di Marco Malvestio
|
Esercizi di vita pratica è una nuova dimostrazione del talento di scrittrice di Gilda Policastro. Con questo libro, che continua e sviluppa temi e stile del precedente, notevole, Inattuali (Transeuropa, 2016), la Policastro inaugura una nuova collana, dedicata ai prosimetri, della casa editrice Prufrock Spa.
Prufrock Spa si conferma una delle realtà più interessanti dell’editoria indipendente italiana, arricchendo di una scrittrice importante un catalogo che può contare già alcune delle voci poetiche più significative e rigorose della mia generazione, come Daniele Bellomi, Roberta Durante, Lorenzo Mari, Manuel Micaletto. Quello che distingue Prufrock da diverse altre case editrici di settore è la cura dei dettagli dei singoli volumi, e alla coerenza complessiva del catalogo: Luca Rizzatello presta infatti attenzione a presentare libri che non siano semplici raccolte di testi, bensì oggetti esteticamente pregni, dalla copertina, al carattere, all’impaginazione, fino alla promozione dei libro nella forma di booktrailer e sonorizzazioni, a cui viene dedicata particolare cura affinché non siano semplice marketing, ma arricchiscano il significato del volume stesso. Il catalogo che Rizzatello ha messo insieme, allo stesso modo, è piuttosto diverso da quelli di tanta editoria di settore, ottenuti cucendo insieme esordienti precoci e pezzi di cadaveri (questa o quella traduzione di testi senza diritti, gli scartafacci di qualche maestro minore), ma è caratterizzato, oltre che dalla peculiare coerenza estetica data dal formato quadrato dei volumi e dall’uniformità delle copertine di Roberta Durante, da un’attenzione costante alla ricerca stilistica e dal rifiuto di banalità, sciatterie e poetismi.
Questo, naturalmente, vale anche per Esercizi di vita pratica. Il libro, che ha le dimensioni della plaquette (poco meno di sessanta pagine di testo, di cui venti, che compongono la sezione Nuove inattuali, occupate da una singola frase), si compone di poesie (la prima parte e la coda) e prose (la terza). In questi testi rimangono utili le osservazioni di Roberto Batisti su Inattuali: si tratta, di nuovo, di una polifonia di secondo grado, in cui alla voce dell’io autoriale si sovrappongono (ma, come nota sempre Roberto, orchestrate e distorte) voci del parlato quotidiano. Come scriveva la Policastro nella postfazione a Inattuali (p. 40): “Annoto perciò le frasi che orecchio ai tavolini del bar vicino casa come sull’autobus o sui treni. Annoto quando c’è da annotare, cioè quando qualcosa dal rumore di fondo, dal chiacchiericcio quotidiano e volgare si pone in evidenza per originalità o straniamento; di solito è qualcosa che somiglia alla massima di buon senso ma che in realtà ne rovescia l’attendibilità e l’unanimità”. Questo procedimento pare conservarsi intatto anche in Esercizi di vita pratica.
L’effetto di straniamento che comporta questo accumulo, in cui la materia del parlato, come un fiume fangoso, viene sottilmente deviata verso la dimostrazione della sua stessa inconsistenza, salta particolarmente all’occhio nella sezione Nuove inattuali – che però, invece di essere composta dalle lunghe poesie (dalle satire) di Inattuali, si compone di una frase sola per pagina. Sono frasi che paiono origliate a conversazioni altrui (“No, non mi piace. Zero, te lo direi. Sai chi s’è fatta carina? Giulia”), a situazioni ordinarie (come la messa a p. 27), ai media digitali (“Le sei macchine più rubate in Italia”), ma che altre volte sembrano dette da personaggi che guardano vacuamente in camera, o da figure più eccentriche (la dominatrice a p. 36). Questi lacerti di discorso sono accomunati per giustapposizione, e formano una cacofonia inquietante della contemporaneità, appiattita su bisogni immediati (“Di sicuro ci divertiremo: quello sempre”) e, pur attraversata da fugaci riferimenti alla morte e al male (come gli esorcisti da benedire della messa, o la morte degli animali domestici), priva di sguardo critico su se stessa e su un esistere che la Policastro dipinge come completa immanenza (“Del futuro, io in quanto me, penso che non si deve avere paura”).
