La poesia italiana giovanile è principalmente una poesia di sguardo: qualcuno (un personaggio o un io) osserva una scena, prova delle sensazioni, riflette su quello che vede e su quello che sente. Questi cinque testi di Marianna Bonifacio ci sono sembrati interessanti perché la postura dell’osservatore viene completamente dismessa. Quella di Bonifacio è un poesia del contatto, di cose da toccare con le mani o da cui essere toccati, di corpi che lavorano o riposano o desiderano altri corpi. Il sapere che è contenuto in questi testi non ha a che fare con la riflessione, né con l’elaborazione, e per questo non è mai un sapere difensivo. Si tratta molto più umilmente di un’intelligenza delle sensazioni, che abbraccia il suo oggetto senza complessi e senza vergogne; l’io non sta di fronte ai propri gesti per valutarli ma si trova dentro il proprio corpo, aderisce agli stimoli che riceve senza scissioni. E tuttavia, dietro questa apparente interezza si intravede un’inquietudine (testimoniata nella versificazione dai bruschi a capo, che spezzano l’andamento piano del discorso), un senso di precarietà che sta dietro i testi e che significa questo: che la forza di queste esperienze proviene da quell’alterità che è il corpo, su cui il soggetto non ha nessun controllo ma che può solo subire, seppure con accettazione e quasi con una voglia di giocare, seguendolo ovunque con fiducia. La mancanza di fratture del personaggio lirico è allora frutto di questo felice spossessamento.

Volnay, 1/5/2024

Primo maggio.

Minuti pagati scorrono lenti.

Mi faccio una doccia

calda,

di sotto un sacco di pan perduto

per gli animali, ha detto

la signora francese

che ce l’ha dato.

Questo siamo,

ilarità non del tutto

appropriata,

intanto scende

l’acqua nera dai miei

capelli, saluto il fango

si è riposato con me

questa notte.

Esco nei vapori stordenti –

familiare avvolgente mancanza

di conforto –

davanti a me si apre

il resto della giornata:

grande fortuna e sventura.

È il tempo del riposo.

Più che gli amanti

il corpo mi chiede movimenti

misurati

ripetuti gesti di cura

pasti abbondanti

e caldi.

Facciamo questo.

Posso darmi questo.

Questa casetta un’isola

di resistenza,

la nostra festa una

breve pausa

minuscola parte

del dovuto.





Pisa, 4/4/2024

Castagneto Po, 25/10/2024

Questa rete l’ho

tessuta io e mi ci sono

accomodata dentro.

Di fili elastici l’ho fatta

questa rete

tela paziente annodata

maglia di vite umane fragili

aggrovigliate

inerpicate come edera

come equiseto vibranti

intonazioni antiche

di radicare.

E in questa rete

voi, e mi chiedo come

quale fortuna, quale pazzia mi abbia concesso

di amare così tanto.

Non sembra quasi giusto

non regge quasi il cuore

ad allargarsi

lo stomaco è inondato di acido

il respiro è corto e l’occhio

vuole il pianto.

Sia. Non mi opporrò

a questa forza che sale dalla terra e mi apre

come un frutto

e puntualmente rovescia le mie viscere

sul tavolo della colazione.

Cercheremo noi stessi

gli uni negli altri

ci daremo il coraggio

di ritrovarci.





Fossola, 6/11/2024

Vorrei che la forza di quello

che vedo possibile emanasse

dalle mie mani come un’onda d’urto

che trasformi le cose

in un istante,

e questa casa diverrebbe

traboccante di vita

e la speranza per le persone che amo

si farebbe concreta e

la potremmo afferrare

insieme.

Nella fatica di passare all’atto

c’è sempre qualcosa

che va perso,

nell’incontrare l’opaco

come il torrente incontra

il sasso.

Del tempo che si spreca

a misurarsi con i limiti

non rimane che

l’assenza, la convivenza con un male

che non si può curare.

Ma perché questo

lacerante nostro lutto

ci impedirebbe

di germinare?

Non ho mai visto un albero disperarsi

del luogo in cui è cresciuto.

Se anche noi dobbiamo essere

radici, non servirà porre

troppe domande

alla potenza ctonia

che ci trascina.





Calci, 15/3/2025

Stare in se stessi stanca

e amare è come andare

da un’altra parte, eppure

più stringo il nodo e più 

si allenta – 

non biasimare in me

questo inquilino caparbio

come una serpe che mi si muove dentro e dice

“voglio”. Io ti voglio!

La tua distanza è un affronto

alla decenza, scandalo separare i corpi

quando si danno vita, eppure so:

ti ci ho portato io.

Attorcigliata sulla sua impotenza

la serpe emette versi di bestia ferita

fidati, dice 

fidati ancora

di me.

La meraviglia di riaverti, diverso scandalo

te la direbbe solo il fiato che mi manca

e forse credo riderei

della mia sorte di creatura strana

dell’abbondanza vergognosa 

di una seconda volta.

Intanto è passato un altro giorno

convinto forse che io non l’abbia

desiderato

il corpo cova vendetta e dietro il vetro si affretta

la primavera.





Calci, 23/3/2025

Se metterò di nuovo

le mani su di te sarà

come seguire il fianco di questa montagna

come la calma di questa vista

in ore di bruma che a breve

si scopriranno mattino

ma non lo ricordano ancora e non lo sa la gente

che dorme

beve la notte l’orto e si ripete che durerà

ancora un poco

ancora un istante di quiete

dicevo quindi toccarti 

sarebbe come uscire nuda sotto questa pioggia

sotto il regalo di questa pioggia

come un’offerta di more

ed erbe, o il sollievo del vento.




L’immagine di copertina è di Francesca Coldebella Bergamin.

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