1.
Si potrebbe sostenere che tutta l’opera di Broggi costituisca in fin dei conti un tentativo di interrogazione di un problema fondamentale, il problema dell’enunciazione letteraria. Ma perché questa centralità dell’enunciazione nel progetto di scrittura e anzi di autorialità di Broggi?
Si prenda una quartina della sezione «A fondo perduto» di Avventure minime (Massa, Transeuropa, 2014):
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il tempo degli avvenimenti
è ancora del tutto provvisorio
secondo un gusto più aggiornato
a reggersi sulle conseguenze (p. 91)
In questo esempio di enunciazione che occulta il proprio locutore, esautorandolo, il cut-up proposto da Broggi mostra il punto di articolazione tra langue e parole, il punto di articolazione attraverso cui siamo parlati: questo punto di articolazione non passa oggi attraverso lo stile, ma piuttosto attraverso l’evidenza di una lingua popolata di enunciati d’agenzia, privi ormai di un autore ma che comunque portano con sé il rimando a un obiettivo comunicativo e a un ricevente, un target.
Sta qui, nel fatto appunto dell’essere attraversati continuamente dal pulviscolo di enunciati di una semiosfera soggetta a un dominio ideologico che passa in primo luogo attraverso la lingua, il fulcro dell’operazione dell’autore. Si può in questo senso rilevare una speciale coerenza che attraversa tutta l’opera di questo scrittore. Ma, se poteva apparire che ci fosse un’esigenza assiologicamente critica, all’interno di quell’impostazione, oggi, gli ultimi tre libri di Broggi (Noi; Sì, Roma, Tic Edizioni, 2021; 2024; Idillio, Osimo [AN], Arcipelago Itaca, 2024) ridefiniscono il progetto in un modo diverso. Lo conferma una dichiarazione dello scrittore apparsa in data 15 ottobre 2024 sulla sua pagina Facebook:
Con la recente pubblicazione di “Idillio” si chiude la serie di cui fanno parte anche “Noi” e “Sì”, una trilogia a suo modo “construens” – seppure (oppure tale proprio perché posta) al di là della tradizionale nozione di soggettività – nella quale ho cercato di riprendere a interrogarmi su alcune possibilità di senso; laddove la precedente trilogia (“Coffee-table book”, “Avventure minime” e “Protocolli”) si poneva l’obiettivo “destruens” di mettere alla berlina, o per lo meno di ostendere, l’inautenticità di certi stereotipi e strategie linguistico-comunicative che nella società dei media e dei consumi ci formano come soggetti.
In che senso construens? Probabilmente perché in questi ultimi tre volumi, la consapevolezza di essere parlati, infatti, elude ogni istanza di tipo critico e quindi moralistico, – non si può non essere parlati, autore e personaggi – traducendosi invece in quella che appare una sorta di volontà di ascolto universale. Si potrebbe in effetti leggere in questa chiave la tecnica compositiva stessa che caratterizza Sì, ossia il cut-up:
“Sì” è il secondo volume di una serie, avviata con “Noi” (Tic, 2021; 3a edizione riveduta in preparazione) e, analogamente alla pubblicazione che lo precede, è prevalentemente costruito come un mosaico di microtessere derivate, mai segnalate nel corpo del testo: vi è fatto cioè largo ricorso a strategie di reimpiego e ricontestualizzazione, attingendo a modalità costruttive e sfruttando risorse verbali – per lo più sintagmi ma anche frasi, riprese letteralmente o variate – prelevate da fonti disparate (p. 119).
In Sì, quindi, come già nei libri precedenti, lo scrittore sceglie di problematizzare la questione dell’enunciazione in relazione a quella dell’autorialità, che d’altronde nel testo lirico è sempre connessa alla problematica dell’enunciazione. Naturalmente, la problematizzazione delle forme consuete dell’enunciazione è funzionale alla proiezione di simulacri di soggettività all’interno del testo, che in Sì sono molteplici: il modo con cui nel testo possono albergare differenti spazi di interiorità resta sempre il problema cardine della letteratura, a qualsiasi livello.
