Pietro Cardelli – Costellazione

Z. è il Superio, opprimente e morboso, è una malattia interiore, fedele e indistruttibile. Lo zio è l’alter ego, distante e distaccato, ma buono. L’ospite è la questione irrisolta, il mito fondativo: esige risposte, giustificazioni e domande. C’è la storia personale e c’è la storia collettiva, intrecciate e irrisolte. Ritornano. Poi si mette un punto – ma prima si fanno i conti. La pornografia è il sollievo, come i giochi per bambini: anche lei ha una forma. La storia personale è l’Appennino. La storia collettiva è lo spazio occupato e in disuso, i quotidiani e i telegiornali, il colore e la posizione delle bandiere.


I

È sempre difficile trovare parcheggio in queste strade. Gli spazi sono quello che sono, e l’auto è sempre troppo lunga, troppo a punta. Serve pazienza, colpo d’occhio, furbizia. Gli altri sono sempre più veloci e più violenti di te; non hanno bisogno di respirare. Apri gli occhi – eccolo, balugina fra una Mazda e una Volkswagen. Quello è il tuo posto.

Quando hanno organizzato l’evento cercavano un po’ di attenzione, poi si sono pentiti e hanno avuto paura: erano dei bambini cresciuti male, erano adolescenti in corpi di adulti, erano scontenti.

Si sono trovati prima del solito, diciamo alle tre se la presentazione era alle cinque. Divisi i compiti, hanno avuto il tempo di fumare una sigaretta, parlare di sciocchezze, arrabbiarsi. Quel pomeriggio erano in orario; nel piazzale le auto avevano assunto posizioni asimmetriche. Fuori splendeva il sole.

Le sedie dall’alto in basso, verticali e poi orizzontali; il tavolo e le puntine colorate, attaccate con precisione al volantino. Le bandiere alle spalle della voce; la voce che ancora non arriva, che si attende, che tutti attendono con ansia irriflessa. C’è chi si morde le unghie e chi parla sopra agli altri. C’è una narrazione.

Z. mi ha scritto messaggi anni dopo, voleva costringermi a ricordare quella giornata, imprimerla nella mente. Io ero fra loro, ma ero anche distante. Avevo bisogno di qualcuno che mi avvertisse. Imploro.

Le meningi, l’aracnoide, i dendriti sanno di cenere; il cranio sprofonda sotto la conta: “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. La velocità di trasmissione degli assoni è di centoventi metri al secondo, quattrocentotrentadue chilometri orari. L’elettricità mi comprime, mi rende asettico e nervoso.

La camera è una stanza sottoterra dove gli armadi contengono armi.
I garage sono carichi e fedeli. L’istinto è un sotterfugio della mente. I ragazzi amano fare la guerra.

Mi sono sentito in colpa e ho usato la violenza come controffensiva. Le ho risposto di andare a fare in culo, di non parlarmi in quel modo. Lei mi ha chiesto di non incazzarmi, di essere gentile. Z. respira affannata mentre scrive i messaggi sulla chat; forse piange ma io non la posso vedere.

Ci sono relazioni che provocano danni sottili e continui nel tempo: piccole metastasi che si allargano, una bolla forse, qualcosa di piccolo e infinitesimale, poi indecifrabile, immerso, indistruttibile. Perforano l’organismo, ci si attaccano fino a ustionare la pelle, aprono ulcere e ferite, ma lentamente, senza farsi sentire, fra silenzio e silenzio. Il dolore è una condizione latente, un limbo, una sospensione, un liquido che si disperde e che non dà segnali.

Il dolore, dicevo, arriva sempre troppo tardi; quando lo fa, non c’è più tempo.

Al di là della finestra le auto passavano a intervalli di pochi secondi, file irregolari, non controllabili. L’ansia segue il ritmo delle auto; percepisco la distanza dagli altri come una parete trasparente: li vedo che mi guardano e che a volte chiedono aiuto. È un problema di forma e di posizione, di prospettiva. Questa mi sembra già una risposta.

Sotto il mio appartamento abitano tre ragazzi e ognuno ha la sua dipendenza: il primo amplifica i rumori, sanguina dai timpani, dorme con i tappi da piscina nelle orecchie; il secondo soffre di attacchi di panico, ipocondria, malessere, trascorre le notti in salotto macchiando i pantaloni; l’ultimo si alza prestissimo la mattina, sbatte la porta con rabbia se, di punto in bianco, decide di uscire.

