Una guerra che non deve finire. Fenomenologia dell’io nella poesia di Paolo Maccari /3

Cavallo di Torino (finestra1)

di Marco Villa

*

Contromosse: “con tanta chiarezza si vede forse soltanto dopo le tempeste”

I

«Se in Fuoco amico, la precedente raccolta di Maccari, c’era spazio ancora per una forma di resistenza […] qui, nonostante il titolo tatticamente bellicoso, siamo al principio di una resa».
Vale la pena iniziare quest’ultima parte con le parole che Alex Caselli appone al risvolto di copertina di Contromosse (con-fine 2013), ultimo libro di Paolo Maccari; vale la pena perché un lettore già a conoscenza della parabola della poesia maccariana non può non sentire queste parole, ancora prima di verificarne la pertinenza sul testo, estremamente verosimili. Si è visto infatti come Fuoco amico marcasse, nella sua conclusione, uno stato psicologico che tutto aveva del punto morto. Saggiato il male nelle sue differenti manifestazioni, il trionfo del nulla che inghiottiva tu ed io lasciava poche speranze in una via d’uscita, tanto più per un poeta sempre alieno da facili riconciliazioni.
In effetti, la resa, coi suoi annessi psicologici ed esistenziali di rassegnazione e atonia, costella gran parte della raccolta, fin dalla prima sezione, “Messaggeri e messaggi”. Molto di Contromosse ha i caratteri del postumo, e l’io poetico sembra un reduce che trae il bilancio della battaglia passata. Sia esso il Riepilogo di un’amicizia infranta (in una poesia che condivide con Fuoco amico il tema ma ne perde la furia) o la presa d’atto di un Ritorno all’ordine «dopo lunghi rumori e agitazioni», dove l’«indocile» che ancora combatte, figura ben applicabile a quella dell’io nelle raccolte precedenti, è oggetto del fastidio e del rimprovero di chi invece ha accettato la propria condizione: «Dio non lo protegga – / è il giudizio mugolato / con più esistenza», e la voce poetante, se non partecipa allo stigma, certo non gli si oppone. La Morte di un poeta è descritta come una calma, inerziale accettazione della fine, senza la violenta deformazione espressionistica che in Ospiti, di fronte alla malattia degli anziani, costituiva il sigillo formale di uno sguardo non rassegnato. E se contare i propri morti è gesto tipico del sopravvissuto, la celebrazione che se ne offre ribadisce la memoria dei defunti solo per recidere ogni legame potenzialmente fecondo, ma eticamente troppo impegnativo, tra i due poli «di chi posa sopra o sottoterra»:

Di voi
[…]
possiamo fare senza.

Non siamo qui a rinfacciarvelo,
siamo qui per non scordarlo
e continuare.
[…]
accettiamo
che voi siate i nostri eroi
non i nostri condottieri
(2 novembre)

Placida accettazione che si confonde con l’indifferenza, ipocrisia come sfondo ineliminabile, attacchi vili a chi ancora si ribella ma senza la ferocia di un tempo. Questo generalizzato depotenziamento emotivo ricade direttamente sulla forma, che, perse le furiose accensioni di Ospiti e le invettive disperate di Fuoco amico, si caratterizza per un messa in scena essenzialmente litotica. La condizione del soggetto e dei suoi simili è connotata attraverso una continua negazione, di cui porto alcuni esempi significativi ma che di fatto percorre gran parte del libro:

Non camminiamo più, il cuore ha smesso
coi suoi ottovolanti. Lui non rumoreggia
e noi non camminiamo,
non fatichiamo: cautamente, si passeggia.
(Riepilogo di un’amicizia)1

Il giorno non muore e non butta sangue.
(Personaggi al tramonto)

Nessun balenio, arrotarsi di spade.
[…]
Una morte meticolosa senza dolore
[…]
Smettere la fatica
abiurare smanie e pigrizie
cancellare le parole intermedie
rinunciare al conforto di non sapere
all’ambiguità di ogni eccetera.
(Morte di un poeta)

Passando alla seconda sezione, valgano per tutti l’eccezionale descrizione del «mediocre» ragazzo in Il padre del cappellone e, per molti versi affine, quella del “giovanottone” del testo omonimo, entrambe giocate sull’implacabile ribadire ciò che i due personaggi non sono.