Non per caso, il testo vero e proprio è preceduto da due paratesti: una serie di epigrafi autorializzate, e un’avvertenza tipografica. Quest’ultima recita:
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Le virgolette inglesi (“”) e quelle caporali («») individuano due differenti livelli enunciativi costitutivamente presenti nel testo (p. 7).
Ecco un esempio di come i vari virgolettati si combinino con le parti di testo non virgolettate:
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Chi sta relazionandosi con queste situazioni? Sei ciò che sei o quello che pensi di essere? O quello che altri pensano che tu sia?
«I pensieri non hanno bisogno della mia attenzione, non mi identifico con essi né con le mie emozioni. Io non sono i miei pensieri ma colui che li pensa, per cui calarmi nei prodotti del mio pensiero e nelle direzioni di vita che essi mi forniscono sarebbe riduttivo: li osservo senza giudicare, come fossero di qualcun altro, e così per i gusti, ciò che mi piace e ciò che non mi piace (p. 15).
Le modalità del voicing, insomma, nel libro, sono plurime e stratificate. A gestirle interviene sia la dimensione paragrafematica degli acapo, sia quella tipografica delle virgolette. Resta in ogni caso che questi due aspetti congiurano a isolare le due istanze enunciative messe a testo, quella che si esprime in seconda persona (senza mai passare, per sé, alla prima), da quella che, tra apici o caporali, può esprimersi in prima persona. Ci sono insomma differenti soggettività all’opera e capaci di presa di parola all’interno di questo testo: attanti e locutori, dotati di nome, proiezione di simulacri di soggettività, dànno vita a un piano d’azione finzionale che però si fa carico, in modo paradossale e stratificato, di parole riusate, di un mosaico di citazioni provenienti, in qualche modo, dal mondo reale, o comunque da mondi finzionali indipendenti da quelli attivabili dall’autore. Una simile impostazione, nella sua sistematicità, è alcunché di dotato di assoluta originalità. E costituisce un qualcosa che evidentemente può essere letto come una traduzione procedurale di un fatto di ideologia letteraria.
2.
In effetti Broggi, ben consapevole dell’inquadramento ricevuto, a livello di ricezione, dal suo profilo autoriale, che fa corrispondere il suo lavoro all’ambito delle scritture di ricerca, e quindi tende a situarlo in una certa provincia delle scritture di tipo poetico-lirico, benché ormai scelga di dare vita a testi in prosa caratterizzati da tratti tipici della narrativa, non compie a partire da Noi un semplice passaggio a un nuovo genere, ma piuttosto esplica il tentativo di portare all’interno della scrittura di ricerca virtualità e problematiche tipiche dell’enunciazione narrativa: «in Broggi la possibilità di una narrazione non viene negata, purché il testo si pieghi a un’inclusione massima di componenti che la sintassi – in assenza di un io centralizzante – si incaricherà di organizzare senza gerarchizzarle» (così Davide Colussi, Una prova di lettura per Broggi («Noi» 1-4), «Giornale Di Storia Della Lingua Italiana», 3[1], 2024 p. 131, in un recente testo fondamentale su Broggi). Broggi, per giunta, costituisce questa serie di libri realizzati con la medesima tecnica compositiva (una versione evoluta e idiosincratica del cut-up) come trilogia: una trilogia in cui i personaggi che compaiono sono caratterizzati da tanto di nome e cognome. Ora, questo onore del nome, lungi dal costituire un dispositivo di identificazione e caratterizzazione del personaggio, pare congiurare a trasformare tutti i personaggi in una sorta di everyman: come tutti hanno un nome, ma questo nome non dice nulla sulla loro identità.