Quando la casa è vuota, facile o difficile non sono categorie adatte alla scrittura. Il computer si accende per un segno del destino.

*

II

Una stanza che non è un salotto né una cucina, una televisione pesante – il tubo catodico, la vibrazione impercettibile, i pulviscoli che vorticano nell’aria – le poltrone ammuffite. La donna lava i piatti e li lascia sulla tavola ad asciugare.

Il pomeriggio è costituito da lunghe attese, modi di ingannare il tempo, riviste vecchie di una settimana o due, polverose. I cugini arrivano sempre troppo tardi: quando è l’ora di partire ci si limita a un saluto distratto, disperato: sai sempre che arriveranno, sai che non avrà utilità.

Dalla stanza pochi scalini portano a una soffitta, e da questa a una porta che non è mai stata aperta. Lo zio ha la chiave, l’oggetto segreto. Nessuno sa dove lo nasconda.

Ho vari giochi per il mio pomeriggio: alcuni sono moderni, regali d’infanzia: il Nintendo64, Super Mario che salta e si capovolge, i cannoni a forma di squalo; altri me li sono costruiti – lo zio mi ha insegnato come fare.

L’assetto è una lunga tavola in legno mangiata dai tarli, dagli anni, dalle suture di coltelli e macchine per tirare la pasta. La tovaglia ha una superficie più ampia di quella del tavolo; gli orli calano a ogni estremità; creano una sorta di mantello o di tipì indiano. Qui mi immagino al sicuro; non mi vedono e non mi sentono.

La credenza è fatta di un legno buono e antico. 

I norcini, quando uccidono un maiale, provano dolore.

Il primogenito deve assistere imperterrito se vuole diventare come loro.

Ogni domenica ci hanno provato a portarmi fuori. La strada era in salita e dovevamo andare a piedi – cinquanta minuti, un’ora, un’ora e mezza – sempre dopo pranzo – “per digerire” mi dicevano – e sempre fino in fondo, al fiume, anche se di acqua ce n’era sempre meno, e anche di ghiaia, e spuntavano i sassi, ma almeno non arrivava il cemento come sul resto delle colline – e io ci andavo a volte (spesso no, resistevo) e tenevo il broncio per tutto il viaggio o quasi. L’unica cosa che mi dava sollievo era se partivano discorsi seri e importanti. Lì mi sentivo al sicuro.

I cimiteri appenninici sono così piccoli che non capisci dove mettano la gente. L’acqua era gelida in ogni periodo dell’anno e il fiume resisteva in qualche modo. Forse è qui che vanno le persone, forse è questo di cui parlano i parenti…

A Ca’ di Guzzo, molti anni fa, è successo qualcosa di terribile.

Non so se riesco a capirlo.

*

III

Nella scuola occupata hanno organizzato un incontro; non pensavano avrebbe avuto risvolti reali. Era un modo per alzare la voce, per riconoscersi.

Il sole è alto; le sedie sono al loro posto. Quando l’ospite è arrivato, i ragazzi lo hanno accolto come un eroe o una divinità. L’ospite è una donna sulla sessantina; porta i segni di chi un tempo è stato molto bello e ha avuto molti corteggiatori; si muove con eleganza e portamento. Fuma una sigaretta. Le hanno mostrato le bandiere attaccate alla parete – lei ha annuito –, il microfono dal quale dovrà parlare.

Libri da vendere, battute di cattivo gusto, sputi; i ragazzi prevedono i titoli dei giornali la mattina seguente. Non sanno o non capiscono cosa sta per accadere.

La pornografia mi salva dalla scrittura, rilassa i nervi, mette fame.

Quando si occupa una struttura, un ex ospedale psichiatrico, una scuola in disuso, un circolo abbandonato, ci si dà appuntamento con un biglietto di carta scritto e diffuso da colui che ha scelto il giorno e l’ora della sortita. Una persona decide, da sola, e i compagni, qualsiasi cosa stiano facendo, la cessano, e veloci si recano all’occupazione. Se più di una persona lo sapesse, se il giorno e l’ora venissero decisi in assemblea, su Whatsapp o in qualsiasi forma collettiva, gli sbirri arriverebbero prima dei compagni e li arresterebbero uno dopo l’altro. Lo sappiamo perché l’abbiamo vissuto.

