto magistrale di chi non si muove, dell’«essere identico a sé / che non cammina», è comunque offerto in Questo poco:
[…] e davvero non si può
aspettare chi chiede, chi torna
vicino al letto
e dice soffrendo “resteremo nelle nostre cose”
il panico di una mente
registrata, che impara solo ciò che sapeva
non muta, quando piangere
è ancora un’analisi
un’insonnia intelligente, troppo
consapevole
per non rimanere, miseramente,
una conversazione rassegnata
con il male, se stessa.
Siamo evidentemente agli antipodi di tutto quanto costituisce il progresso e la maturazione dell’adolescente: ci sono l’esitazione e l’indugio nella sofferenza, la paralisi e l’astuzia che vorrebbe smentirla, la consapevolezza ipertrofica e l’incapacità di abbandonarsi perfino nel pianto. Anche qui, comunque, chi parla non fa sconti: nemmeno questo “perdente” può essere aspettato da chi ha già scelto di progredire.
De Angelis ha così rappresentato da ogni angolatura psicologica il drammatico processo che porta l’individuo ad abbandonare la passività e a compiere volontaristicamente la propria maturazione, nell’agonistica definizione di un’identità che accetta di determinarsi attraverso l’indispensabile compromissione con la diversità e con tutto ciò che tale confronto implica.
Posto però di fronte alla diversità che «oscura tutto», il soggetto avverte anche l’attrazione di un ritorno all’origine, a un tempo precedente all’infanzia stessa, «quando l’acqua in segreto diceva / che ci sarà una grande gioia all’inizio», (Essere trovati). Parallelo ma opposto al primo scorre dunque un altro binario, che delinea un movimento all’indietro, regressivo. Come accennato in apertura, questo movimento perde la carica agonistica del precedente, il senso di fatica e di rischio (rischio del fallimento, innanzitutto) che lo permeava, per darsi invece come fascinazione, attrazione spontanea e – apparentemente – senza ostacoli[8].
Se prima il tempo era quello dell’adolescenza che tenta di farsi vita adulta, ora il discorso delinea un tragitto che attraverso l’infanzia (ma anche escludendola) ritorna alla pre-infanzia, ad un tempo anteriore alla nascita. E tuttavia la traiettoria che ho indicato non basta ad esaurire le direttrici di queste poesie: più che ad un tempo orizzontale esse fanno riferimento a una dimensione verticale che ingloba piani temporali esterni alla vita storicamente e socialmente definita[9]. Ho parlato di regressione, ma almeno in certi casi (p. es. I sassi nel fango tiepido, o Fioritura, o ancora la seconda parte di “T.S.”) si potrebbero utilizzare allo stesso tempo concetti come “elevazione”, “sprofondamento”, “trascendimento”. Quale che sia la direzione, la meta è posta sempre fuori dalla realtà immanente, in un universo di simboli ed archetipi. Preferisco parlare di regressione, in ogni caso, perché se il primo movimento che ho individuato è senz’altro agonistico e attivo, quello speculare si connota se non come del tutto passivo, certo come rinunciatario verso l’assunzione di responsabilità che la maturità comanda al soggetto. Di fronte al pericolo di «distruggersi», il soggetto si nega come individuo empiricamente e storicamente determinato tramite un annullamento atarattico nell’indistinto. Una poesia come Esterno, ponendo esplicitamente il veto sulla rinuncia, illustra meglio di ogni altra questa dialettica.
Come il tempo, anche lo spazio cambia radicalmente: a livello superficiale si nota la sostituzione dello scenario urbano con un’ambientazione per lo più naturale, ma più che città-natura la reale dicotomia è fra determinato e indeterminato. Vaghissimi sono infatti i paesaggi di poesie come I sassi nel fango tiepido, Fioritura, (Nessuno smentisce), paesaggi che si distinguono per una serie di dati ricorrenti i quali, più che fungere da enti realistici, finiscono per assumere il carattere di simboli. Per limitarsi a qualche esempio, spicca la ricorrenza, in queste poesie, degli “elementi puri”, in particolare l’aria e l’acqua, simbolo primigenio per eccellenza[10]. Sempre tangente all’area semantica della fecondazione abbiamo il nesso «insetto»-«fiore» (poi «insetto»-«corolla»)[11], e la ricorrenza del vocabolo «grano»[12]. Fra le altre riprese spiccano quelle di «vigna»[13] e di «canneto», entrambe ancora assimilabili a un’idea di vitalità[14].
Nonostante la radicale differenza in termini spazio-temporali e nonostante soprattutto la specularità delle mete, i due movimenti – progressivo e regressivo – risultano alla fine omologhi nel condurre entrambi ad un superamento della “somiglianza”. Il secondo, tuttavia, non più verso la molteplice varietà della contingenza sociale (latamente civile), bensì verso l’identità sostanziale di un livello cosmologico archetipico, in una completa equivalenza dove «tutto è così solo / che può diventare ogni cosa» (I sassi nel fango tiepido). È quella che Zagarrio ha individuato, con una certa forzatura, come la «mossa fondamentale» dell’opera: «retrocedere al prima e riviverlo se non per impossibilità pratica almeno per somiglianze [corsivo dell’autore]»[15].
