È stato detto, in modo più o meno diretto, che il nuovo libro auto-prodotto e riproducentesi di Demetrio Marra sia un libro di fallimenti e disastri.[1] È vero: i testi che esso contiene parlano spesso di una fine o apocalissi in fieri o in arrivo, che il soggetto o i soggetti poetici potranno difficilmente fermare. Il titolo non è da meno: al negativo, assume la posa montaliana del “non chiederci la parola”, perché possiamo dirti solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, come ha fatto notare magistralmente Flavio Santi;[2] mentre il sottotitolo fa l’occhiolino a quel particolare apocalitticismo ecologico e antimessianico che ha caratterizzato il mondo degli ultimi venti anni in risposta al disastro dell’apparente crisi ambientale. Dei “nove processi biofisici” menzionati da Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro Marra parlava già, oramai quasi tre anni fa, in uno dei suoi primi testi su lay0ut magazine.[3] Questi sarebbero quegli specifici processi globali di carattere biologico e fisico per i quali, superata una certa soglia, la fine del pianeta sarebbe inevitabile. Inutile dire che, per alcuni di questi, la soglia è già stata superata.

Quindi sì, è vero, tutto punta al fallimento in questo libro che parte dal disastro ambientale universale per pensare i disastri particolari ma spersonalizzati dei sé in rovina – in linea, da questo punto di vista, con la poesia del Novecento. Eppure, vorrei argomentare qui, il libro di Marra non è semplicemente il libro del fallimento – e sta qui la sua forza. Sarebbe un errore leggere quel “Non sappiamo come continuare” – e la letterale impossibilità a continuare alcune delle poesie contenute in questa raccolta, che si rivela a livello formale attraverso il segno d’interpunzione dei “due punti” che tenta di chiudere, senza riuscirci, più di un componimento – soltanto come una negatività totale e totalizzante, come un’apocalissi che non si può fermare, come il fallimento del sé, dell’uomo (al maschile), dell’universo.

Dire “non sappiamo come continuare,” infatti, vuol dire anche e soprattutto che noi non sappiamo come finire. Sì, è vero che l’apocalisse è imminente, che la fine è a venire, che il tempo sta per raggiungere il suo culmine, i nove processi biofisici potrebbero scoppiare da un momento all’altro. È vero, ma noi non sappiamo come finire, il che vuol dire che non siamo pronte a finire, ad abbandonarci a quella fine che ci perseguita, imminente, e ci minaccia. Chiamiamolo fallimento del fallimento o “un fallimento a matrioska”, ma il punto è che tale fallimento ha qualcosa di molto diverso dal fallimento puro e duro: esso non è senza speranza. È un fallimento a metà che non ci abbandona al nulla cosmico ma ci pone in quel tempo di mezzo, quel frattempo,[4] in cui una soggettività e una comunità nuove potrebbero apparire (e non è un caso che il libro sia dedicato “alle famigghie”). In altre parole ci lascia aperta la possibilità che un giorno saremo pronte a questa fine.

Dove? Fuori:

Come abbiamo già fatto notare, molte delle poesie di Marra in questa raccolta non finiscono. Terminano invece coi due punti, o senza punteggiatura, o con un invito alla lettrice a continuare lei ciò che il poeta non sa continuare, o con l’umile accettazione che no, “non sappiamo come continuare”. Queste poesie sono, come Marra fa notare attraverso i titoli di alcune sezioni della raccolta, solo degli “incipit” o, ancora peggio, degli “avantesti”:[5] in altre parole, o l’inizio di qualcosa che resterà non finito oppure l’inizio dell’inizio di qualcosa che nemmeno è cominciato.

Situandosi nello spazio-tempo del prima assoluto, queste poesie si liberano del tempo stesso[6]  e, insieme, aprono a un altro tempo, il tempo di mezzo, il tempo che resta quando il tempo della poesia è finito. Ma non è solo un tempo altro ad aprirsi alla fine di queste poesie; è anche uno spazio altro in cui la lettrice si ritrova improvvisamente fiondata. Questo spazio è ciò che Marra chiama, a varie riprese e anche quando non dovrebbe, lo spazio del fuori.[7] È come se, finita la poesia che non può finire né cominciare, la lettrice si ritrovasse lei stessa a completarla, né all’interno di essa né all’interno di un qualche soggetto, ma fuori.

