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da Cadenza d’inganno, 1975, in Tutte le poesie, Einaudi, Torino, 2014, pp. 104-105.
1.
L’acqua
stata alta da poco – «ma no, non questo, forse»
(sgombravano la piazza, tiravano su le assi)
«forse l’idea d’esserci andati
per una cosa, per fare quella cosa e basta»
nel tempo che cerco d’organizzarmi tu vai avanti
imperterrita «o più semplicemente
che non mi piacesse l’albergo?» Ti liberi. Fai venire
voglia, ancora una volta, di metterti il sale sulla coda.
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2.
«Non perderemo il treno?» La valigia
è quasi pronta, mancano ore. «Dai, mettiamo
a posto il letto, non devono capire
che anche oggi, mi secca». Con il palmo
della mano si normalizza il lenzuolo si rettifica si
sciolgono umide impronte. «Stamattina
ai telefoni, ti giuro, non posso, non posso, io
non posso raccontare delle balle a mia figlia».
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3.
Non inatteso. Sfigurato. «Me l’immagino
la tua passeggiata, il fango
sotto i ponti, l’odore di moría.
Conosco le facciate che hai visto. Rasento
il numero delle coltellate. Ma non era
che fosse rimorso, ma che eri sola…»
«Credi quello che vuoi,
pensami incerta o debole o una
che legge troppe storie e si confonde
più del normale. Io credo che è da qui
che comincia, dove comincia a finire».
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4.
Non sogno. Non mi capita più di sognare.
I pacifici oggetti mimetizzati sotto frasche o teli,
i bagliori d’acciaio senza acume
sono dunque avviati su binari morti.
Eppure: meno male, pensavo, siamo arrivati sotto la tettoia
prima che i provocatori siano morti,
in modo irrimediabile lenito l’acciaio,
acciaccate le punte che ci vogliono morti. Il freddo
è appena freddo, i rombi
di luce sull’asfalto traslano piano,
la città non si vede. «Ecco, è così che sono, adesso
l’hai visto» – proprio le volte che non mi sembri vera.
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(1967)