Se ho insistito su un movimento “all’indietro” è perché diverse poesie tematizzano l’idea di un ritorno. Fin dalle soglie del libro la fascinazione del regresso è dichiarata e posta in relazione con ciò a cui l’individuo è messo di fronte nel mondo: «se uno ha visto / vuole tornare» (Essere trovati); altrove è più esplicitamente la paura del fallimento a generare un desiderio di rinuncia e recupero di un tempo rassicurante, connesso al «grembo» materno (cfr. Esterno). Già “T.S.”, comunque, esibisce un tipo di ritorno correlato alla nascita, mentre in STP esso viene associato ad un allontanamento e ad un «incontro prima dell’aurora». Altri testi ancora convocano invece l’idea del regresso per negarne la possibilità di riuscita[16].
Nell’ambito del ritorno è più volte implicata, e non stupisce, la figura materna. Così a un franamento «nella preluce» può seguire il verso che forse meglio di qualunque altro esprime un desiderio di regressione maturato in seguito a un eccesso di stanchezza[17]: «sto crollando sfinito in mia madre» (Le terre). La madre, figura simbolica dell’inizio, diviene nelle poesie della regressione termine di passaggio che nega questo inizio, dando proprio attraverso il «ventre» su un tempo che sta «oltre» ((Nessuno smentisce)). La funzione simbolica della figura materna (inizio della vita) viene revocata: la nascita è sottoposta a un riavvolgimento che la annulla (cfr. “T.S.”). Ma, paradossalmente, questa funzione è restaurata nel momento in cui la reductio ad uterum non produce solo annientamento, bensì sfocia in una ri-nascita che dà sul mondo archetipico dell’origine e della pre-vita. La regressione non esclude quindi un secondo movimento che, stante la coincidenza fra vita e morte che caratterizza l’universo così recuperato[18], fa seguire al ritorno una rigenerazione. Ecco che quindi dopo la serie di salti analogici della dimensione archetipica a un certo punto «non si può più ripetere», e allora «tutto cerca / ogni cosa, […] risorge» (Fioritura). Il testo più emblematico da questo punto di vista è senza dubbio “T.S.”. Ancora una volta è la madre a fungere da snodo del processo. Una vita spinta violentemente alle soglie della morte[19] conosce un viaggio a ritroso verso l’“ancora prima” della fecondazione, ma a partire dall’«oceano» in cui «si accoppiano le cellule sessuali» della seconda parte, si genera un movimento di risalita che, attraverso il parallelismo fra la figura materna di nuovo evocata e la «femmina del pellicano»[20], culmina nella rinascita, fino a trovare «una terra diversa, un’altra voce».
*
«…e trova una terra diversa, un’altra voce. [corsivo mio]». Il finale di “T.S.” offre uno spunto perfetto per tracciare una sintesi fra i due opposti movimenti. Va premesso che non si cerca qui di individuare una linea univoca di sviluppo all’interno di Somiglianze (e forse tale ricerca costituirebbe una forzatura); e tuttavia dall’affiancarsi e talvolta intrecciarsi delle due opposte spinte esistenziali è possibile ricavare un bilancio sufficientemente netto. Dicevo della conclusione di “T.S”. Al termine della regressione ciò che viene trovato è proprio la diversità, vale a dire quello stato tanto interiore quanto sociale con cui l’individuo deve confrontarsi per portare a compimento il processo di maturazione. Certo quest’ultimo aspetto non viene ancora esplicitato, ma un lettore che ha già percorso l’intero libro attribuirà fatalmente una particolare connotazione agli aggettivi del verso riportato. “T.S.” segna la via: nella dinamica progresso-regressione alla fine è il primo polo a prevalere e il procedere dell’opera conferma questa tendenza per il momento solo accennata.
Si è già visto come diverse poesie chiamino in causa un movimento regressivo solo per negarlo, tanto per l’impossibilità di compierlo davvero, quanto per la ferma volontà di resistergli. Se in Verso un luogo e La somiglianza spicca il primo aspetto, in Esterno e Chi ha osato emerge con più forza il secondo. Tale negazione peraltro sembra portare con sé anche un’implicita condanna nei confronti di quella tentazione deresponsabilizzante; in ogni caso la regressione risulta in ultima istanza una strada impraticabile. È allora significativo che le poesie conclusive di ciascuna sezione puntino proprio sul confronto attivo con l’alterità. Di Esterno si è già detto, mentre l’ultimo testo di “Intervallo e fine”, Il sorriso, al di là di obiettive difficoltà esegetiche, sembra chiudersi su un desiderio di corrispondenza fra diversità. La parte (ultima poesia della sezione “La materia”) presenta un incipit emblematico: «qualche decisione / anche tra i fagioli del solaio / bisogna prenderla». È vero che l’avversativa della seconda strofa introduce un «tu» esitante, bloccato, ma ciò non toglie che la necessità indicata dalla voce poetante sia quella di rompere gli indugi e uscire dallo scacco. Si arriva così alla poesia che chiude Somiglianze, Novembre e febbraio. Qui la lezione sembra definitivamente appresa: i due amanti si preparano all’unione, ma solo dopo aver «ribadito le rispettive linee, per non perdersi e mescolarsi l’uno nell’altro»[21].