Si può aggiungere che i due libri non mostrano, a livello di personaggi, tratti organici di continuismo di tipo narrativo. Certo risultano analoghi e quindi probabilmente coincidenti certi aspetti dell’ambientazione, e della gestione del tempo; ma i personaggi di Sì non sono per forza i personaggi di Noi. Per esempio, i nomi di Rebeca Retz, e di Melania Terani non sono presenti nella fatica precedente:
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E ancora, attraverso il piano esposta a piombo alla luce solare nella persona di Rebeca Retz, di Melania Terani o di chiunque altro, su appezzamenti punteggiati di alberi, per i viottoli di un orto o per i terreni arativi, sopra una carrabile che si dirama per la campagna o per tragitti cittadini intersecati dai tagli delle traverse successive, addestrata a ordini di passaggio dei cui turni semaforici potresti mandare a memoria i tempi di attesa: tracciati entro e al di là dei quali, palpabili e propaganti, rimontano gli stormi stellari, l’esosfera, il ciclo delle albe e dei tramonti, la varietà astrale del paesaggio. Rimbalzano attiguità e concomitanza.
Hai coltivato ovunque interpolazioni riflessive come un perseverante allenamento alla provvisorietà, toccato il fondo della paura metafisica tra i miasmi di una zolfatara, inteso su un banco sabbioso che a Santander separa la ria dal mare che è lo stesso che hai sopra la testa lo spazio che si trova sotto i tuoi piedi; preso atto, su una cengia nei Grampians – cioè ancora e sempre nel medesimo posto –, della tua facoltà di nutrire affetto per altre persone, rendendoti conto di valori morali e senti-mentali che vanno al di là della tua vita, fornicato in un sottoscala per settimane … (p. 19)
Spicca, in questo passaggio che è uno tra i più emblematici del libro, la sua costante più rilevante, che è l’uso di un tu qui rivolto a un personaggio di genere femminile (anche se non è chiaro se e quale dei due nominati). Ritorna altrove invece il nome di Maurizio, imponendo la domanda se si tratti della medesima figura di Maurizio Sabona che compariva nel libro precedente. Un passaggio come il seguente sembrerebbe confermare questa identità:
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Ma dimmi, Maurizio, come ti sei sentito nella foresta, nel viaggio? O se, piuttosto, passare e ripassare assiduamente per gli stessi luoghi per tragitti interminabili non sia stato il modo, l’eterno trapestio dei piedi, l’orientamento prevalentemente eretto e il cielo azzurro sulle spalle… Prendi la coperta dal ripiano dell’armadio, qui a sinistra una birra dolce, un frutto candito, una tartina… (p. 51).
L’autore si rivolge a Maurizio con un tu che, nel presentare la parola-chiave del viaggio, esibisce tutta la sua continuità alla vicenda del libro precedente (ciò che è confermato dall’identificazione autoriale operata attraverso la nota al piede della stessa pagina).
Da questo punto di vista, allora, il tentativo parrebbe corrispondere non tanto alla necessità di appropriarsi di tecniche narrative vòlte a impiegare un genere letterario diverso per un’esigenza di ampliamento del mercato simbolico sotteso alla propria esperienza di scrittura; piuttosto, l’elemento narrativo serve a introdurre all’interno delle scritture di ricerca, nuove possibilità di sfaccettatura della piattaforma enunciativa, generando nuove soluzioni al problema originario della scrittura di Broggi. I personaggi insomma possono essere gli stessi oppure no, e ciò è perfettamente indifferente, perché uno dei primi obiettivi di questo libro è superare il feticcio dell’identità. Per quanto riguarda il caso di Maurizio, si tratta forse in effetti della allegorizzazione della presenza autoriale a testo: che quindi resta tratteggiata in modo da essere indecidibile. Gli elementi di carattere narratologico, insomma, sono presenti, ma riusati con fini ben diversi da quelli consueti: alla fine, la dimensione narrativa serve forse solo per attrarre anche l’autore tra i simulacri di soggettività presenti a testo, cui tutto capita in un luogo, ma, in qualche modo, per caso, nel quadro di una vicissitudine generale.
