Una recensione a “Il paziente crede di essere”

3-serra

di Marco Villa

[Una versione leggermente diversa di questa recensione era uscita qualche mese fa su “Mosaici – Learned Online Journal of Italian Poetry“.]

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«Racconti, forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo»: già il sottotitolo de Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens 2016) di Marco Giovenale preannuncia, con le sue sparse indicazioni di genere, uno dei tratti salienti del libro: un’eterogeneità di soluzioni, che rende conto anche dell’arco temporale di composizione dei testi (dal 1990 al 2014, «circa», se si tiene fede a quanto dichiarato con understatement dall’autore nelle note finali) e che però si staglia su uno sfondo unitario per tono e postura. Uno sfondo segnato dall’impassibilità con cui la voce registra gli scarti e i soprassalti di assurdo che tempestano i quadri e le micro-storie della raccolta, relegando ad una percezione in absentia l’assoluta ordinarietà che – il lettore sente – avrebbe potuto/dovuto caratterizzarle.

Una prima, eclatante strategia di produzione degli straniamenti è rappresentata dall’interferenza dei campi semantici del sangue, del disfacimento fisico e del disgustoso con la presentazione lineare e tendenzialmente organica di pezzi di varia quotidianità. La passeggiata di una madre con la carrozzina, per esempio, si trasforma in una scena di coprofagia: «Uno sguardo nella carrozzina. Nessun bambino, dentro. C’è invece una pozza ondeggiante di letame, parecchi litri, sterco liquido pieno di grumi, proprio quello degli storni. I grumi sono quelli che lei va masticando» (Sotto i lecci). Ma ciò che in questo testo ci dice di più sui procedimenti all’opera nel libro è il percorso capziosamente logico seguito dalla voce narrante. Le frasi riportate costituiscono l’acme ripugnante della prosa, che però nella prima parte era dominata da un quesito del tutto legittimo rispetto al contesto referenziale: una donna mangia – non si sa ancora cosa – e lo fa in mezzo al fetore del guano prodotto dagli storni nella notte; naturale allora chiedersi «come fa[ccia] a sostare, a tenere il bambino proprio lì, e mettersi a mangiare». Gli escrementi degli uccelli anticipano il punto di svolta che trasformerà un bambino ipotizzato dall’osservatore esterno nell’effettiva pozza di letame, e proprio a quel punto, avvenuta l’agnizione, chi parla ritiene di aver trovato una risposta soddisfacente alla domanda di apertura: ecco che quindi può chiudere il suo resoconto con un paradossale «Allora capisco, allora è normale».
In effetti, una solida sintassi argomentativa entro cui si svolgono le considerazioni e i rapporti su fatti spesso sconfinanti nel surreale è tra i dispositivi formali più diffusi e più efficaci dell’intera raccolta. Il tono è atarattico, l’esposizione lineare e coesa, e quando le scariche di assurdo potrebbero sconvolgere qualsiasi distanza posturale l’assetto linguistico-intonativo non viene minimamente alterato. Ne sortisce talvolta un umorismo allucinato, e quasi sempre l’approdo a conclusioni che ci conquistano alla loro pretesa incontestabilità, turbandoci proprio per quel senso impossibile di teorema compiuto:

A volte compaiono dei cerchi nell’aria, delle dolci sfere. Hanno una superficie lucida, cangiante, specchiante. Sono le bolle di sapone, scoppiano.

Se invece fanno scoppiare l’incauto osservatore, essi sono gli alieni, sono provvisti di spietate armi laser.

Ci si trova ad un bivio interpretativo

Svolgimenti e chiuse obbediscono ad una consequenzialità spiazzante, che sovverte il resoconto di scene plausibili o compie deduzioni impeccabili da premesse quanto meno bizzarre. Non è raro che l’elemento straniante venga posto proprio nei finali di testo, funzionando come un fulmen in clausula che opera in sordina: una descrizione cosmica, tra piogge di detriti crolli e cristallizzazioni, della formazione del sistema solare e della conseguente comparsa ed estinzione dell’umanità si chiude con questa notazione: «il crollo di santa monica e los angeles nel pacifico e l’ennesima scomparsa della razza umana rendono rari i download nelle app di riconoscimento facciale» (3,9 – 20 – 600).

Se questa è la strategia base, o comunque la più sfruttata, un altro gruppo di testi, collocati soprattutto nella sezione “Differenze”, si costruisce diversamente: si tratta di prose che fanno dell’elenco il principio sintattico fondante e pressoché unico, crescendo talvolta a dismisura nell’affastellarsi dei realia. Qui lo straniamento può giocarsi sull’accostamento caotico degli oggetti, ma per esempio in apparel è anche e soprattutto l’idea stessa di elencare combinazioni di vestiti e accessori con tanto di dettagli per cinque pagine a lasciare il lettore interdetto. Non che manchino gli scarti incisivi: in A levare la fitta enumerazione non è che un atto di spoliazione progressiva («Slaccia il gancio e le toglie […]»: così l’incipit) alla ricerca di un «lei» che alla fine non è rintracciabile nemmeno dopo la valanga di oggetti levati, o che proprio dalla spoliazione viene consumato (questo l’explicit: «il copriderma in finto pelo di cane, pelle, la carne, le ossa, era qui, eppure»). Ma queste prose appaiono a volte come l’esito di un volontarismo che nel disordine controllato (per citare la quarta di copertina, e forse, in questi casi specifici, troppo facilmente controllato) trova una realizzazione senza residui e a suo modo impeccabile, ma anche un po’ logora e prevedibile. Da questo punto di vista, il testo eponimo è un esempio virtuoso per il cambio di passo che lo anima: l’elenco iniziale (“il paziente crede di essere x, y, z, ecc.”) con il suo dilatarsi schizofrenico, è inserito in una narrazione frammentaria ma a suo modo coerente, che scandita da tappe orarie e dai consueti scarti logici procede in una climax di tensione verso la taciuta catastrofe finale («Apriamo lo spioncino e già al primo sguardo ci rendiamo conto che è avvenuto qualcosa di orribile»).

