di Marco Villa
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Viviamo nella versione più astratta di una forma di vita già di per sé astrattissima come quella del capitalismo tardo. Tra la moltitudine di oggetti di cui ci circondiamo quotidianamente non si contano quelli che offrono espansioni e rielaborazioni immateriali della nostra esistenza: schermi televisivi, interfacce per la comunicazione virtuale, generatori di mondi possibili in cui giochiamo al surrogato di noi stessi, dispositivi per la riproduzione di suoni in differita, immagini “a scopo presentativo”di prodotti e di bisogni – e talvolta, tutto questo condensato in un singolo oggetto feticcio. In una situazione di virtualità diffusa, di cui ciascuno fa continuamente esperienza, l’atteggiamento della poesia nei confronti del mondo oggettuale non può essere più quello ancora validissimo solo qualche decennio fa. La conquista degli oggetti alla poesia “alta e tragica” è stato un passo fondamentale per l’evoluzione novecentesca del genere, certo. Ma anche su questo versante le nostre vite sono cambiate con estrema velocità, e l’“assedio delle cose” che aveva già progressivamente sfondato la dizione selettiva di Montale ora è una realtà acquisita, che nella sua ultima versione digitale può fare tranquillamente a meno della presenza effettiva dell’oggetto stesso. Ciò che allora l’apertura del dettato poetico alle cose di tutti i giorni rappresentava in termini di liberazione, di ampliamento, di onestà, di critica e quant’altro, oggi ha perso ogni implicazione euforica contemporaneamente al proprio ancoraggio nella comune esperienza quotidiana.
La nominazione degli oggetti è quindi una pratica ormai svuotata, inoffensiva, non solo perché sa di manierismo esausto, ma anche perché priva di quel fondamento teorico che a uno sguardo ingenuo ancora parrebbe giustificarla, ossia il rispetto di un’invecchiata idea di reale. Una poesia che ricorre al pretesto di una scrittura non assoluta e non autoreferenziale per compilare inutili cataloghi di realia resta prigioniera della minuziosità dei propri inventari, e si illude di essere precisa mentre si perde in un descrittivismo superficiale1. Per fortuna ci sono poeti per i quali la presenza delle cose va oltre un effetto di reale ormai privato di validità o, peggio, la semplice decorazione. Nelle poesie di Dal Bianco, di Fiori, di Bre (per fare qualche esempio) l’oggetto diventa occasione di scavo, e per il loro tipo di approccio al dato esterno non resta che sottoscrivere queste parole: «Estranea al realismo da cronaca o da inventario, l’operazione è euristica, mossa da una dedizione al reale tanto acuta da non fermarsi al dato di fatto ma che spinge a trovare delle cose le forme e i rapporti»2.
Questo tipo di operazione richiama per via negativa un altro atteggiamento reso inaccettabile dal nostro attuale rapporto con la realtà: il tentativo (preteso) di trasferire interamente il focus del testo dall’uomo alla cosa, dal soggetto all’oggetto; oggetto in questo caso non più come arredamento superfluo alla stanza dell’uomo, ma come elemento centrale di un paesaggio de-antropizzato. Si direbbe un vero e proprio “prendere il partito delle cose”, senonché l’utilizzo in questo senso di Ponge (che comunque scriveva quando la realtà era molto lontana dal grado di astrattezza attuale) poggia su un equivoco. Anche nel libro al cui titolo si è alluso, la sua descrizione delle cose è quanto di più connotato si possa dare, la sua lingua è un fiorire di metafore, similitudini, personificazioni, umanizzazioni del vegetale e dell’animale, artificializzazioni del naturale e viceversa, senza contare le interpretazioni allegoriche che il testo non postula ma rende in certi casi possibili. La forza, etica ed estetica insieme, di un’attribuzione di valore all’oggetto meno significativo non può insomma prescindere dalla sua relazione con il coté umano che lo indaga. D’altra parte vale anche il contrario, così se la potenza di sguardo pongiana viene rivolta al soggetto invece che all’oggetto non avremo un poeta romantico ma un Michaux: come Ponge, parlando delle cose, non fa parlare le cose ma un essere umano che ne riscopre il valore, così Michaux, parlando di un uomo, della sua debolezza e malattia, non regredisce a un lirismo arcaico ma definisce leggi sulla relazione di quell’uomo con l’esterno/estraneo. Ancora Scarpa: «Se lo sguardo verso l’esterno non registra ma evidenzia, analogamente quello psichico, rivolto all’interno, al sé, nulla avrà a che fare con il resoconto intimo»3. L’esempio di Ponge, insomma, vale nemmeno troppo paradossalmente a giustificare più di uno scetticismo nei confronti di una scrittura che miri ad abolire l’elemento umano; persino l’autore che in modo più convincente e programmatico ha rivolto il proprio sguardo alle cose non ha potuto rinunciare – come tutta la grande poesia non può rinunciare – alla prospettiva antropica inscritta nel linguaggio.