A conferma di ciò si può rilevare che anche Sì, come già Noi, costituisce un caso di narrazione senza evento, non nel senso che non accada nulla a livello narratologico nel testo, ma piuttosto nel senso che nessun evento apporta cambiamenti effettivi sulla linea del tempo, anche perché l’unico evento effettivo è, qui come in Noi, il linguaggio. Anche qui, infatti, come già in Noi, gli accadimenti che occorrono ai personaggi non si traducono poi in positive modifiche della linea narrativa. Inoltre, la linea temporale e l’ordinamento delle prose che costituiscono il libro è volutamente invertita (come già ha rilevato nella sua recensione Alberto Comparini), segno che i personaggi si muovono in un mondo in cui c’è indifferenza rispetto alle coordinate del percorso cronologico.
3.
Si potrebbe dire che più in generale il primo problema, non solo di Broggi, ma di tutte le scritture di ricerca, consista nella necessità di mettere in crisi e sottoporre a verifica le piattaforme enunciative solitamente connesse ai generi letterari, inizialmente il genere lirico, oggi più ampiamente tutti i generi. La scoperta cardine della scrittura di ricerca è che la letterarietà del testo letterario risulta dall’inserimento di specifiche marche enunciative all’interno del testo stesso, che attivano o disattivano modalità di lettura e di fruizione, e che in fin dei conti finzionalizzano il messaggio. La finzionalizzazione del messaggio è in questo senso il proprio dell’enunciazione letteraria, e l’enunciazione letteraria è da questo punto di vista un particolare modo di gestire nel testo tutte quelle marche che hanno a che fare con la dimensione della finzionalizzazione della soggettività: la presenza della soggettività nel testo, quando questo è in quanto estetico sottratto alle catene della fattualità, rende obbligatorio in qualche modo chiedersi se non sia finzionale ciò che si sta leggendo, segno che la finzionalità è archistruttura fondamentale del discorso estetico, in un certo senso.
Emerge, allora, un trattamento materialistico del lavoro dell’enunciazione: ossia un trattamento dell’enunciazione come qualcosa di materiale nella sua processualità: qualcosa di non dato di per sé, ma da inquadrarsi all’interno dei contesti pragmatici di fruizione, attraverso un lavoro su elementi positivi, circoscrivibili, individuabili.
Che tale questione, nel libro di Broggi, vada allora di pari passi con una problematizzazione del concetto di finzionalità, viene da sé. Finzionalità, autorialità e condizioni di enunciazione sono i tre vertici di un triangolo che in qualche modo contribuisce a dare un’identità al libro e ai libri di Broggi: tutto ciò gira intorno al testo come deposito plurimo e stratificato di marche di soggettività.
Queste marche di soggettività risultano in primo luogo però caratterizzate da una metamorficità assoluta: tutto ciò che è mondano è transeunte, mentre l’unica cosa che resiste al tempo è, in fin dei conti, la lingua: «Ma ecco che sulla riva c’è un ragazzino. Provi a chiamarlo in qualche modo: tutti i nomi vanno bene» (p. 22).
4.
Ma è il momento di passare ad analizzare il tratto caratteristico più evidente del libro, ossia l’uso della seconda persona. Se Noi era un esperimento nell’ambito di ciò che la critica anglosassone ci ha abituato a chiamare we-narratives, come a suo tempo ha ricordato perfettamente Filippo Pennacchio, Sì potrebbe essere definito invece un caso problematico di you-narrative. Di questa onnipresenza del tu con tutta la sua problematicità, il seguente passaggio è forse uno dei più rappresentativi:
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Stai aspettando un bambino a seguito di un rapporto sessuale consumato in una missione in Somalia, hai smarrito in mare gli occhiali da sole, sei intrappolata in ascensore. All’asilo dove insegni stai proponendo un’attività con i gessetti colorati.
