«A fior di labbro». La parola di Sbarbaro tra «voce» e «silenzio» – seconda parte

SBARBARO CHE SCRIVE

di Andrea Lombardi

*

Se le ragioni dell’abbandono della poesia da parte di Sbarbaro vanno rintracciate in Pianissimo è perché «voce» e «silenzio» non costituiscono soltanto le due strade al crocevia delle quali sorge la particolare parola di quest’opera, ma anche perché essi si configurano come veri e propri oggetti d’indagine all’interno dei testi. Pianissimo[1] si apre, infatti, all’insegna del silenzio: «Taci, anima stanca di godere | e di soffrire» (I, 1, vv. 1-2). «Taci», come nel primo testo della seconda sezione (Taci, anima mia. Son questi i tristi), non è un’esortazione, ma la constatazione del silenzio dell’«anima» del poeta, un’anima che non gode più e non soffre più, dove ogni residuo di vita tace[2]. L’anima è diventata, «come il corpo», incapace di parlare, «ammutolita», ma questo silenzio non equivale a una pace, è piuttosto un vuoto di disperazione rassegnata. Di fronte a questo vuoto l’evento della morte risulterebbe un’ovvia conseguenza («Noi non ci stupiremmo non è vero, mia anima, se il cuore | si fermasse, sospeso se ci fosse | il fiato…», vv. 11-14), anzi, rappresenterebbe quasi una salvezza, alla quale però il poeta non può aspirare. Una condizione ben più traumatica lo aspetta, quella del sonnambulismo, di chi continua a vivere ma da estraneo, senza rendersene conto: «Invece camminiamo. | Camminiamo io e te [anima] come sonnambuli» (vv. 15-16). Ogni residuo di vita è scomparso: «La vicenda di gioja e di dolore | non ci tocca» (vv. 21-22), regna l’apatia, il silenzio. Le cose hanno perso la capacità di parlare, hanno perso quell’incanto che permetteva ancora una comunicazione tra il mondo e l’uomo: «Perduta ha la sua voce | la sirena del mondo» (vv. 22-23), la realtà è divenuta afona, priva di voce, cioè priva del più evidente segno di vita. Per questo il mondo è diventato «un grande deserto»: il deserto è il luogo dell’assenza di vita (e di voce) per eccellenza. Tuttavia, il silenzio non rappresenta soltanto la perdita dell’incanto del mondo o l’apatia in cui è caduta l’anima del poeta, ma in Pianissimo diventa strumento di conoscenza: è, come lo sguardo, ciò che permette di svelare la verità, contro l’inganno creato dai rumori della «consuetudine»:

                                Tace intorno
la casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì grande è il silenzio nella casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi.

(I, 3, vv. 3-10)

Il silenzio smaschera la realtà, permette l’improvvisa presa di coscienza da parte del poeta che la propria vita è «separata dal resto della terra», di essere «solo al mondo» (v. 13), porta cioè alla scoperta di ciò che il «sonno», la vita apparente e consueta, non fa vedere e non fa ascoltare. Solo il «mondo muto delle cose» (v. 27) impedisce al poeta di sentirsi solo, proprio quelle cose che comunicano tacendo e non riempiono di parole il mondo. L’inadeguatezza della parola viene espressa in maniera inequivocabile nella dodicesima lirica della prima sezione, I miei occhi implacabili che sono: «Col rumor della voce noi vogliamo | creare fra di noi quel che non è» (I, 12, vv. 7-8); soltanto il silenzio può rivelare la verità, il tentativo fallito di una comunicazione impossibile: «quando taciamo non sappiam che dirci | ed apre degli abissi quel silenzio» (vv. 9-10). Il «rumore della voce» risulta un segno di quella vita regolata dalla «consuetudine» che Sbarbaro non può accettare, perché falsa e apparente: «Ogni voce m’importuna» (I, 16, v. 7); ne consegue l’amore per il «mondo muto delle cose», per la «voce delle cose» inanimate, le più simili al soggetto estraniato.