Opposti a questa collezione di voci, si ritrovano, nelle poesie e nelle prose, alcuni dei temi tipici della Policastro poetessa e scrittrice, come il lavoro, o meglio la sua assenza, e il corpo, che stava al centro di Cella. Il lavoro è quello intellettuale, variamente umiliato (in Habitus, “e mnestico, con l’aporia, no, non si può dire in un giornale!”, nel grottesco elenco di vantaggi della disoccupazione di Lavoro, o in Antifrasi: “dubito sia spendibile/ in sede letteraria:/ e comunque, dopo quel commento,/ scordati la carriera universitaria!”) , mentre la riflessione sul corpo è una forma di meditatio mortis, nella sua insistenza sull’ospedalizzazione, sulla malattia, e sul rapporto tra la decadenza fisica e il sesso, come in Effluvium:
Comincia dal diradamento, la desertificazione o discesa,
passa al distacco della retina, procedi verso l’occlusione delle coronarie,
non dimenticarti dell’ictus, una tac al surrene, per sicurezza
una mammografia, dopo i quaranta, e a conferma della diagnosi
l’ecg insieme ai test prostatici, se maschio
l’hpv riguarda il 70% della popolazione sessualmente attiva.
Ancora, nei versi della Policastro il corpo è ridotto a oggetto inanimato, a marionetta che compie una serie di compiti elementari, come nella notevolissima prosa di p. 14, corredata non a caso di una foto dell’autrice stessa, di schiena, scattata da Sabrina Ragucci.
La parte più notevole della plaquette sono probabilmente le prose della terza parte, dei brevi e sincopati monologhi in cui l’io parlante non raccoglie più le voci che lo circondano, ma pare averle interiorizzate in maniera schizofrenica, come in quello su un fantomatico Nanni (in cui l’insistenza sul nome proprio ricorda certi monologhi di Antonio Rezza), che diventa protagonista vuoto di una lunga serie di frasi idiomatiche e di luoghi comuni. Nella prosa successiva, invece, il nome ricorrente è quello di Albinea, che viene presentato come toponimo identitario della poesia di ricerca italiana ma che, continuamente cantilenato, si svuota di significato:
Ad Albinea c’erano i poeti della ricerca, la ricerca si faceva solo ad Albinea. C’era anche altri posti dove fare la poesia, ma la ricerca no: quella solo ad Albinea. Quando volevano sapere che poeta eri non ti chiedevano come scrivi, di cosa, ma sei stato ad Albinea, era quella, la domanda importante, Albinea. Alzi la mano chi viene da Albinea, e allora tu sapevi che era dalla ricerca che veniva, quello che alzava la mano. Chi non poteva alzarla capivi che non c’era stato, e allora no, niente ricerca se non veniva da Albinea.
In entrambi questi procedimenti, l’accumulo parossistico di frasi del parlato, insieme alla ripetizione ossessiva dello stesso nome, concorre a evidenziarne la mancanza di significato, e allo stesso tempo a generare un senso di inquietudine, suggerendo una dimensione puramente meccanica e vuota di volontà delle azioni e del linguaggio degli uomini.
Il particolare processo compositivo della Policastro, in cui sono evidenti gli influssi della Neoavanguardia (e anche in questo libro, infatti, compare “Edoardo”), seziona la lingua della contemporaneità e i suoi balbettii privi di significato, e ne denuda l’immaginario. La presenza palpabile di un io che orchestra questi materiali (un io che è connotato anche dalla massiccia dose di erudizione, per quanto anestetizzata, che caratterizza certe zone del testo) impedisce d’altra parte a questa mimesi di accasciarsi inerte, dandole al contrario un pathos che oscilla tra la risata di scherno e la constatazione disperata della vanità della vita umana: “Non so se il riso, chi ha il coraggio di ridere, di morire, non so se il riso, se il riso, se il riso o la pietà, se il riso o la pietà, non so se il riso o la pietà prevale, vale?” (p. 49). Gli strumenti formali della Policastro sono affilatissimi, e l’unica cosa che si potrebbe chiedere di più sarebbe di affiancare, al cumulo di macerie che mette in scena, una parte che sia anche costruttiva, che indichi almeno in parte un modello alternativo a quello di cui si procede alla demolizione: o che, perlomeno, non sia costituita solo da questa demolizione.
Gilda Policastro ha avuto il merito, recentemente, (merito e, verrebbe da dire, colpa, visto il suo strascico interminabile, affollato di scrittori della domenica e critici letterari improvvisati) di innescare una lunga discussione sulla complessità in letteratura a partire dal suo articolo “L’eutanasia della critica”, in cui il romanzetto di Teresa Ciabatti, verosimilmente prossimo premio Strega, diventava l’occasione per riflettere sulla resa della critica letteraria italiana davanti al gusto del pubblico. Naturalmente, dato lo stile al solito apodittico della Policastro, sono fioccate le polemiche e le accuse di invidia – che, fossero pure vere, non toglierebbero nulla al punto: come può la critica italiana, o perlomeno quanti tra giornalisti e scrittori e addetti ai lavori dovrebbero occuparsi di mediare tra le forme alte della letteratura e i gusti del pubblico, promuovere in maniera tanto supina un testo insignificante come quello della Ciabatti (ma questo vale anche per la critica accademica, che spesso ha smesso di trattare certa paraletteratura come sintomo di, esempio di, per darle invece spazio come meritevole di indagine)?