Ma cos’è questo fuori? Mi piacerebbe qui complicare leggermente l’idea marriana del fuori inserendola in una costellazione che credo apparirà, nel panorama poetico italiano contemporaneo, tanto sorprendente quanto rivelatrice. Infatti, il concetto del fuori ha, nella tradizione poetica e filosofica novecentesca europea, una storia affascinante e in questo momento storico forse tralasciata.[8] Vorrei qui riportarne due brevissimi momenti che credo ci possano aiutare a capire cosa accade quando le poesie di Marra non sanno più come continuare e noi lettrici e lettori ci ritroviamo, improvvisamente, in un tale fuori.


IL FUORI NEL NOVECENTO

Da una parte, possiamo tornare direttamente agli albori del modernismo europeo, a quei modernisti viennesi di fine ‘800, che in anticipo di una decina d’anni rispetto al resto d’Europa, provavano già a pensare il soggetto letterario oltre i suoi stessi limiti. Tra questi, il poeta rivoluzionario ed enfant prodige Hugo von Hofmannsthal, poi irrefrenabile conservatore, ci ha lasciato alcuni dei testi più belli e suggestivi sull’argomento. Nel suo “Dialogo su poesie” (1904), un dialogo fittizio tra due personaggi che fuori dalla finzione letteraria corrisponderebbero a Hofmannsthal e Stephan George, il più famoso poeta tedesco a cavallo tra i due secoli e amico di Hofmannsthal, troviamo una concezione rivoluzionaria del soggetto (non solo poetico):

I sentimenti, anche quelli appena avvertibili, tutti gli stati più segreti e profondi del nostro intimo non sono forse stranamente intrecciati a un paesaggio, a una stagione, a una condizione dell’aria, a un alito? […] Se vogliamo trovare noi stessi non è dentro di noi che dobbiamo scendere; è fuori che troviamo noi stessi, fuori. Come l’illusorio arcobaleno la nostra anima si tende sull’inarrestabile cascata dell’esistenza. Noi non possediamo il nostro io: questo ci investe dal di fuori come un vento, ci fugge a lungo e ritorna a noi in un soffio.[9]

Lasceremo da parte in questa sede la questione dell’aria e del soffio, di cui ho avuto modo di trattare altrove.[10] Qui il poeta austriaco va dritto alla questione del soggetto e dell’io e il suo rapporto col mondo esterno, con quell’ambiente, inteso nel senso spitzeriano come lo spazio o l’aria che circonda i soggetti e le cose.[11]

In completa rottura con la tradizione spiritualista che ha definito la storia della cultura europea e che si può riassumere nel detto agostiniano del “Noli foras ire, in te ipsum redi” (non andare fuori, ma torna dentro te stesso),[12] Hofmannsthal fonda la poetica modernista sull’impossibilità di dividere soggetto e mondo, la fonda cioè su quello spazio in cui i due si disperdono l’uno nell’altro: non il dentro della razionalità, ma il fuori del mondo. In altre parole, un errore accompagna, dal Romanticismo in poi, se non da prima, la concezione della poesia – e in particolare della poesia lirica, su cui nella modernità la prima si fonda: e cioè quello di credere che la poesia si fondi sulla soggettività, sull’interiorità, sulla spiritualità, tutti quei concetti che la modernità ha ereditato dalla storia della cultura occidentale (o della metafisica, che dir si voglia). Ma il modernismo e in parte il Romanticismo stesso lo avevano già detto: la poesia è tutto il contrario. La poesia non ci riporta a nessun dentro. Essa ci riporta fuori.

Non è un caso che, sessant’anni dopo Hofmannsthal, non altri che il filosofo più importante del Novecento europeo, Michel Foucault, sentisse ancora la necessità di abbattere una volta per tutte questo pregiudizio della critica letteraria. In un suo saggio del 1966 dedicato ai romanzi di Maurice Blanchot e intitolato Il pensiero del fuori, egli scrive:

Abitualmente si crede che la letteratura moderna sia caratterizzata da uno sdoppiamento che le permetterebbe di designarsi essa stessa; in questa auto-referenza essa avrebbe trovato il modo di interiorizzarsi fino all’estremo (di non essere altro che l’enunciato di se stesso) e al tempo stesso di manifestarsi nel segno scintillante della sua remota esistenza. Infatti, l’evento che ha fatto nascere quel che propriamente s’intende per “letteratura” appartiene all’ordine dell’interiorizzazione solo a uno sguardo superficiale; si tratta ben altrimenti di un passaggio al di “fuori”.[13]

Quella che chiamiamo letteratura, secondo Foucault, non ha niente a che fare con l’autoreferenzialità e con la metapoiesi, cioè con un testo che parla solo di se stesso e che in questo gioco di rimandi trova la possibilità del raggiungimento di un dentro perfetto e assoluto, dove tutto ha perfettamente senso – che non sarebbe poi altro che il regno dello spirito. Essa ha a che fare con il puro fuori.


