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Fra qualche giorno ricorrerà il ventesimo anniversario della morte di Franco Fortini. A partire da oggi, le pubblicazioni di questa settimana saranno dedicate al ricordo del poeta, cominciando con un estratto dal saggio Vergogna della poesia,“La Fiera letteraria”, IV, 5, 30 gennaio 1949, ora in Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, pp. 1270-1279.
Ferma restando, dunque, la natura ambigua e dialettica della poesia, quel suo continuo dire altro da ciò che sembra dire, potremmo forse chiederci se sua destinazione non fossero, molto semplicemente, i non poeti, gli uomini tutto senso o gli uomini tutto intelletto. Ma che vuol dire giungere, destinarsi? Mostrarsi come una verità «inaspettata». Per usare una vecchia distinzione, la poesia non è volgarmente simbolica; ma è una pietra segnata, un sùmbolon, una pietruzza sulla quale è segnato un nome nuovo per il destinatario, «che nessuno conosce se non colui cui essa è data». La poesia è, al tempo stesso, cosa in sé e cifra, oggetto e segno. Di che cosa? Di una verità, di una totalità od unità che essa raffigura per speculum. In questo senso è certa l’analogia della poesia con la religione in quanto e l’una e l’altra sono il luogo della scissione dell’uomo in più parti e insieme l’intenzione di un superamento della scissione. Per questo «mostrarsi» della poesia, abbiamo scritto che deve esistere un modo di prendere sul serio i poeti; e ciò non significa affatto ridurre la poesia a didascalia o a «letteratura», così da usare i contenuti di Dante o Leopardi come propedeutica all’azione, o simili usi retorici: bensì cogliere nella perpetua e instabile oscillazione fra contenuto e forma, fra musica esplicita e musica implicita (poesia come «oggetto naturale» ma anche «intenzionale») in quel continuo generarsi e sprigionarsi di una verità sintetica, che è il battito stesso del sangue dell’opera poetica, una energia dello stesso genere, sintetica quindi e generatrice di sintesi.
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Per il fatto stesso di presentare ai non poeti l’ambigua natura di una «cosa» riducibile tanto alla pura gratuità della natura quanto alla pura strumentalità; per il fatto stesso di presentare accanto alle interpretazioni del mondo che ogni uomo si fa ad ogni istante della propria vita, una interpretazione altrettanto legittima e totale, la poesia pretende alla dittatura; chiede, con la forza della propria autorità, la propria incarnazione. E siccome la vita di relazione fra gli uomini non è altro che la vita e la lotta delle innumerevoli interpretazioni del mondo, cioè delle innumerevoli anime che ci abitano, la più profonda esigenza della Commedia è quella di volere che la realtà di tutti gli uomini sia quella della Commedia fatta a sua immagine e somiglianza. Non soltanto, dunque, un mondo che si esempli sulla fede cattolica di Dante, sulla sua teologia, o passione politica o nevrastenia (ché, in questo caso, considereremmo la poesia della Commedia alla stregua di un qualsiasi trattato teologico o politico del suo tempo, che si affannasse bensì a dimostrare e a persuadere ma che poi avrebbe sempre bisogno di un sussidio nostro di fantasia e sentimento e calore vitale per «mostrarsi» con l’intensa e perentoria forma della poesia). Ma bensì un modo che è quello della fede cattolica, della sua teologia ecc., più una certa inflessione, una certa pronuncia, un certo timbro (che chiamiamo dantesco) più o meno diverso da quello della fede cattolica e dalla teologia di un qualsiasi credente o teologo, e che neppure è dantesco a quel modo che sono stati danteschi i tic nervosi o gli isterismi dell’Alighieri Dante, cittadino di Firenze; ma, per una qualità d’anima per cui si è danteschi anche senza essere Dante.
Il valore di testimonianza della poesia, che non differisce da quella del santo o del politico perché, come quelli, il poeta proclama un giudizio sugli altri che è, al tempo stesso, un «Guarda il mio cuore». Si può infatti passare accanto ad un’opera di poesia senza prenderla sul serio, come si può assistere alle imprese di un eroe o di un santo senza avvertirne il significato terribilmente critico; se è vero, com’è vero, che ad ogni individuo, in ogni momento, e in ogni luogo, si offre la scelta fra verità e errore, fra una verità e un errore, la poesia è un’occasione di scelta, uno scandalo o pietra d’intoppo; davanti ad essa possiamo fermarci o passare oltre. E una volta ascoltata quella voce, possiamo dimenticarla subito e distrarcene.
Oppure possiamo farla collaborare con noi, integrarla a noi stessi, al nostro passato, possiamo lottare con essa, spremerne tutta la verità che possiamo assimilare e gettare il resto. D’altronde essa non chiede altro che di morire in noi, di diventare noi stessi. A quel modo che il passaggio che l’infanzia fissò nei nostri occhi è divenuto una piega incancellabile, così quel canto di Dante, quel sonetto del Petrarca o quella commedia di Shakespeare sono divenuti altrettanti luoghi di noi stessi, verità e capitali forme di vita. Ma – e questo è il punto – esse non fanno di noi dei poeti, cioè non necessariamente: in questo senso è falsa l’identità tra poesia e contemplazione. E l’origine di questo errore è nell’aver visto nell’opera poetica un oggetto chiuso e completo in sé stesso, un organismo ormai cristallizzato, finito «nella bellezza» dove l’autore è propriamente «scivolato», morto; e che esige dallo spettatore o lettore solo una morte equivalente, morte delle passioni ai piedi della forma estetica. Se invece consideriamo l’opera poetica come una forma continuamente aperta, in attiva disgregazione, in corruzione, in progresso mortale e polisensa, allora sarà possibile dire che il poeta non genera poeti, non genera chi ripeta all’infinito la sua eco, ma pone invece l’esigenza di un superamento di quella forma: il passaggio dal formare al fare, dal poièin al prassein, dall’estetica all’etica e alla politica. La poesia dunque non è tanto engagée quanto engageante.