Z., se ascolta questi discorsi, si rinchiude in se stessa e si mette a piangere; prende la chiave di camera e gira la serratura fino quasi a spezzarla. Ripensa agli anni in cui ha sentito frasi del genere, a quando le posizioni sono diventate di nuovo un problema, a quando si è dovuto imparare a giustificarsi. Z. ha paura della morte degli altri, o meglio, ha paura di soffrire di nuovo. Teme per la famiglia.

I signori di una certa età ci guardano con un’aria mista di compianto e di disprezzo. Noi preferiamo il disprezzo, così possiamo identificarli come nemici. Identificare è un verbo che conforta. Nemici è una bella parola.

Strappo i fogli dello scottex a due a due. Senza un tale spessore, lo sperma, bagnando la carta, colerebbe a terra, disperso fra le mattonelle e la parete, e sarebbe difficile poi individuarlo se la luce è sbagliata o si perde l’angolo di osservazione, e allora toccherebbe prendere un cellulare, accendere la torcia, e setacciare il terreno per ore se non si vuole essere smascherati. Sarebbe una fatica degna forse, ma mi sentirei umiliato: possono sempre aprire la porta.

Le bandiere appese alla parete – dietro al tavolo, sopra la voce – sono una dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’altra della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Portano due scritte in cirillico ai lati del rettangolo: omaggi a Lenin e a Tito.

Z. parla di una badante che ha conosciuto da qualche mese e che rimpiange i vecchi tempi; ora pulisce il culo di una donna di novantacinque anni e prende gli ordini da un uomo di cinquantasette. La badante ha i capelli tinti di biondo; è una donna tutta d’un pezzo. Dice di conoscere molte lingue e di aver ottenuto una casa e un lavoro per il figlio al suo diciottesimo compleanno. Z. non sa cosa pensare. Si sente di controbattere, ma non ne ha la forza; forse non lo vuole davvero.

L’intervento dell’ospite si fa attendere. Intanto sui social i primi post: qualche immagine sfocata, un commento di un militante scritto con distrazione, i likes che si sommano e si inerpicano uno sull’altro. Quando arrivano i primi articoli sui giornali locali, sogghignano sotto i baffi. Lo schermo del cellulare emana una luce fortissima. Vogliono essere visti, eppure hanno paura.

Nella storia dell’ospite ci sono nove omicidi, un ergastolo e tante ombre pesanti.

Solo gli stupidi chiedono scusa.

“L’articolo 21, del resto, parla chiaro: concede di passare un giorno fuori dal carcere quando si è espiato un terzo della pena. E dieci anni sono un terzo dei trenta calcolati. Lei che lavora in un asilo, lui che finisce per innamorarsi”. Z. urla nella notte, ma non riesce a non sentire.

Ci sono molti nemici, e infiltrati anche.

Ci siamo detti che non dovevamo fidarci di nessuno.

Z. mi perdonerà.

*

IV

Ti ho vista appesa a un filo, poi sdraiata ma immobile, quasi legata alla rete del letto: i cavi che si impigliano, precipitano, cambiano di peso. Avere paura di entrare; ripromettersi di farlo più tardi: la prossima volta.

Le mattonelle in cotto si sporcano subito, tocca spazzarle di continuo, e anche lavarle se non si vuole che le macchie inondino la casa. Sono dettagli importanti. Dovremmo fare una lista, un programma: distinguere i giorni di lavoro da quelli di riposo. Anche qui ci sono i padroni, anche qui ci sono doveri.

La casa è mutata rapidamente: non saprei dire con esattezza cosa c’era là dove ora vedo la piscina, oppure quaggiù, in queste stanze così ben arredate, scaldate da un fuoco sintetico. A volte, nei sogni, tutto è chiarissimo: ci sono le grandi botti, il vino che fermenta e si annuncia; ci sono le riviste, mucchi ordinati, segnati con un pennarello rosso; ci sono le galline anche – ora che non si nascondono e non hanno più paura delle volpi. Se gli spazi si accavallano e rivelano un conflitto, allora anche qui dovremmo alzarci, impedire…

Se c’è una cosa rimasta identica sono le scale: hanno tagli dove prima vedevo tagli, polvere intatta ai bordi, pietre di fiume nella struttura. Dalle scale, in alto, si vedono prima i campi, poi le colline – a volte, d’estate, anche di notte, le mucche al pascolo – e infine, sulla cresta, le pale eoliche: l’Appennino.