Le uniche voci e gli unici rumori presenti in Pianissimo provengono tutti dalla strada, quando il poeta, di notte, attraversa la città e vive la sua «vita più profonda» (II, 7, vv. 1-2): «Negli atrii di pietra voce d’acqua!» (v. 5); «Udire nella mia notte per ore | avvicinarsi e dileguare i passi!» (vv. 12-13); «Rasentando le case cautamente | io sento dietro le pareti sorde | le generazioni respirare» (vv. 20-22). Il poeta tende quasi l’orecchio, vuole cogliere quella realtà «rasentata». Non sempre è l’io a tendere l’orecchio, ma talvolta sono voci e suoni che, come chocs, lo sorprendono, rompono improvvisamente quella campana di vetro dentro cui risiede il sonnambulo: un «canto d’ubriachi» che desta l’attenzione del bambino di notte e lo commuove (ma ora «quell’inganno anche è caduto», II, 2, v. 15) e un «canto di cicale» (II, 10) che talora sorprende il poeta mentre cammina «nell’arsura della via» e innesca in lui la visione di quella natura che un tempo era per lui motivo di consolazione. Si tratta in entrambi i casi di un «canto», di una musica piacevole, ma di cui il poeta deve constatare la natura illusoria, a dimostrazione che soltanto il dominio del silenzio può svelare la verità. Sguardo e silenzio rappresentano gli ultimi baluardi per un’indagine sull’esistenza di un soggetto svuotato delle possibilità conoscitive e impossibilitato ad essere termine di verifica dell’esperienza. Di conseguenza, la parola di questo soggetto assume un valore particolare, in quanto

non si rende depositaria di possibili significati nascosti che leghino i fenomeni tra loro, non è strumento di ricerca sul senso dell’esistere (o sulla mancanza di tale senso). La parola è piuttosto descrizione degli eventi, scarno suono in bocca all’io lirico che registra le gioie e i dolori derivanti dal suo impatto stupito col mondo[3].

Pianissimo si configura così non soltanto come percorso di indagine su se stesso, bensì è per Sbarbaro anche l’indagine sulle possibilità della parola di «dire», partendo dalla constatazione che la propria anima tace, incapace di godere e di soffrire, e che anche «la sirena del mondo» ha perso la propria voce. La conclusione di questo percorso è una risposta ad entrambe le indagini:

Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…

(II, 10, vv. 11-15)

In quel «sorrido a me indicibilmente» c’è tutta la rassegnazione del soggetto che è arrivato alla fine del percorso di autoscopia constatando la propria reificazione, e che, parallelamente, in quanto divenuto «cosa», risulta espropriato del segno distintivo che definisce l’uomo in quanto tale, ovvero la parola. Sbarbaro si abbandona alla rassegnazione e accetta il suo esser «cosa» e l’impossibilità di parlare, lo accetta senza indagarlo, senza dire, appunto, una parola: lo accetta in un sorriso, un sorriso «indicibile».

A questo punto viene da chiedersi, di fronte all’inefficacia della parola, quale valore assuma la voce della poesia. Se l’io si mostra insufficiente come termine di verifica dell’esperienza, se riesce a coglierla soltanto rinunciando al segno distintivo dell’essere umano, ovvero la parola, allora la poesia risulta uno strumento inadeguato a rappresentare la verità. La parola poetica non può più portare significati che suggeriscano qualcosa al di là dell’apparenza, non può svelare la realtà vera, ma soltanto registrare la grande tautologia dell’esistenza, per cui «tutto è quello | che è, soltanto quel che è». Ma allora che senso ha scrivere? Perché Sbarbaro, di fronte alla consapevolezza dell’inefficacia della parola, la utilizza per raccontare la propria esistenza? A maggior ragione viene da chiederselo leggendo uno dei suoi Trucioli:

Da quando posso parlare, la mia vita è colpita da immobilità.
Del più desiderabile bene, se la parola lo tocca, rimane la buccia. […] Così da me mi muro e pietre sono le parole.
[…] Ma forse in fondo a questa strada è il silenzio. Già ogni parola m’è di troppo. Presto riempirò la pagina con una interiezione.
[…] Diventi muto e le parole non dette mi restino pietre sul cuore, purché parta un giorno pel mondo a scordarmi anche il nome[4].

Le parole non soltanto sono inefficaci nel rappresentare il vero, ma sono un muro di pietre che circonda il poeta. L’uso delle parole è una costrizione che crea immobilità, per questo Sbarbaro sogna di limitare la scrittura ad una sola interiezione, aspira al silenzio, a diventare muto. La vita diventa immobile, una «buccia», perché il poeta la vive in anticipo nella scrittura («E quando potei pregare: Padre, che ci hai tenuto sui ginocchi…, in quel punto mio padre morì (la sua morte naturale fu un bis increscioso)»[5]). In questo senso è come se Sbarbaro si murasse vivo entro le sue parole, e non riuscisse a scavalcare quel muro, cioè a vivere con autenticità: il vivibile è già stato vissuto nella scrittura, di conseguenza la vita è colpita dall’immobilità. Il desiderio di diventare muto è il desiderio di evitare le parole, cioè di anticipare nella scrittura la vita, e così poter partire «un giorno pel mondo», realizzando finalmente il sogno di varcare il «cerchio della Necessità» alla ricerca di una vita altra, dimenticandosi della propria attraverso la perdita del proprio nome, gesto emblematico già visto in II, 3 («La volontà mi prende di gettare | come un ingombro inutile il mio nome») e nella Lettera dall’osteria («Perdermi là sognavo, essere un altro, | dimenticarmi sino del mio nome»).

