Andrea Lombardi, La costruzione

Laura Bisotti - Cajas

 

La costruzione

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1.
Ci sono giorni che nascono sbagliati e non li puoi modificare, tantomeno cercare di capire. Provi ad ammettere un significato, a delimitare un mondo che sia valido per te, senza riuscire a chiuderlo, a renderlo plastico, perfetto. Resta sempre una piccola emorragia che tenti di bloccare, una fuoriuscita di cui ignori la causa ma comprendi l’effetto, di cui sei figlio tu stesso, di cui sono figli i tuoi limiti.

2.
Ogni giorno diventa la replica di quello precedente, e tu non ci fai più caso, abituato come sei a ciò che sei diventato, a ciò che credi sia giusto essere, o che semplicemente ti basta. L’inverno è passato senza infierire, regalando conferme e giornate che si compongono con una precisione che spaventa. Basta lasciare poco spazio a ciò che si crede importante, uno spazio sufficiente a quello che si è, fare tante cose, e tante cose inutili. Non avere un obiettivo, non farlo ancora diventare un problema.

3.
Una cosa utile è sapere che ogni tanto tutto questo s’interrompe e una tregua ti è concessa. Un giorno, al massimo una settimana, in cui ti senti autorizzato a crederti felice, o almeno a illuderti che la tua vita sia diversa da quella di chiunque altro. Queste tregue non rivelano una verità o un senso per te: sono solo meccanismi di difesa, istinto di autoconservazione, anatomia.

4.
Vivere è facilissimo, difficile è accettare che sia così. Delimita il tuo mondo, rendilo abituale, identico a se stesso, credibile come quello di ogni altro. Il significato delle cose sta al di là di un confine che puoi cercare di oltrepassare solo se prima riesci a comprenderne l’al di qua, solo tentando, dandogli un nome, di renderlo reale, umano, profondamente tuo.

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E già ci ritroviamo a parlare di ristoranti,
di negozi che hanno chiuso, di cosa c’era là,
al posto di Intimissimi, del lavoro che non c’è:
così un mondo certifica la propria fine,
l’epica si azzera, diventa cronaca
e tutto ciò che un tempo rappresentava
l’unica fede possibile
– il campo, la gita in Germania, il mio gol sotto l’incrocio –
repertorio pronto all’uso nelle grandi rimpatriate.

Passeggiamo nel centro di una città che ho odiato immensamente,
mentre voi la amavate in maniera incondizionata,
come fosse un vostro dovere. Eravamo distanti,
e non capivamo perché.
E ora che la prospettiva si è ribaltata,
ora che tutto è cambiato veramente,
non siamo né vicini né lontani: siamo fermi. Siamo adulti.

Conosco a memoria questa strada,
così come tutti questi luoghi che non ci dicono
più nulla. La loro dignità sta nell’indifferenza, la nostra
è scomparsa un’ora fa, davanti a un bar,
insieme a un mondo intero. Siamo diventati come tutti gli altri:
solitudini impegnate a sopportarsi, scarto tra ciò che eravamo
e ciò che forse non diventeremo.

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Il margine d’errore

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Confermare una vita pensata da anni, diventare ciò che si è, essere una scelta: trovare un equilibrio vuol dire presupporre una mancanza e accettarla. Ed è tutta qui l’ironia della sorte, nel vuoto che intercorre tra il destino e la costruzione di una vita. Dire io sono questo, scartare ogni prospettiva alternativa, eliminare l’idea stessa del possibile. Il pericolo più grande è ritrovarsi al punto di partenza, a un punto morto che richiede umiltà e dedizione, lo sforzo troppo umano di affrancarsi dal nulla per occuparne una minima porzione. Ora che hai il tuo destino, conservalo e mantienilo ciò che è, affacciati ogni tanto su quelli degli altri, cerca di capire i loro vuoti e confrontali con i tuoi. Cammina, come da bambino, lungo il margine dell’errore, e non sporgerti mai troppo; se rischi di cadere, torna indietro.

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