L’anno scorso abbiamo aperto una nuova rubrica dedicata all’ispirazione, in particolare alle questioni pratiche connesse a ciò che usualmente definiamo con questo termine.  Quello che ci proponiamo di fare con questa rubrica è indagare la natura personale e operativa dell’ispirazione, il suo modo di declinarsi in soggetti diversi, il grado di autocoscienza in chi scrive. Abbiamo dunque invitato alcuni autori e autrici a porsi il problema, a fermarsi e a pensare se stessi nel momento della scrittura. L’introduzione alla rubrica, scritta dalla redazione, la trovate a questo link: Non è lavoro sul nulla: questioni pratiche sull’ispirazione. L’ebook del primo ciclo di interviste e interventi a questo: Non è lavoro sul nulla – ebook.

Intervento di Giulia Martini

Intanto è un lavoro dal nulla: la dettatura comincia ex nihilo. All’inizio si tratta di una scansione ritmica che prende consistenza: non so cosa scriverò, ma sento nascere una necessità che gli accenti cadano in un certo modo; i timbri si specializzano, si definiscono progressivamente, emergendo nella loro relazione; le parole arrivano soltanto dopo, rintoccano dentro questi campi sonori, li rendono veri. Ora, tutto questo processo, questo rito, in realtà dura pochissimo (a volte sembra sincrono) e avviene nella microscala di un verso o di un’unità strofica.
Quindi, di fatto, è proprio un lavoro sul nulla: uno si abbandona, si affida completamente a un ascolto, come un appuntamento nel vuoto; il motivo del dictatum mi restituisce questa idea fondamentale che il produttore sia innanzitutto un ricevente (e la produzione una ri-produzione). Una riproduzione in tutti i sensi, visto che alla fine scrivo sempre la stessa cosa (non ci posso fare niente e non ne posso fare a meno); ma c’è un riconoscimento a posteriori, per cui dopo, quando rileggo, mi rendo conto di avere scritto esattamente quello che volevo-dovevo (i due concetti qui si sovrappongono) scrivere, e questo vale anche per le ‘poesie brutte’, che sono la grande maggioranza.
Ma è anche un lavoro con nulla. Scrivo su fogli bianchi, di solito sui blocchetti da schizzo, quelli che si strappano; spesso capita che il primo verso che si forma sia proprio l’ultimo: allora lo trascrivo nella parte inferiore del foglio, e il testo nasce risalendo all’indietro, a tentoni, fino all’incipit; copio e ricopio le parti già formate, foglio dopo foglio, fino a quando non sento più niente che si aggiunge o si cambia. Le possibilità variantistiche si aggirano lì, nel regime instabile dei fogli che si accumulano davanti e intorno: è rarissimo che poi torni su un testo, che sia a distanza di un giorno o di mesi, come se il gesto che lo produce avesse un unico tempo, per quanto internamente (e anche letteralmente, materialmente) stratificato (nel palinsesto dei fogli); di altra stoffa è il lavoro sulla struttura del libro, in continua trasformazione. Mi sembra comunque notevole che una poesia, tutto questo sforzo di ascolto, non stia materialmente da nessuna parte, giusto un velo di inchiostro dallo spessore veramente nullo. Mi viene in mente l’Indovinello veronese, una delle prime tracce dell’italiano volgare, appuntato a margine di un codice liturgico mozarabico, dove c’è questa immagine straordinaria della mano che scrive, con le dita paragonate a buoi che arano il foglio bianco, e sul foglio compaiono le parole nere: «se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba» (spingeva i buoi davanti a sé, arava un prato bianco, e teneva un aratro bianco, e seminava un seme nero).
Coursil parla dell’enunciatore nei termini di posto vuoto: in sostanza l’enunciatore sta da un’altra parte rispetto al messaggio imprevedibile e necessario che lo attraversa, e che si incarna nel locutore. Lo dice chiaramente Valéry quando parla della relazione estenuante e gioiosa tra la voce che è e la voce che viene e che deve venire, relazione che nella sua accidentalità radicale ci appare un dono sontuoso della fortuna:

Un poème est un discours qui exige et qui entraîne une liaison continuée entre la voix qui est et la voix qui vient et qui doit venir. Et cette voix doit être telle qu’elle s’impose, et qu’elle excite l’état affectif dont le texte soit l’unique expression verbale. […] Cependant que notre jouissance ou notre joie est forte, forte comme un fait, l’existence et la formation du moyen, de l’œuvre génératrice de notre sensation, nous semblent accidentelles. Cette existence nous apparaît l’effet d’un hasard extraordinaire, d’un don somptueux de la fortune […]. L’esprit qui produit semble ailleurs, […] il lutte contre ce qu’il est obligé d’admettre, de produire ou d’émettre; et en somme, contre sa nature et son activité accidentelle et instantanée. […] Nous attendons simplement que ce que nous désirons se produise, car nous ne pouvons que l’attendre. Nous n’avons aucun moyen d’atteindre exactement en nous ce que nous souhaitons en obtenir. […] Alors plus nous donnons, plus volons-nous donner, tout en croyant de recevoir[1]

«L’esprit qui produit semble ailleurs»: chi produce sembra trovarsi altrove, nell’alterità che «ditta dentro»; che poi la si chiami Amore, Dio o Ispirazione, il punto mi sembra praticare una qualità dell’ascolto (ancora Valéry parla di attenzione in movimento). Infine, nonostante sia un lavoro sul nulla, è un lavoro scomodo: scrivo sul pavimento, come se favorisse un contatto.


[1] Paul Valéry, Cours de poétique. I. Le corps et l’esprit. 1937-1940, édition de William Marx, Paris, Gallimard, 2023, pp. 99-106. «Una poesia è un discorso che esige e comporta un collegamento continuo tra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, da stimolare quello stato affettivo di cui testo è la sola espressione verbale. […] Per quanto il nostro godimento o la nostra gioia sia forte, forte come un fatto, l’esistenza e la formazione del mezzo, dell’opera generatrice della nostra sensazione, ci sembrano accidentali. Questa esistenza ci appare l’effetto di un accidente straordinario, di un dono sontuoso della fortuna […]. Lo spirito che produce sembra altrove, […] lotta contro ciò che è costretto ad ammettere, produrre o emettere; e insomma, contro la sua natura e la sua attività accidentale e istantanea. […] Aspettiamo semplicemente che ciò che desideriamo accada, perché non possiamo fare altro che aspettarlo. Non abbiamo alcun modo di attendere esattamente in noi ciò che vogliamo da noi. […] Allora più diamo, più vogliamo dare, ma ci sembra di ricevere» (traduzione mia). 


Per scaricare l’intervento: Non è lavoro sul nulla – Giulia Martini

Immagine: Elisabetta Biondi, Parola, un’allusione, Tecnica mista su tela, 40x40cm.

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