Il pezzo della Policastro ha anticipato in una certa misura anche le polemiche intorno a Bruciare tutto di Walter Siti, romanzo che presenta diversi difetti dal punto di vista narrativo (cui il lettore abituale di Siti è comunque abituato), ma che è stato oggetto della stroncatura preventiva di Michela Marzano e della caccia alle streghe di Repubblica sulla base di un giudizio eminentemente contenutistico, avendo il libro per protagonista un prete pedofilo. Pur amando molto Siti, non ho apprezzato fino in fondo Bruciare tutto, che mi è parso, come spesso accade al suo autore, meccanico nel suo saggismo, e insolitamente debole nella ricostruzione dell’ambiente: ma le critiche di cui Simonetti sottolinea la banalità sono inaccettabili. Nella sua critica a queste critiche, Gianluigi Simonetti, individua una tripartizione degli scrittori contemporanei: “C’è una narrativa che ha lo scopo esclusivo di distrarre il lettore; un’altra che mentre lo intrattiene gli fornisce informazioni, identità e valori, confermando le opinioni socialmente più autorevoli e più glamour; una terza che mentre diverte sfida le certezze del lettore, cercando di portarlo dove lui non vuole andare (mentre la prima e la seconda lo lasciano dov’è)”. Siti, dice, appartiene alla terza categoria, e per questa ragione ha subìto proprio da scrittori della seconda (Marzano, Raimo, Zaccuri) una serie di giudizi pesanti e grossolani, perché si è creato un vero e proprio muro di incomunicabilità tra di esse: secondo Simonetti, “Gli scrittori dei diversi tipi non si riconoscono tra loro. Per gli autori cosiddetti di genere (quelli cioè del primo tipo) tutta la letteratura deve essere intrattenimento, il romanzo che non sa distrarre è destinato a restare lettera morta. Per molti autori del secondo tipo è «inaccettabile», sempre più spesso, la letteratura che trasgredisce le categorie morali di riferimento – siano forme di correttezza politica o religiosa (Marzano, Zaccuri), sia semplicemente il glamour più aggiornato (Raimo)”.
Leggendo queste parole di Simonetti, non ho potuto non ripensare alla polemica intorno al post della Policastro, che le ha precedute di circa una settimana: il chiacchiericcio allarmato intorno a Bruciare tutto non ha fatto che confermare la fondatezza delle tesi della Policastro. Che la massa dei lettori non capisca i libri di Siti o le polemiche della Policastro, e che gli preferisca invece Teresa Ciabatti, non dovrebbe né sorprendere né spaventare: rientra nella normalità del fatto letterario che esistano contenuti non immediatamente accessibili, ma che lo diventano col tempo. È vero che c’è stato un tempo, come rimpiange spesso la Policastro, in cui i poeti andavano in televisione, ma si è trattato di una felice eccezione – fermo restando che comunque ad andare verso il grande pubblico erano appunto i poeti, non la poesia. A essere preoccupante non è l’esistenza di scritture come quella della Ciabatti o di Liale analoghe, o di varia ed eventuale bestselleristica (di libri, in altre parole, semplici, scritti e pubblicati per vendere bene): sono finiti i tempi in cui si poteva pensare di negare una dignità anche alla letteratura di consumo. Quello che invece dovrebbe inquietarci (noi critici, noi scrittori) è che questi prodotti possano essere venduti come grande letteratura, come prodotti non solo di intrattenimento (anche di qualità), ma in grado di aiutare il lettore a comprendere il mondo intorno a sé; e dovrebbe spaventarci perché presto il lettore non sarà più in grado di distinguerli. Questo è quello che fa Siti: e appunto, spaventa vedere gli addetti ai lavori non capire il senso di un’operazione come quella di Bruciare tutto, cioè di mettere in scena la contraddittorietà ineludibile del mondo, in cui esistere e fare il male sono una cosa sola.
Ho voluto parlare di Siti perché credo che anche la Policastro appartenga alla terza categoria di scrittori, e che si esponga come lui al rischio dell’incomprensione – o dell’indifferenza. Recensendo Cella, un anno fa, scrivevo che l’importanza del lavoro di Gilda Policastro, in assoluto e come punto di riferimento per la generazione entrante della narrativa e della poesia italiane, sta proprio nel rifiuto di abbandonare la complessità, anche quando questa tracima nella sgradevolezza. Sfogliare Esercizi di vita pratica offre di nuovo, impassibile e implacabile come un libro di anatomia, l’esercizio di questa complessità, che si trasforma, facendosi immagine del mondo, in uno strumento di indagine sul mondo.
*
Immagine: Christian Boltanski, Les habits.