Oltre alla negazione diretta, la rappresentazione di questo universo privo di vitalità è affidata a procedimenti attenuativi. Spesso è il contrappunto di aggettivi e avverbi a sfibrare enti o azioni: «luce stanca», «macchie / attenuate, grigie o di un rosso stinto», «prosegue lattiginoso», «si lascia appena scalfire», «languido rimpianto» «uomo calmo», «ha lievemente preso», «vaglia senza fretta», «sa cedere morbidamente, accogliente». Altrove tale attenuazione è effettuata relegando al rango di ipotesi conciliazioni (Serenata, nella sezione successiva A mia madre (liricamente)) e agonismi bellici (Ipotesi di guerra nel parco)2, mentre un’altra scelta che procede nella stessa direzione è l’insistenza sull’area semantica della farsa, intesa sia come recita sia come dimensione della falsità e della cattiva coscienza. «Commedia vana», è detto di un uomo che forse muore per strada in Personaggi al tramonto, e lo stesso titolo rimarca la dimensione dello spettacolo, di qualcosa di non pienamente autentico. Un discorso analogo può essere fatto per la Canzonetta che apre il libro. Anche l’ipotesi di guerra citata prima, con quell’«albero simbolista» che «con stile imprevedibile / darebbe battaglia», dà più il senso di uno show mancato che di un urgenza bellica a stento trattenuta. Infine, se è «una recita il mondo e le genti su palco» (Niente di me), anche l’intera seconda parte di Contromosse, con il soggetto spettatore della “commedia umana” che si svolge in una piazza, rientra perfettamente in questa dimensione3.
Persino le allegorie animali, ormai marchio dello stile di Maccari e fra i momenti più attivi dell’intera raccolta, soffrono nondimeno di questo effetto sordina. I cigni, per esempio, sono «non rassegnati» (ancora una litote) a perpetuare il vano tentativo «di liberarsi di tutta la loro bruttezza» che occasionalmente riaffiora, e la similitudine in chiusura («assorti come i nobili nei giorni dei tumulti») conferisce al tutto una sfumatura di ironica tragicità. I modi della volpe, invece, sembra una declinazione ovattata dell’Esistenza nervosa: la guerra di tutti contro tutti viene mostrata nel suo essere semplice «gratuità del massacro», orgiastico scempio che offre l’unico sollazzo nei «nostri tempi grami». Tutto ciò rappresentato da un io che spiattella con un tocco di autoironia la sua somiglianza ai modi dell’animale.
Già, l’io. Raramente nella poesia di Maccari il soggetto poetico era apparso così poco incisivo. E ciò non stupisce, se si considera che proprio al soggetto si doveva il principale nucleo di resistenza al male. L’«oggi non ci sarò» di 2 novembre può essere invece preso come emblema di un io che anche quando appare tende a ritrarsi, autolimita la propria funzione se non arriva proprio a negare se stesso. Se si esclude l’esibizione in I modi della volpe, il soggetto ritorna con forza solo verso il finale della prima sezione, e lo fa per dichiarare senza pudori la propria sconfitta e il proprio tradimento. Così in Giuramenti, con versi emblematici di quella dimensione falsa a cui accennavo prima:

Troppe volte spinto al vuoto pleonasmo
dei giuramenti da qualche penosa
falsa posa, ho finto tabula rasa
del passato e insieme un nuovo orgasmo

per un futuro già pianificato.
[…]

E il giuramento autentico, che ho fatto
da adolescente austero, al debutto
nella conoscenza io l’ho mancato.

Un io spergiuro che «per viltà frantumò lo specchio» e che sente su di se il peso del senso di colpa, altro portato psicologico della resa insieme all’atonia4. Degna conclusione, l’ultima testo di “Messaggeri e messaggi”, Niente di me, è fin dal titolo autonegazione e palinodica dichiarazione di resa:

La resa è una tana, il riposo un recesso.
Deposte le armi, deposte ancor prima
le emozioni del combattimento,
non so a chi consegnarmi.