Sei finito su una sedia a rotelle, stai conversando e fumando in un cigar lounge, un messaggio al cellulare ti rivela che tua moglie ti tradisce.
Fai l’elemosina per le vie di Košice, la guida turistica a Cuzco, sei ferma di fronte alla vetrina di una drogheria mentre la città è scossa da un terremoto notturno.
Hai prenotato un volo per Città del Capo, per Atlanta, ti stai allenando a eseguire un putt su Ford Island, tra due giorni ti sposterai a Sapporo.
Sei stata morsa da uno spitz sulle scale del tuo condominio.
Stai guardando una partita di baseball al palmare mentre il tuo treno è in partenza, scattando foto ravvicinate di caccia in volo per una campagna pubblicitaria dell’Accademia Aeronautica, sei stato arrestato per violazione della libertà vigilata. Leggi Lo scimmiotto su una panchina del parco, hai comprato due paia di stivali usati che ti arrivano fino alla coscia (p. 31).
Come si vede, l’identità del personaggio cui si rivolge il tu risulta in realtà da una serie di atti e condizioni che non possono tutte insieme essere attribuite al medesimo personaggio. In questo senso, un primo aspetto è che il personaggio a cui ci si rivolge a suon di tu, è caratterizzato da determinazioni che non possono essere cooccorrenti, e tuttavia quel tu è tutte queste cose, contemporaneamente. Broggi introduce inoltre un elemento di scalarità cronologica (il passato prossimo), quasi a rimarcare come l’identità del personaggio sia già data, non si trovi nell’atto di costituirsi, e come però qualsiasi delle caratterizzazioni che emergono dal brano risulti perfettamente indifferente e intercambiabile: qui, come è pienamente evidente, si alternano identità femminili a altre maschili.
Ora, questa paradossale attribuzione di identità multiple al tu, che allude alla sua natura di «centro deittico occupabile da qualsiasi destinatario» (la citazione da Benveniste è a p. 5), ha però il potere non di trasformare la voce del narratore in qualcosa di inattendibile; anzi, l’uso del tu sembra in qualche modo produrre l’ulteriore effetto paradossale di occultare l’identità del narratore: come se a prendere la parola fosse la realtà o la vita stessa.
La vita stessa che parla: nella sua natura pancronica, agerarchica, il contromovimento che a partire da questa modalità particolare di scrittura al tu si riverbera sul narratore annullandolo nell’assoluta infinità del tutto, è forse il dato più importante e interessante di tutto il libro. La sua natura dialogica, quindi, nasconde un monologismo di fondo, perché ciò che parla, in un senso affatto diverso ovviamente da Pasolini, è la lingua stessa della realtà. Questo monologismo di fondo nasce a dispetto del mosaico di citazioni che costituisce il testo e che potenzialmente potrebbe produrre un plurilinguismo evidentissimo: riassorbito da una sorta di ideale unanimismo. Se il principio guida è la vita, questa si muove in una temporalità pancronica, donde l’enunciazione in presa diretta dove le cose sono appena accadute o stanno accadendo sotto gli occhi del lettore; la vita per esistere non ha bisogno di tempo ma solo di uno spazio che contenga tutte le soggettività possibili; quanto al tempo, la vita stessa è il tempo: ciò che accomuna tutti i soggetti.
5.