Sbarbaro, però, scrive. Qui bisogna chiamare in causa l’ambiguità e la contraddittorietà tipiche di questo autore. Seppur inadeguato, inefficace, muro in pietra insormontabile che corrisponde a un blocco vitale, il linguaggio poetico, o in generale, la parola, rappresenta per Sbarbaro l’unica felicità, come mostra un testo presente in Versi a Dina:

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada; ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel po’ d’oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.

A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non l’acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere sia tolta
prima la vita di quel solo bene.

«Non abbiamo | altra felicità che di parole». La contraddizione è evidente. Ma se di solito le ambiguità e le contraddizioni in Sbarbaro non sono mai risolte, qui forse si arriva ad un compromesso. Da un lato la parola può soltanto registrare l’aspetto tautologico del mondo, senza dare significati, ed è anche ciò che non permette al poeta di vivere autenticamente perché erge un muro tra lui e la vita stessa, un muro di parole; dall’altro la parola, la scrittura, diventa necessaria a Sbarbaro, nonostante la letteratura sia per lui un’attività disinteressata, compiuta in disparte, e in particolare la poesia rappresenti «un intermezzo, un episodio» in attesa di approdare alla «terraferma», alla prosa[6]. Tuttavia, di fronte alla contraddizione, stavolta Sbarbaro arriva a un compromesso. Il poeta sa che la parola è inadeguata a rappresentare il vero, ma sa anche che questa inadeguatezza deriva dall’insufficienza dell’io di fronte al manifestarsi della verità, per questo, tra silenzio e parola che rispecchia il suo essere insufficiente, il suo essere uomo, Sbarbaro non decide di imboccare la prima strada, quella del silenzio poetico, ma arriva ad un compromesso: sceglie una parola che stia a metà tra il silenzio e la propria voce, una parola che porta «le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria», come già notava Montale[7], una parola pronunciata «a fior di labbro»[8], «sottovoce», «pianissimo».

A un certo punto, tuttavia, questa parola azzerata non è più sufficiente. Si tratta di una soluzione temporanea, di cui Sbarbaro è ben consapevole già durante la composizione delle liriche di Pianissimo, come si evince dalla dichiarazione da cui siamo partiti. L’approdo alla prosa è la logica conseguenza di quel tentativo rappresentato da Pianissimo, l’esito naturale di una parola pronunciata «sottovoce»: esso diventa necessario allorché Sbarbaro si rende conto che «dire io» non può che risolversi in un dire «pianissimo» proprio a causa dell’inconsistenza di quell’io. La scelta della prosa, del frammento, fino ad arrivare all’aforisma, è inevitabile in quanto unica forma espressiva disponibile di fronte alla crisi di un soggetto che non riesce più ad essere centro unificante di un Erlebnis e termine di verifica della propria esistenza. Di fronte alla disgregazione di un mondo reificato, privo di valore universale, Sbarbaro non può che raccontare la realtà, a sua volta disgregata, della propria esistenza, ma soltanto il silenzio della prosa, e non la voce della poesia o il compromesso di una parola pronunciata «pianissimo», è in grado di sorreggere la conclusione a cui l’uomo, e non lo scrittore, è arrivato, quella di esser divenuto egli stesso una cosa, un oggetto del mondo, un frammento.


[1] Per Pianissimo, l’edizione di riferimento, da cui provengono le citazioni, è quella curata da L. Polato, che riporta la redazione originaria del 1914, C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio, 2001; per le altre opere sbarbariane ci siamo attenuti a L’opera in versi e in prosa, cit.

[2] Cfr. anche I, 8, vv. 1-3: «Ora che non mi dici niente, ora | che non mi fai godere né soffrire | tu sei la consueta dei miei giorni».

[3] E. Falcomer, Soggetto e natura in Camillo Sbarbaro, in «Studi novecenteschi», a. XIII, n. 32, dicembre 1986, p. 208.

[4] Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, cit., p. 133.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. ivi, p. 473.

[7] E. Montale, recensione a Trucioli, in «L’Azione», 10 novembre 1920, in Id., prefazione a C. Sbarbaro, Poesia e Prosa, a cura di V. Scheiwiller, Milano, Mondadori, 1979, p. XI.

[8] «[…] una notte che coi sensi giacevo a letto “lungo disteso come in una bara”, mi venne da sé alle labbra la constatazione: Taci, anima stanca di godere e di soffrire… Prendevo coscienza di me; nasceva il mio secondo libretto di versi: una specie di sconsolata confessione fatta a fior di labbro a me stesso». Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, cit., pp. 472-473.

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