[1] Già Tabacco individua in gesto una delle parole-chiave dell’opera, cfr. G. Tabacco, «Questa goffa bruttura indescrivibile». Lettura di cinque poesie di Milo De Angelis, «Filologia Antica e Moderna», n. 21, 2001, p. 153.
[2], http://puntocritico.eu/?p=2369 (24 giugno 2011).
[3] Sempre la Mancinelli afferma che «la somiglianza è propria dell’infanzia, della stagione in cui “tutto è in relazione”», cfr. Ibidem.
[5] Senza addentrarmi troppo nella funzione attribuita a questi ambienti, vorrei soffermarmi sul significato assunto dalla «piazza», luogo “politico” per eccellenza, in una poesia come Esterno. È lo scenario dove l’individuo «cercato» dal mondo affronta la sua prova, forzato a superare «la paura / di cominciare con uno sbaglio»; di qui la connotazione «terribile» della piazza, la sensazione da parte del soggetto di esserne il protagonista, come su un palcoscenico allestito per il suo indefettibile debutto.
[7] L’importanza di una consapevolezza che si faccia «applicazione», «azione pratica» è messa in luce, proprio in merito a questa poesia, da Tabacco, cfr. G. Tabacco , «Questa goffa bruttura indescrivibile». Lettura di cinque poesie di Milo De Angelis, cit., p. 164.
[8] Zagarrio nota a questo proposito che la regressione in De Angelis «è risultato di un movimento non già lento, laborioso, e faticosamente avventuroso, ma rapido, fulmineo», cfr. G. Zagarrio, Della regressione: Sanesi, Ramat, De Angelis, in Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980, Mursia, Milano 1983, p. 647.
[9] Così Testa: «L’“oltre”, vera parola-chiave del libro, non conduce ai nodi dei rapporti, non indica una direzione orizzontale; al contrario, persegue una strada verticale, scende nella vertigine delle suggestioni». Cfr. E. Testa, Il codice imperfetto della “nuova poesia”, in “Nuova Corrente”, XXIX, 89, 1982, p. 543.
[10] Il lemma «acqua», con le sue varianti («oceano», «marea», «mare») ritorna in diverse liriche in cui la regressione è tematizzata, quali Essere trovati, “T.S.”, Le cause dell’inizio, I sassi nel fango tiepido, Fioritura, Ora se questo dono, Il sogno di Gatta Danzante.
[11] In (Nessuno smentisce) e in Fioritura (non a caso in entrambi i testi compare anche la parola «frutto»).
[13] Cfr. “T.S.” e nel Sogno di Gatta Danzante per il primo e ancora “T.S.”, Le cause dell’inizio, Fioritura, e Diventare.
[14] In (Nessuno smentisce) per tornare poi in Fioritura e nel Sogno di Gatta Danzante; in particolare nella prima poesia il canneto sembra essere il luogo di un atto sessuale, nella seconda «canneto» e «vigna» compaiono associati poco prima della resurrezione finale.
[15] G. Zagarrio, Della regressione: Sanesi, Ramat, De Angelis, cit., p. 650; dove per «somiglianze» penso vada inteso proprio il movimento analogico attraverso cui il «retrocedere» si compie. Tuttavia Zagarrio trascura completamente l’altro movimento speculare al regresso, con un appiattimento esegetico che distorce tutte le esortazioni a «“provare”, a “rischiare”, a “tentare”» in un invito generalizzato di ritorno al «prima».
[16] Ho già citato Esterno («non si può […] gettarsi indietro») e prima ancora la discesa «senza astuzie» di Chi ha osato; ma cfr. anche il «non è mai / previsto ritornare» di Verso un luogo.
[18] Cfr. Bisognava, vv. 9-12; Tabacco parla a questo proposito di «sabotaggio lirico del “tempo lineare”», p. 156.
[19] La sigla “T.S.” indica il “Tentato Suicido” sulle cartelle cliniche; in ogni caso conta che la regressione venga messa in moto a partire da uno stato liminare fra vita e morte.
[20] Tabacco nota come il parallelismo diventi di fatto una metafora/metamorfosi, approdando all’equivalenza «mamma» – «femmina del pellicano», cfr. G. Tabacco, «Questa goffa bruttura indescrivibile». Lettura di cinque poesie di Milo De Angelis, cit., p. 155.
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