Il tutto si traduce, in fin dei conti, in questo libro, in una prosa che pone con forza e coerenza il problema della transindividualità: di questo concetto ha parlato nella sua bella recensione Lorenzo Mari. Questa identità che incessantemente adotta nuovi attributi e nuove determinazioni le une in contraddizione con le altre, non ha a che fare o meglio non presenta un carattere intersoggettivo (come ipotizzavo nella mia recensione a Noi), ma piuttosto transindividuale (il riferimento è al libro di Vittorio Morfino, Intersoggettività o transindividualità. Materiali per un’alternativa, Castel S. Pietro [RM], manifestolibri, 2022). Non si tratta infatti solo di poter individuare nell’altro quei tratti che lo rendono plurale e abitato da molteplici voci; si tratta piuttosto di dover rilevare l’infinita intercambiabilità di ogni voce, ogni atto, ogni persona. È un’evidenza che, nella sua potenza, riesce ad annullare lo spazio tra il tragico e l’idillico, e che sovverte in fin dei conti uno dei cardini del modernismo italiano.
In questo senso, bisognerebbe partire con il dire che, in fin dei conti, Broggi introduce con questa enunciazione in seconda persona il problema tutto ideologico dell’interpellazione (più precisamente: il meccanismo dell’adresse lyrique si trasforma in interpellazione), dimostrando appunto che non esiste altro che l’interpellazione, che la lingua di per sé è già sempre interpellazione; a questa interpellazione, al fatto che la lingua mi definisca e mi faccia essere qualcosa, il modernismo ha tentato di sottrarsi attraverso la dimensione del negativo («Codesto solo oggi possiamo dirti»); ma quell’«oggi» mostra che dietro al negativo c’è comunque l’utopia ormai irraggiungibile di una salvaguardia del soggetto in modo che possa abbracciare tutto: pouvoir tout dire; è in qualche modo la storicizzazione del soggetto a spogliarlo di ogni utopia totalizzante. La risposta di Broggi è invece che si può mandare in crisi il meccanismo che ci definisce e definendoci ci riduce a un ruolo sociale, anche attraverso un movimento affermativo, a patto di guardare al mondo dal punto di vista della vita, che è fuori della storia.
Ecco quindi perché il titolo, Sì:
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Àmbiti e sortite, vicissitudini, riverberi, germinazioni, tropismi e pasture, giaciture; farragini, incagli, languori e disinganni… Hai imparato ad annuire con il capo per dire Sì e a scuoterlo per dire No: proprio così, e ora la tua mano si appoggia al volto.
Sei ancora sveglia? Stai ancora dormendo?… C’è una contraddizione, non è vero? Appena ci rifletti c’è qualcos’altro: a che cosa pensa la tua mente? Fai questo e intanto fai quello, non sai in che modo cambierà il tuo comportamento, adesso o tra qualche istante sarai pronta ad abbandonare anche questa abitudine… (p. 46).
Diverse pagine più oltre:
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È possibile solo dire sì, il no non è più concepibile: tutto ciò che non accolgo provoca divisioni e qualsiasi separatezza genera di per sé conflitto».
«Ogni cosa che accade mi influenza, io sono di tutti, appartengo a tutti – ciascuno reca con sé qualcosa dell’altro perché l’altro è invariabilmente qualcuno che sta nella sua esperienza –, sono nel tessuto di tutto, esisto in una sorta di famiglia».
Ora nulla ti distrae o ti disturba… Tralascia l’illusione di poter uscire, tale pericolo non sussiste, ovunque sei sei a casa (pp. 58-59).
Se è un movimento affermativo a marcare la nostra costituzione soggettiva, almeno tanto quanto il movimento negativo di differenziazione, il libro di Broggi ha il pregio di mostrare una strada nuova sia alle scritture di ricerca sia al comparto tutto delle scritture liriche: è ancora al lavoro sulla soggettività, e quindi allo sperimentalismo relativo alla dimensione dell’enunciazione, che il testo letterario deve appellarsi per ampliare lo spazio dei possibili letterari: per poter convertire l’antico sogno reso impossibile del pouvoir tout dire, in un pouvoir tout être, dove tutto nel senso di ogni cosa, e tutto nel senso di tutte le cose, intimamente collimano.
Per scaricare il pdf clicca qui.
Foto di Francesca Coldebella Bergamin.





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