[Il 13 gennaio è uscito Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie? (Industria & Letteratura) di Roberto Cescon. Ne pubblichiamo un estratto: un’interpretazione di una poesia di Mario Benedetti]
[Il 13 gennaio è uscito Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie? (Industria & Letteratura) di Roberto Cescon. Ne pubblichiamo un estratto: un’interpretazione di una poesia di Mario Benedetti]
QUANTO SIAMO STATI CON LE FOGLIE.
UN ESEMPIO DI INTERPRETAZIONE MENTRE ACCADE
In quello che segue ho cercato di realizzare quanto detto sinora sull’interpretazione come fenomeno che accade nell’incontro tra le forme del testo poetico e l’attesa del senso che genera una tensione tra il divenire (del senso) fuori e dentro di noi. La poesia interpretata è «Quanto siamo stati con le foglie che vanno via dai rami» di Mario Benedetti:
- Quanto siamo stati con le foglie che vanno via dai rami.
- Sono state le musiche dolci dove dirsi di morire.
- Hanno portato tanti libri
- gli uomini a tornare tra pochi fanali, i tram, le ciminiere.
- Mi sarebbe piaciuto passeggiare con un bastone tra le foglie che cadono,
- avere un cancello da aprire,
- e per Catine sapere cos’era portarci la polenta
- con parte del giallo pieno della bicicletta di Giovanni da portare dentro.
- Pioverebbe, sarebbe novembre.
- Siamo stati così tanto insieme ognuno di noi con le cose.
- Sai, a volte cerco di vederti, che cos’è lavorare, avere dei muri tuoi.
- Tornare di sera era sempre una forza sui pedali,
- gambe sulle quali si metteva un panno, muscoli
- con un panno grigio con la piega. Svelto e birichino, aria, aria di festa,
- appoggiavi il giorno intero, dove tanto ti ho vegliato, a quel muro.
10 + 7 | Quanto siamo stati con le foglie che vanno via dai rami. |
1a – 3 a – 5 a – – – 9 a – | – 12 a – 14 a – 16 a – | |
1 a – 3 a – 5 a – – – 9 a – | – 2 a – 4 a – 6 a – | |
10 + 8 | Sono state le musiche dolci dove dirsi di morire. |
1 a – 3 a – 6 a – – – 9 a – | – 11 a – 13 a – – – 17 a – 1 a – 3 a – 6 a – – – 9 a – | – 1 a – 3 a – – – 7 a – | |
9 | Hanno portato tanti libri, |
1 a – – 4 a – 6 a – 8 a – | |
7 + 6 +7 | Gli uomini a tornare tra pochi fanali, i tram, le ciminiere. |
– 2 a – – – 6 a – – 9 a – – 12 a – 14 a – – – 18 a – – 2 a – – – 6 a – | – 2 a – – 5 a – | – 2 a – – – 6 a – |
È avvolgente e indefinito l’attacco di questa poesia, tra le più significative di Benedetti, già presente in Una terra che non sembra vera (Udine, Campanotto Editore, 1997) prima di confluire in Umana gloria (Milano, Mondadori), il libro che nel 2004 lo ha consacrato come una delle voci più importanti dello scenario contemporaneo. L’avverbio «quanto» ci immette in una tonalità sospesa, visto il suo solito introdurre, a inizio di frase, una domanda o un’esclamazione. Inoltre, seguito dal verbo «siamo stati», esso innesca quello che potrebbe essere il brano di una conversazione: «male» o «bene» le valenze più probabili per riempire il periodo. Invece è «con le foglie» a insinuare qualcosa di inatteso, costringendoci a rallentare e a volgere indietro lo sguardo, perché «quanto siamo stati con le foglie» fa vacillare il senso che avevamo attribuito al verbo e all’avverbio. Infatti il verbo essere qui non descrive una qualità o una condizione, ma rimanda solo a sé, affermando l’esserci, l’atto di esistere. «Siamo stati» rivendica il valore assoluto dell’«esserci stati», se non fosse che quel «quanto» sfrangia i contorni di tale condizione, perché non sappiamo quanto. Si fa largo la sensazione di essere sul punto di entrare in un’altra dimensione. Siamo spaesati, sentiamo che qualcosa manca, ma non riusciamo a metterlo a fuoco. Abbiamo anche avvertito un cambio di ritmo, perché «con le foglie» ha anche posto fine all’attacco trocaico (+ − + − + −), spostando la battuta in un piede anapestico, più disteso, sebbene la voce sia portata a posarsi con intensità anche sulla preposizione «con», dilatando la scansione trocaica lungo tutto questo sospeso decasillabo: l’incedere dei trochei, scandito da tre bisillabi, aveva colto uno stato assoluto della mente, disperso poi in altre direzioni, come le foglie. Noi «siamo stati con le foglie», eravamo là con le foglie: vediamo un fuori, entriamo in un passato dove siamo stati davvero noi.