C’è poi un’altra strategia, minoritaria ma tutt’altro che irrilevante, per la quale i racconti/situazioni si offrono a una lettura che diremmo allegorica, se la prosa incipitaria non provvedesse a scoraggiare l’adozione di una chiave simile («Nonostante ciò, non riesce a pensare che una cosa simile sia significativa, sia gioco allegorico, Non vuole dire niente», passaggio che può ricordare certe prose di Guido Mazzoni, come riflessione iperassertiva su un esistente a-significante). Eppure è difficile resistere alla tentazione di una lente simile di fronte alla catena umana che perimetra e difende un centro ignoto agli stessi guardiani (Difesa), oppure di fronte allo svolgersi con la consueta falsa coerenza di iter burocratici surreali (Della caccia, Ammi), giusto per fare qualche esempio. Non manca insomma una tensione a creare piani di significazione differenti, che sviluppano una loro forza assertiva al di là di ogni esplicita volontà della voce narrante, sempre rigorosamente asettica.

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Sono almeno tre, dunque, i principali percorsi dichiarativi del libro (se ne potrebbero citare altri, naturalmente: penso per esempio al dialogo con l’immaginario pop, emblematico nella fuga «da una lucertola fascista di centocinquanta piani» dell’esilarante Trama). Tra questi, lo si è detto, il muro portante è costituito dalla combinazione di organicità sintattica e scarti nell’assurdo semantico. Qui Giovenale trova una misura perfetta, che riunisce i frammenti polverizzati del reale caotico infliggendo loro la violenza di un ordine che non possono in alcun modo sopportare: ne derivano piccoli e grandi shock, dal valore tanto più alto quanto più l’inflessibilità “burocratica” che li organizza difende le proprie ragioni. Oltre questo equilibrio, c’è solo la potenza significante degli apologhi allegorici (mi si passi ormai l’espressione), qualcosa che sembra riflettere la citazione da La ville au loin di Nancy posta in epigrafe alla raccolta: un’apertura che delinea un non-ancora-costruito, tratti essenziali (o semplicemente: tratti) di edifici compiuti soltanto dal rifiuto del costruire e dall’insensato che li accompagna fin dalla progettazione.
L’edificio-emblema del libro è allora quello di NIH-, un’installazione composta solo da «due telai di scale, un piano orizzontale, due porte con stipiti», isolata «su uno spazio ampio e vuoto». Insieme al nonsense di «scale senza scalini» e «porte che non si aprono», campeggia ambiguo un «guardiano», che dovrà «interdire al pubblico l’accesso fisico all’installazione» e che – viene precisato nella chiosa finale – «può non far parte dell’installazione». Simbolo di divieto repressivo e insieme di protezione, il guardiano risponde nel suo valore ancipite alle ambivalenze e ai paradossi che costellano il libro. Il suo essere figura liminare per eccellenza, di controllo del transito tra esterno e interno, lo rende ideale per il piantonamento di spazi dove non esistono, per l’appunto, centri case città compiuti e pieni, e la partita si gioca tutta sui confini. Nella citata Difesa il centro importa solo vagamente o solo come assenza, le persone «difendono il perimetro» e su questa linea si sdoppia il ruolo del guardiano: da un lato la «cintura viva» a protezione di un’ipotetica cittadella, dall’altro il lavoro repressivo di autorità senza volto che dal canto loro, più che tentare sfondamenti della linea di difesa, sembrano sorvegliarne la tenuta igienica.

Le prose del libro si muovono lungo queste linee di instabilità, dove le leggi della percezione quotidiana sono sconvolte e se ne studia l’interazione dinamica, dove spazi e funzioni confinanti possono rovesciarsi gli uni sugli altri: è per questo, ed ecco un altro esempio di liminarità, che sul ciglio di un burrone le precauzioni non varranno più, se il baratro stesso può tranquillamente sbilanciarsi e franarci addosso (Filmetto ma solo 1 scena); ed è sempre per questo che, altrove, la funzione dei medici portata iperbolicamente all’eccesso si ribalterà in un visitare «all’infinito fino allo smembramento» (Carme norreno). Condensato di tutti questi elementi, dalla costruzione per linee e traiettorie all’opposizione dentro-fuori, dalla sintassi che si mette sotto la protezione di una logica lapalissiana alla surrealtà della scena raccontata, è l’ultimo testo della raccolta, Interni. C’è una gabbia, ma non è altro che un gioco di specchi, un «sistema di vuoti» che riflette solo dubbi e mancanze; c’è un proliferare di garanzie del pensiero nei «senza dubbio» e negli «ovviamente» della prima parte; c’è un personaggio (Lia) che viene smembrato in questo ribattersi di inconsistenze; e c’è, infine, il gruppo dei domatori che «di questo parlano all’esterno della gabbia», non si sa fino a che punto in pieno controllo della vicenda e non piuttosto inchiodati essi stessi al vaniloquio.

Il paziente, un’altra figura di instabilità schizofrenica e paranoica, liminare nel suo essere dentro (il libro, una stanza-cella) e fuori (emblema anche paratestuale alla cui dignità lo eleva la scelta del titolo), compie su di sé e sulla realtà un’identica operazione demolitoria ma insieme produttiva e conoscitiva, con un’umana indifferenza che sa qual è la posta a cui sacrificare qualsiasi forma di pathos tradizionale.

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Immagine: Richard Serra, Ramble drawings, 2015.

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