Nella tua stanza ho visto una processione, le donne entrare e uscire parlando lingue diverse e incomprensibili, non capirsi l’una con l’altra, avere strani disegni sulle mani. Ho visto ognuna di queste donne stare al telefono per ore, attaccate alla cornetta, come fossero legate da uno scotch potentissimo: le orecchie diventare di plastica, il corpo farsi oggetto.

Tu stavi sempre nell’altra stanza, rendevi impercettibile la morte, eri il continuum, l’ad libitum, il labor limae.

Per anni ho pensato alla tua storia come alla storia di tutti: questo è il calore di cui abbiamo bisogno – mi sono detto – questo è il fiume. Noi costruiamo la zattera e alziamo l’albero maestro: dirigerlo è abbastanza, è qualcosa.

…e invece eccoti che scompari da un giorno all’altro, come tutti, senza dire niente. Lasci cenere alle pareti e nessun segno a cui aggrapparsi.

Ma forse non eri ciò che dico, non è il fiume che conta.

Se penso a te vedo i neuroni farsi messaggio, gli assoni trovare forme nuove e veloci, schizzare nell’etere, luminosissimi, fino a farsi linea, gesto, direzione.

La voce è un nodo di Ranvier tra salto e salto,
è suono e costruzione:
da un lato ci sei tu, che la indichi
libera nel tuo letto di spine,
e dall’altro io, vivo.

*

V

Anni dopo abbiamo ricostruito l’antefatto.

Z. era disperata. Ha effettuato tutti i controlli possibili, quelli a cui aveva accesso. Forse si è consigliata con altre persone, amici di vecchia data; forse ha chiesto aiuto. Poi ha capito.

Il messaggio seguente è stato un impeto di affetto (con tutte le implicazioni del caso).

L’ospite se ne è andata piangendo; poco prima – in un moto di rabbia – aveva rovesciato tavolo e microfono: il suo anacronismo richiedeva un gesto disperato. Forse anche lei ha capito, lei che esisteva. Si è fermata un attimo davanti allo sportello dell’auto – ormai fuori pioveva – e ha contato le cicatrici sul viso. Ha tastato con l’indice e il medio i punti di sutura sul collo. Ne ha sentito tutta la realtà.

La macchina è partita sgasando; ha lasciato un solco nella ghiaia, l’impronta delle gomme sul brecciolino. I ragazzi l’hanno osservata da dietro la porta di vetro; hanno fumato una sigaretta. Si sono sentiti ridicoli lì in piedi, al riparo. Hanno pronunciato parole prive di senso compiuto.

Le bandiere sono sempre lì. Ci sono come ci sono le scritte. Ma bruciarle non è abbastanza, e neppure appenderle o rimuoverle avrebbe senso. Serve qualcosa di diverso, di superiore e di inferiore insieme, uno scarto: la nuova vista.

I giornali il giorno dopo li ho visti dal futuro; sono scivolati via come niente; il fiume li ha portati fino a valle. Nell’acqua si sono decomposti, e le voci – anche le più ruggenti e solitarie – si sono infrante fra rami e scoli e macchie di tetano: la ruggine ne ha eroso le forme e sono diventati grida di bambini, riso, vacuità.

Lo scottex ora resiste anche se uso un foglio soltanto. Lo scottex ora non serve. Siamo nudi e felici.

Vedo l’albero riempirsi di mele rosse e gravide, vedo l’uomo che mi parla cambiare posizione lentamente. La voce è suono e atto insieme, è luce, costruisce figure solo muovendo le labbra, e l’aria che passa è già vita, è immagine. Ci capiamo davvero, dico, ripeto, lui risponde sorridendo. Il luogo non è importante, neppure il tempo è importante: ciò che conta è nelle cose e adesso ci parla. Il cielo è verticale: ha un solo colore e nessuna macchia. Ci guarda come noi guardiamo lui.

La costellazione è davanti alla mente, è negli occhi e nelle Storia, è un centauro.

Ho visto le lucciole
in un’estate che si ripete
creare forme e disegni nell’aria,
darsi un’origine chiara.

Scivolavano via, erano segni nel tempo a venire, costruzioni perfette, una strada.

Ora possiamo iniziare.

*


Per scaricare gli inediti in PDF: Pietro Cardelli, Costellazione

Immagine: Giulia Modi

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