Tuttavia le foglie, che hanno dato senso al nostro esistere, «vanno via dai rami», un’espressione propria di un bambino. È un’immagine antica quella dello staccarsi delle foglie dal ramo, legata al finire dell’estate, all’annuncio dell’inverno e alla precarietà della vita particolare dell’uomo. Essa sovrappone l’indefinita pienezza del nostro esserci al finire delle foglie, il cui movimento è segnato dall’allargarsi del ritmo in un settenario dall’andamento giambico, con gli accenti in caduta su «vanno − via − rami».
Un punto fermo chiude questo alternarsi di trochei e giambi, nel tentativo di definire questa condizione cognitiva più che di raccontare una scena, in quanto l’intera immagine di questo lungo verso, con il rilievo dato all’«essere stati», contrapposto al movimento delle foglie instabili, resta sospesa tra pienezza (l’esserci) e mancanza (le foglie). Il nostro appartenerci si è rivelato nel mancare delle foglie, quando si è staccato da noi, ma non sono l’angoscia o lo sgomento a segnare questa condizione, perché insieme al lessico povero ci è arrivata una morbida melodia di allitterazioni, di cui solo dopo capiamo il peso: nel ripetersi di /s/ («siamo stati»), /c/ («con le foglie che») e /v/ («vanno via») − sempre nel punto di battuta dei piedi − si propaga qualcosa che non è ancora detto e che ci porta in avanti, così come la tonicità delle /a/ racchiude alle frontiere del verso lo stupore sfuggente di quella delle /o/. È il suo non dirsi a definirlo? Perché, inoltre, allungare così un verso per poi scomporlo, inseguendo un andamento ritmico più che altre misure riconoscibili[1]? Ci saremmo aspettati una domanda, invece il punto la evoca e la posa, insieme a noi, in uno spazio scontornato, innestando altre domande. In ogni caso la sensazione di «quanto siamo stati» pone subito in rilievo che la voce si percepisce plurale, ovvero almeno un’altra figura si accampa nella scena della mente.