Non avrai niente di me, se non me stesso
in questa stanza affumicata
dove fumo e mi oriento e mi sogno
e scaccio il sonno e ti aspetto
mentre sale il bisogno
del tuo perdono,
del perdono di quanti trassi in inganno
dicendo che credo, che so, che sono.

II

Ambiguamente preannunciato dalla citazione tratta da Salinger posta in epigrafe, l’io ritorna nella seconda sezione, “Pensieri in piazza”, composta da sole prose se si eccettua l’Overture senza pudore lirica che la apre. Qui chi parla è attore ma più spesso osservatore della vita che si svolge nel circuito di una non meglio specificata piazza «tonda». La complessità di quella che è senz’altro una delle vette maggiori toccate dalla poesia di Maccari impedisce di offrirne qui un’analisi dettagliata; mi limiterò per questo a seguire il filo della mia lettura, verificando le ricadute del nuovo ambente sulla figura dell’io poetico.
Il nucleo decisivo di questa suite mi sembra essere allora la rappresentazione di una fondamentale incomunicabilità con l’altro-da-sé. L’io descrive ciò che vede e riflette, rimane spettatore senza mai partecipare veramente alle diverse vicende che gli si svolgono davanti. Non che manchino i tentativi. Nulla è anzi più lontano da Maccari della freddezza del semplice resoconto, e le prose spiccano per l’equilibrio che riescono a mantenere tra osservazione obiettiva (mai veramente distaccata) e tensione verso l’altro5. Tuttavia lo schermo che sembra frapporsi tra il soggetto e la piazza non cede e i testi sono costellati da espressioni linguistiche ed elementi rappresentativi che attestano la divaricazione: dall’incertezza conoscitiva («mi sembra che», «e allora forse si raperà o forse resterà spelacchiato», «secondo me», «può darsi», «lo sospetto di», «non riesco a figurarmele precisamente», «non conosco»; ma cfr. anche le interrogative di Due), all’indecisione («Avrei voglia di rispondergli […] Invece rispondo», «Io resto indeciso»); dai falliti tentativi di contatto (cfr. Un giovanottone, Notai, Due, ma anche il vano sforzo di immedesimazione in Un piccione e le malattie) al refrain «mi avvio verso casa» che, nelle sue variazioni, compare più volte in chiusura a ribadire l’isolamento di un io stremato o semplicemente frustrato. In queste descrizioni, insomma, l’altro resta irraggiungibile6: salvo la splendida eccezione del Vecchietto che attraversa la strada, gli uomini nella piazza di Contromosse sono vite impenetrabili, che alle supposizioni generose ma sterili del soggetto oppongono un’ostinata chiusura, magari declinata in una simpatica sceneggiata promozionale (cfr. Cirase e patane), oppure nella ritirata scomposta di chi si sente smascherato (Un giovanottone). Forse allora il testo veramente emblematico della sezione, e fra i più crudeli di tutto Maccari, è Sole: una «signora» è seduta ad abbronzarsi, immobile e indifferente a ciò che la circonda. È in tutto simile a una divinità («tanto piena di luce che sembra disincarnata»), le creature intorno a lei la servono ma non le servono, è «un’immagine antipatica di autosufficienza, un essere umano seduto a una panchina che non aspetta. S’abbronza, sta». L’autosufficienza genera una monade, privando l’individuo della propria umanità relazionale7 per la reazione irritata dell’io; e così questa figura umana dipinta con dovizia di dettagli concreti e realistici alla fine si disincarna e diventa oggetto tra gli oggetti, una nuova allegoria che aggiunge al repertorio maccariano di vegetali e animali una donna che è pura immagine di antipatico isolamento, «guscio in apparenza […] impenetrabile nel sicuro sigillo del conformismo e del solipsismo»8.
Termine e consuntivo dell’esperienza, l’Epilogo ribadisce la nuova dimensione che il soggetto si è ritagliato, dimensione in tutto coerente con quella delineata nella prima sezione: un individuo rassegnato, che in piazza non va oltre l’osservazione e una rielaborazione inefficace («Ascolto se mi riesce i discorsi della gente e penso. Mi pongo indovinelli crudeli e mi racconto le vite che vedo scorrere»), e che nel cerchio della propria esistenza pratica per sopravvivere il consueto gioco al ribasso («Non penso al futuro, perché finisce male. Sono cauto e attento. A volte, di nuovo, le cose si affilano»). Sorprende a questo punto la dichiarazione energica «Ma reagisco»: l’avversativa sembra annunciare, proprio sul finale del libro, un guizzo inatteso. L’io si aggrappa a tutto ciò che gli resta: se stesso, nella sua nudità: «Mi carezzo e m’imbambolo ripetendomi che posso essere chiunque ma non sarò mai tutti. Non toccherò mai la mia pelle come fosse di un altro. E se non è una consolazione è qualcosa di consolante come lo sono sempre le conclusioni». È subito chiaro che la reazione prospettata non è che un simulacro degli scatti di un tempo. La dittologia sinonimica «mi carezzo e m’imbambolo» disperde tutto il vigore del verbo precedente e l’indugiare soddisfatti su una consolazione (anche meno!) da parte di un io che ormai riconosce di avere «dei momenti di terribile accondiscendenza per la sua immaturità» (La piazza è tonda) è l’esatto rovesciamento dell’inflessibilità che ha sempre caratterizzato la poesia di Maccari.