Ma lasciando Ponge e tornando al presente, il moltiplicarsi dei vuoti virtuali fa sì che l’abdicazione all’oggetto sia, insieme, coerente con uno sguardo impressionato dalla proliferazione di manufatti di ogni genere ma controproducente per una scrittura che voglia da tutto ciò salvare qualcosa. È sicuro che quella che si sta configurando oggi è un’immagine dell’uomo nuova4 e che gli oggetti ne costituiscono una parte integrante; proprio per questa ragione la poesia, nel suo tentativo di conoscenza estetica dell’umano, non può accontentarsi di una rappresentazione parziale. Fermarsi all’oggettualità nuda significherebbe compiere l’errore uguale e contrario al perseverare nel lirismo più solipsistico. Una poesia veramente realistica, che si nutre tanto del dato esterno quanto del mondo interiore, deve invece cogliere i rapporti tra i due poli isolandoli in un’enunciazione che li collochi su un piano superiore di sintesi relazionale e di lucida astrazione.
Qui è possibile sciogliere un altro nodo problematico, vale a dire il legame tra oggetti e orizzontalità. Sull’ultimo numero di “l’Ulisse”, così scriveva Vincenzo Bagnoli:
Cosa significa, dunque, tale orientamento [al paesaggio]? Soprattutto, direi, l’attenzione a una modalità di rappresentazione orizzontale, che dà grande rilievo agli oggetti, e una riduzione dell’aspetto simbolico/metaforico a favore dell’espansione metonimica.5
Non condividiamo, ma non ci stupisce, la nonchalance con cui si dà implicita l’equazione «rappresentazione orizzontale» = «rilievo agli oggetti». È facile capire che questo a priori si fonda su due ulteriori equazioni pregiudiziali, ossia: verticalità = lirismo (e quindi disinteresse per gli oggetti perché conta solo il sé umano) e, di contro, orizzontalità = non-lirismo (e quindi interesse per gli oggetti perché il sé umano non conta). Che le cose non siano così nette è evidente, e senz’altro anche Bagnoli, come dimostra il resto del suo intervento, lo sa bene. Ma allora bisogna stare attenti a non dare per scontato il rapporto di implicazione fra orizzontalità e presenza degli oggetti, perché se è vero che – lo si è detto – l’uomo si definisce forse più di ieri inglobando una serie di protesi metonimiche, l’apertura sintagmatica della poesia non può poi rinunciare a un passaggio verticale che non è necessariamente «simbolico/metaforico» ma di approfondimento, riconoscendo e dichiarando l’essenziale della realtà nel fascio di possibili riflessi tragici che (anche) l’oggetto ha sul mondo interiore dell’uomo6. L’orizzontalità agisce quindi da moltiplicatore di possibilità euristiche ed estetiche: l’ampiezza della superficie battuta rende l’innalzamento (o perforazione) non solo più imprevedibile, ma anche più ricco, se in quel singolo punto, per niente autonomo rispetto al contesto, tutto il territorio esplorato è condotto a un livello più alto.
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1 Andrea Ponso ha criticato (qui) una tendenza analoga; critica in buona sostanza condivisibile, benché svolta in una prospettiva differente rispetto alla nostra. Alcuni punti problematici sono stati discussi da Lorenzo Mari nel quarto editoriale di Inrealtalapoesia, a cui il titolo di questa nota si ispira.
2 Raffaella Scarpa, Gli stili semplici, in Secondo Novecento: lingua, stile, metrica, Edizioni Dell’Orso, Alessandria 2011, p. 151.
3 Ibidem.
4 Benché non priva di scontati e importanti tratti di continuità con il passato, come invece da sempre gli entusiasmati celebratori del nuovo vorrebbero farci dimenticare.
5 Vincenzo Bagnoli, Paesaggi con spettatori: architettura e mappe per il nuovo mondo, in “l’Ulisse”, n. 17, p. 51.
6 Qui ha ragione Bagnoli a parlare di un lavoro che parta «dalla sovraesposizione al caos multimediale e dal suo riverbero sui magmi dell’interiorità psichica» (Ibidem), per quanto molto diversa sia la priorità che noi attribuiamo a questo dato.
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