Nel secondo verso sentiamo che manca qualcosa: le musiche dolci sono state a fare cosa? Sono state dove eravamo prima, con le foglie che vanno via dai rami? Sembra invece che il verbo essere, dopo aver suggerito altre possibilità, ritorni di nuovo al suo senso assoluto, dando riscontro a quello incontrato prima: le mu- siche dolci «sono state», cioè sono già entrate nella memoria o sono altre musiche o ancora sono le parole scambiate o il cadere delle foglie? Quei suoni percorrono il solco dell’indefinitezza e sono seguite sì da un «dove», ma non c’è luogo, bensì una sensazione − «dove dirsi di morire» − che ha più a che fare con la vita, la cui vastità ci è sembrato di toccare in un particolare momento del vissuto. Il noi intravisto è qui sommerso dalle musiche e da un verbo impersonale. Siamo di nuovo in un luogo sospeso, avvolti ancora dal ritmo del secondo verso, lungo una sillaba più del primo e anche qui spartito tra un decasillabo e un ottonario, che iniziano entrambi con un doppio trocheo, sempre a fissare la con- dizione evocata; poi nel primo due anfibrachi ritmano le musiche, mentre nel secondo l’andamento anapestico le disperde, come la morte e le foglie. Ci avvolge ancora il propagarsi di /s/ («sono state»), /d/ («dolci dove dirsi di morire») e una tonicità che si apre dalla /o/ alla /a/; quest’ultima scorre insieme all’allitterazione di /r/ («dirsi» − «morire»), come se il rilievo assunto dalla dolcezza dei suoni fosse poi esposto a una certa distanza, che il punto prova a sigillare. Segue un novenario, uno dei pochi versi così «brevi» nella poesia, con accenti di quarta e, soprattutto, sesta, i quali cadono su due decisi piedi trocaici in corrispondenza di /t/ allitteranti, che il propagarsi della nasale di /n/ attutisce. Il verso è introdotto da un verbo insaturo, il quale ci disorienta, poiché continuiamo a non vedere il soggetto, ancora una volta cambia- to: chi ha portato i libri? In quale punto del tempo ci troviamo? Siamo sempre in quel passato assoluto o forse questa è una voce che ora sta guardando l’accadere di una scena nella mente? I libri sono «tanti», una quantità indefinita, come il «quanto» di prima, e l’immagine dei libri portati questa volta non si chiude con un punto, bensì con una virgola, forse perché i libri − ci accorgiamo subito dopo − segnano il tempo trascorso ad attendere gli uomini che tornano non sappiamo da dove.
Nel quarto verso prevalgono quattro anfibrachi, chiusi da un dattilo e un anapesto (anche se l’accento secondario di «ciminiere» insinua un ritmo giambico), in corrispondenza di due parole dai suoni simili: «uomini», infatti, si richiama, in una sorta di rima inclusiva, a «ciminiere». Siamo portati a scandire il verso in un tredecasillabo e un settenario, divisi da una forte cesura (che crea dialefe tra «fanali» e «i»), la prima delle due che incontriamo nell’elenco; nel rallentamento sia del ritorno sia del tricolon siamo però portati a sentire anche un settenario, un senario e un settenario. In ogni caso nel verso sembra esserci una forte pausa, agglutinata dal materiale fonico allitterante lungo tutto il verso, in questo senso esemplare, in quanto, oltre a /t/ e /n/, si notano l’iterazione di /m/ e l’omoteleuto «-re», distribuiti ai capi del verso.
Possiamo anche allargare lo sguardo a tutta la strofa per notare gli accordi fonici che la attraversano, richiamandosi a distanza: a parte l’allitterazione quasi speculare di /s/ (vv. 1-2), vediamo quella delle nasali (in particolare «rami» − «tram», che amplificando la risonanza tra «uomini» e «ciminiere») e la vicinanza similare tra «po» e «li» («portato» − «libri» − «pochi fanali») e le /a/ toniche preponderanti.
Così la prima strofa ci lascia in un’indecisione ritmica alleviata da una melodia morbida, che emerge come sfondo di un tessuto lessicale semplice. Non c’è un verbo reggente, le cose evocate hanno a che fare con il mondo degli adulti e del lavoro, all’interno di uno scenario urbano: gli uomini che tornano a casa, la fabbrica, i tram, in uno degli elenchi tipici del modo di procedere della paratassi di Benedetti, dove tutto si mantiene sullo stesso piano, senza alcuna gerarchia, né nelle immagini né nel tempo. Non sappiamo nemmeno se queste immagini si trovano nei libri portati o sono reali. Sappiamo solo che sono tenute insieme dalla mente, la quale in questa prima strofa ci sospinge in un passato assoluto e indefinito. È però molto probabile che si alluda al ritorno da una città lontana. Se c’è un ritorno, forse ci sarà un’attesa.
[1] Lasciando peraltro ambiguità nella scansione, che noi sentiamo così, ma, volendo dare più rilievo all’attacco trocaico, il verso può essere scomposto anche in un senario e in un endecasillabo dall’andamento anapestico e giambico.
Immagine di copertina: Francesca Baldi