III

Contromosse compie quindi un ulteriore, coerente passo lungo il percorso aperto dalla raccolta d’esordio. L’accidia che pervade il libro è strettamente imparentata a quella di Fuoco amico, ma mentre là il soggetto tentava un’effettiva reazione nell’appello all’altro-da-sé, qui l’«opacizzazione della colpa» lo ha coinvolto in pieno. Se Diego Bertelli propone di leggere “Pensieri in piazza” in contrapposizione alla suite di sonetti che apriva Fuoco amico9, ritengo che anche un confronto parallelo con gli esterni delle sezioni centrali della stessa raccolta possa rivelarsi proficuo. In entrambi i casi l’io si proietta fuori dal proprio circuito, ma questa volta la sua azione è in partenza depotenziata e manca del sostegno di qualsiasi carica agonistica che ancora vibrava negli appelli ai “cari” traditori. L’io quindi ripara a casa, o più precisamente ripara nella propria pelle: sfibrato dal male e dai tradimenti, alla fine tradisce se stesso, il suo giuramento alla lotta. Se Ospiti iniziava presentando il soggetto poetico nel ventre-prigione del cavallo di Troia, ora il ritorno in un altro spazio dai connotati limitanti e rassicuranti, quello del proprio sé, è forse il perfetto movimento simbolico della resa.
In questa resa, però, chi parla mantiene la lucidità conoscitiva e un’autocoscienza che lo scampa dalla malafede. Con le parole di Lenzini: «se tutto si trasforma, il frammento deve riannodare in silenzio i suoi antichi legami con la conoscenza, con le verità non dette»10, Di qui le continue confessioni della propria falsità e impotenza11, di qui l’ammissione di far parte, da mite carnefice, di un ritorno all’ordine fittizio e crudele (esplicita I modi della volpe) e di qui la stessa capacità di gettare una luce rivelatoria sulle cose, siano esse frammenti di mondo esterno oppure zone buie della propria coscienza, che il riflusso della resa, invadendo, permette di scandagliare. Questa duplicità di sguardo è ancora colta da Lenzini:

qui lo sguardo si porta all’aperto, ma non ha perso affatto la sua penetrazione; la lucidità segnalata da Baldacci è integra, anzi estende il suo campo d’azione, simultaneamente, in più direzioni: verso l’esterno, dove personaggi standard dell’ambiente urbano, cose e animali sono traguardati da un io insieme vigile e assorto, e verso l’interno, dove la rassegna riguarda senza indulgenze (o a volte con velato sarcasmo) il sé, lo spazio interiore, il luogo dello spleen e della malattia, dei terrori che come le «ustioni dei pensieri» lasciano cicatrici dolenti.12