IL FUORI DI MARRA

Mi pare che una poesia in particolare, una poesia anche troppo lirica per questo libro che, secondo Marra, non è di poesia lirica, possa rivelare tutta la vicinanza – e forse allo stesso tempo la distanza – da questa tradizione novecentesca. Leggiamola:


l’involontarietà di testo e contesto,

siamo già, sempre, fuori di noi:

fuori si colora come negli open world

volta per volta, con grande sforzo

e poi a un punto parliamo a vanvera di umano,

se ci siamo dentro, e postumano[14]


L’incipit della poesia situa immediatamente il soggetto poeta/lettrice nel regno del metapoetico: in causa è il testo come testo poetico. Se noi crediamo che esista una volontà che garantisce l’unione di poesia e mondo (testo e contesto, con figura etimologica inclusa), cioè che sia la volontà del poeta a garantire che il testo debba dipendere dal suo contesto, sbagliamo. Nella poesia, ci dice la poesia, non c’è alcuna volontà che possa garantire questo rapporto tra dentro e fuori. L’involontarietà regna sovrana perché – e il secondo verso esplicita tutto il ragionamento – non c’è nessuna interiorità, nessun soggetto poetico, non c’è modo di separare il soggetto dal mondo, il testo dal contesto, il linguaggio dal suo fuori, perché “siamo già, sempre, fuori di noi”.

La seconda strofa preserva lo stesso termine, “fuori”, ma sposta il campo semantico, questa volta sul soggetto ambientale per eccellenza del mondo contemporaneo – si pensi a Zelda: Breath of the Wild o al preferito di Marra, Skyrim – cioè il soggetto videoludico. Il videogioco, come ci insegna Emanuele Coccia in un pezzo che io stesso avevo tradotto in italiano per lay0ut magazine, è il luogo in cui facciamo l’esperienza onnipresente ma solitamente nascosta del perderci nel mondo attraverso un altro soggetto, il nostro avatar/demone.[15] Ecco che questa esperienza della creazione di un mondo altro diventa immagine del nostro esserci già sempre fuori.

Ma ciò che interessa alla poesia di questo fuori videoludico è qualcosa di molto specifico, ed è forse qui che appare la differenza tra il fuori di Marra e la tradizione precedente: e cioè la necessità dello “sforzo”. Pur essendo già sempre fuori di noi, qualcosa ci blocca: a questo fuori non ci è dato accedere facilmente e senza fatica, ma “con grande sforzo.” “Siamo già sempre fuori di noi”, dice la poesia, ma questo fuori non è un dato di fatto necessario e sufficiente, esso si forma a poco a poco, come il mondo pixellato dei videogiochi si forma a poco a poco all’orizzonte. Viviamo questa esperienza del fuori costantemente, eppure pensare questo fuori significa riconoscere quanto siamo destinati a parlare a vanvera. Ecco che ci ritroviamo sempre più spesso a parlare di umano, di un qualche “dentro” soggettivo, e di postumano, un qualche fuori in cui forse potremmo un giorno essere. Ma il punto di questa o queste poesie non è raggiungere un qualche fuori oltre una delle tante dicotomie. Il punto è il fuori assoluto, che si può pensare solo smettendo di finire, proprio come questa poesia. Demetrio Marra – l’ha detto varie volte e lo ribadisce anche nella giustificazione all’autopubblicazione che chiude il libro – non crede che la poesia possa avere alcun effetto sulla realtà.[16] Forse è anche per questo motivo che è arrivato ad annullare la sua poesia nel mero avantesto. La poesia, a differenza di quello che poteva credere un Hofmannsthal o un Foucault, non è il fuori, ma solo l’iniziazione al fuori. Essa non ci apre il fuori ma ci lascia sempre a due passi da esso. Allora davvero è come se, una volta finita la poesia che non può finire né cominciare, la lettrice o il lettore si ritrovassero loro stessi a doverla completare facendo il prossimo passo. Ma il prossimo passo non è in nessun testo, in nessun soggetto, in nessun tempo, esso è fuori, nel mondo che pensavamo di non poter toccare. E per qualcosa che dovrebbe restare senza alcun effetto, non mi pare poco.




