Carla Saracino, Il chiarore

per saracino

da “Il chiarore”, Lietocolle 2013.

*

Non parlare, vita d’una volta.
Ogni scrittura sul foglio
della fatica di ricordare
è dilapidazione, preparazione
alla morte.
Sii dentro, sta’ reclusa.

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Nel vivo focolaio della tempesta giovane
il silenzio è questa piana
su cui neri s’incendiano i passi.
Così si marchia l’estremo,
in un rotto sospiro.
Così, all’avanzare dell’improvvisazione
anche un fuoco spaccato diventa ignorabile.
Ma in questa felice autorità
tu mai sei amato, io mai sono amata.

*
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*

Sicuramente indovinerai, nel cieco
invecchiare del corpo, un cesto
i cui enormi grani di ferro sbatterono
sull’erba, i prati, le memorie vecchie
le idee medievali che vinsero
il mio respiro.

In quel tempo sarà grato a te il sublime
il guanto che ancora non nuoce
oppure dopo di te, e molti altri di te
a qualcuno verrà in mente
in sosta, sul profondo del suo giardino,
che al verde non risponde lingua
immaginaria.

*
*
*

Ma da un albergo di provincia posso esultare.
Posso scompormi in forme modellate
anni prima.
Posso insegnare a vivere nella caduta
tirare gli estremi al principio di restare
vana e, talmente tesa, entrare: cavalcando.

*
*
*

Tu sai cosa vuoi dal dolore.
E allora la salita nel vano dell’albergo
cominci: quel vano bruciacchiato di riviste,
cibarie, enigmistica dell’universo
sedie roteanti nella tua mentale stazione:
stazione di paese, o provincia eletta
(l’elezione è una persecuzione).

*
*
*

Entrammo nelle stanze con l’intento
di vuotarle.
Percorremmo corridoi che stabilivano
rotte, guidando per angoli e ripostigli.
Arrivammo in camere da letto
dove grandi brande di metallo agganciavano
strati di lenzuola.

*
*
*

O dormivamo in posti occasionali, per terra
perché amavamo l’odore dei pavimenti
toccati dall’usura.
Dormivamo per una vera veglia
e sotto i nostri abiti
le notizie marciavano
in reggimenti da combattimento
sotto le giunture della materia schiva
sotto i perimetri delle cosce piegate
sotto la schiena o i dorsi delle bruciature.

Per l’anima delle cose grandi
e di ogni vaghezza.

*
*
*

Nelle città smeraldine portate
questo diario russo scritto da mani
di brace.
Che sia un diario lucano, greco, matriarcale
del giorno presente, patriarcale a venire.
Che queste parole capitolate in fascine di erbe
siano affidate ai calcagni di un portone musivo
di un arazzo giocato a carte nella latrina del verso
ordito in sorte agli amici degli amici
trapassato nel mondo come lancia
di sole a un tramonto verticale.

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