Nella rappresentazione di questo io sempre più in ritirata nella propria interiorità ma ancora abbastanza onesto per autodenunciarsi e approfondire così il proprio statuto – evidente fin da Ospiti – di termine di verifica di una condizione universale, Maccari ha delineato una parabola coerente e credibile di un vivere percepito, al suo fondo, come nichilistica guerra di tutti contro tutti. In tale contesto, il ricorso insistito alla prima persona, certo defilato nel quadro dell’onda lunga della mutazione lirica, gli serve non solo come formidabile istanza di controllo di tutte le spinte centrifughe che caratterizzano un’esistenza sempre sull’orlo della disgregazione, ma anche, lo si è cercato di dimostrare, come germe da immettere nel reale in quanto ipotesi di resistenza attiva. E anche adesso che questa resistenza si è ridotta alla testimonianza impietosa dell’altrui e propria derelizione, essa non smette quella «costante ricerca del segno più» proprio nella «consapevolezza dolorosa del segno meno». Una ricerca, utilizzando sempre le parole di Maccari,

forse anche impossibile oggi, eppure necessaria per continuare ad accettare tutto il dolore, motivato o immotivato, che ci investe e che, se lo vedessimo come approdo, saremmo obbligati ad addolcirlo con qualche errore della vista, o a farne un dato puramente estetico, senza implicazioni etiche, senza investimenti puramente umani.13

Conviene quindi lasciare senza risposta la domanda su cosa avverrà di questo io e di questa poesia, se il rifiuto di una «variopinta, pomposa resa» – opposta a quella rigorosamente asciutta praticata – riuscirà a trasformare la propria «sostanza di dedita attesa» (Negli oscuri rifugi) in una nuova forma di lotta contro un male che, proprio perché mai come prima aveva così invaso e «anestetizzato» il soggetto, mai come prima è stato visto con tanta chiarezza14.

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1Dove non sfugga l’ulteriore depotenziamento attuato tramite il ricorso alla forma impersonale, più colloquiale, «si passeggia», che cancella il “noi” in un indistinto (alla scelta comunque avrà contribuito anche la volontà di evitare un’eccessiva ridondanza rimica).

2Poesia che stilisticamente (cfr. lessico e la ripetizione patetica dell’ultima strofa) potrebbe benissimo stare nelle raccolte precedenti, se non fosse per il periodo ipotetico (evidentemente dell’irrealtà) che la struttura e ne annulla preventivamente la forza.

3Per un esempio più puntuale, emerge tra tutte la divertente commedia del venditore ambulante che esalta i suoi prodotti in Cirase e patane.

4Posto da Maccari direttamente alle soglie del libro, con questa epigrafe da Attilio Lolini: «Credemmo in tutto / poi in nulla / perdonami e sopportami».

5Penso sia questa tensione a rendere la lingua delle prose di Contromosse così lontana dal voluto grigiore che caratterizza quella di altri autori odierni che ricorrono allo stesso strumento. Qui il dettato è di frequente mosso da focalizzazioni espressive (cfr. l’inversione esclamativa che apre Sole), da innesti di parlato (anche con connotazioni diatopiche, vedi p. es. Un giovanottone), da interrogative ed esclamative dalle funzioni differenti ma sempre a segnalare un coinvolgimento di chi parla.

6Giuseppe Di Bella parla nella Postfazione di «un contatto impossibile, che è gnostico, e di esausta conoscenza» (p. 68).

7È proprio l’autosufficienza, la tautologia di un essere che è solo se stesso a generare angoscia nell’io, cfr. Pioggia di primavera: «le panchine vuote, lucidate, tornano ad essere panchine in modo atroce: oggetti autosufficienti».

8Luca Lenzini, «Come una pioggia obliqua d’estate». Note di lettura su tre autori in prosa, in “l’Ulisse”, n. 17, p. 118.

10Luca Lenzini, La tempesta perfetta, in Contromosse, con-fine, Monghidoro (BO) 2013, p. 9.

11Solo pochi esempi, oltre alle già citate Giuramenti, Niente di me e La piazza è tonda: «Dolore e paura sono un pungolo indefinito […] intransigente nonostante la mia finta / indifferenza» (Overture senza pudore lirica), «fingendo occupazioni per non confessarmi che sono occupato soltanto in questo, aspettare, avere pazienza» (Pioggia di primavera).

12Luca Lenzini, «Come una pioggia obliqua d’estate»…, cit., p. 118.

14Chiudo con questo riferimento alla prefazione di Luca Lenzini, che ho già utilizzato per il titolo di questa terza parte e che mi sembra sintetizzare perfettamente l’approdo momentaneo del percorso poetico di Maccari.

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