[1] Dimitri Milleri nella brevissima e acutissima prefazione l’ha detto “un libro di fallimenti a matriosca”. Dimitri Milleri, Prefazione, Non sappiamo come continuare di Demetrio Marra, Autoproduzione, 2024, p. 7. Graziano Gala l’ha definito, insieme a Eucariota di Giuseppe Nibali, una “cronaca del disastro”. Graziano Gala, “Cronache del disastro: A proposito di Non sappiamo come continuare ed Eucariota”, Treccani, 23 gennaio 2024, https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_531.html.

[2] Flavio Santi, “Stai attento al fuoco. Lettera-recensione a Demetrio Marra”, Palin Magazine, 5 Febbraio 2024.Si noti anche il verso “è tempo ormai che non vi chiedo più niente:”, primo verso della terza stanza della prima poesia “Defining parody”, dove il voi è – come spesso in Marra che su questo gioca e su questo fonda il suo verso, visto che non crede nell’enjambement, la figura che dovrebbe dare senso al verso – sempre allo stesso tempo voi contingente (in questo caso probabilmente riferito ai suoi genitori con cui sta tentando di stabilire un dialogo) e voi universale. Separandosi dal resto del testo come verso a sé stante, questo verso è sia parole (discorso specifico e puntuale dell’io lirico con qualcuno) che langue (linguaggio generale atemporale di un io lirico universale), alla Montale, per intenderci. Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare, p. 13.

[3] Demetrio Marra, “Editoriale #4 – Se il mondo può assentarsi a poco a poco”, lay0ut magazine, 6 aprile 2021, https://www.layoutmagazine.it/editoriale-senza-mondo/. Lì il problema era proprio quello che il mondo, il fuori, sembrava star venendo meno.

[4] Agamben l’aveva chiamato “il tempo che resta”. Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000.

[5] Marra, Non sappiamo come continuare, pp. 23-31.

[6] Una di queste è esplicita a riguardo: “Ma che tempo libero io / voglio liberarmi del tempo non nel tempo!” Marra, Non sappiamo come continuare, 27.

[7] Nella sezione intitolata “Dentro”, è più del fuori che si parla che del dentro. Ed è con “fuori” in corsivo che termina, più o meno, la raccolta (anche se credo non fosse così in alcune versioni poco prima della pubblicazione). Marra, Non sappiamo come continuare, pp. 16-21; 66. Matteo Cristiano ha giustamente fatto notare che il lemma “fuori” appare ben 27 volte nel libro. Rimando alla sua recensione per una lettura psicologico-politica di questo fuori, che reputo complementare alla mia. Matteo Cristiano, “Invece è già dopo. L’irrealtà concreta di Demetrio Marra”, Nazione Indiana, 29 Aprile 2024, https://www.nazioneindiana.com/2024/04/29/invece-e-gia-dopo-lirrealta-concreta-di-demetrio-marra/.

[8] Potrebbe essere un errore, per quanto un bellissimo errore, ridurla alla letteratura weird. In ambito italiano, ma sicuramente non poetico, penso a Metatron: Rivista di Letteratura del Fuori, che magari un’influenza su Marra l’ha anche avuta.

[9] Hugo von Hofmannsthal, “Dialogo su poesie”, L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, Adelphi, 1991.

[10] Alberto Parisi, The Intention of the Spirit: Air, Breath, and Voice in Modern European Poetry and Philosophy, Tesi di dottorato, Harvard University, 2023.

[11] Leo Spitzer, “Milieu and Ambiance: An Essay in Historical Semantics”, Philosophy and Phenomenological Research, vol. 3, no. 1 (1942): pp. 1-42.

[12] Agostino, De vera religione, 39.72.

[13] Michel Foucault, Il pensiero del fuori, trad. V. del Ninno, SE, 1998, pp. 13-14.

[14] Marra, Non sappiamo come continuare, p. 19.

[15] Emanuele Coccia, “Il demone dei videogiochi”, trad. A. Parisi, lay0ut magazine, 6 maggio 2023, https://www.layoutmagazine.it/videogiochi-emanuele-coccia/.

[16] “La militanza culturale è una forma come un’altra di rinuncia alla militanza reale.” Marra, Non sappiamo come continuare, p. 75.






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L’immagine in copertina è di Matilde Manara.

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