Discorso ed Etica

levinas

di Emmanuel Lévinas

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[In attesa di ripartire con un nuovo ciclo a settembre e per non lasciare soli i nostri lettori, durante la pausa estiva ripubblicheremo alcuni materiali usciti nell’ultimo anno. Questo saggio è tratto da E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1982, pp. 70-73, ed è stato pubblicato il 13 febbraio 2017.]

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Si può fondare l’oggettività e l’universalità del pensiero sul discorso? Il pensiero universale non è di per sé anteriore al discorso? Uno spirito, parlando, non evoca quello che l’altro spirito ha già pensato, partecipando entrambi alle idee comuni? Ma la comunità del pensiero avrebbe dovuto rendere impossibile il linguaggio come relazione tra gli esseri. Il discorso coerente è uno. Un pensiero universale può fare a meno della comunicazione. Una ragione non può essere altro per una ragione. Come può una ragione essere un io o un altro, dato che il suo essere stesso consiste nel rinunciare alla singolarità?

Il pensiero europeo ha sempre combattuto come scettica l’idea dell’uomo misura di tutte le cose, benché questa idea comporti l’idea della separazione atea e uno dei fondamenti del discorso. L’io senziente, per essa, non poteva fondare la Ragione, l’io era definito dalla ragione. La ragione che parla alla prima persona non si rivolge all’Altro, tiene un monologo. E, viceversa, essa potrebbe avere accesso alla vera personalità, potrebbe ritrovare la sovranità caratteristica della persona autonoma solo diventando universale. I pensatori separati diventano razionali solo nella misura in cui i loro atti personali e particolari del pensare figurano come momenti di questo discorso unico ed universale. Nell’individuo pensante potrebbe esserci ragione solo nella misura in cui esso fosse in grado di entrare a sua volta nel proprio discorso, nella misura in cui, nel senso etimologico del termine, il pensiero fosse in gradi di comprendere il pensatore, nella misura in cui fosse in grado di inglobarlo.

Ma fare del pensatore un momento del pensiero significa limitare la funzione rivelatrice del linguaggio alla sua coerenza che traduce la coerenza dei concetti. In questa coerenza si volatizza l’io unico del pensatore. La funzione del linguaggio consisterebbe nel sopprimere l’Altro, mettendolo d’accordo con il Medesimo! Ora, nella sua funzione di espressione, il linguaggio mantiene proprio l’altro cui si rivolge, che interpella o invoca. Certo, il linguaggio non consiste nell’invocarlo come essere rappresentato e pensato. Ma è per questo che il linguaggio instaura una relazione irriducibile alla relazione soggetto-oggetto: la rivelazione dell’Altro. Il linguaggio, come sistema di segni, può costituirsi soltanto in questa rivelazione. L’altro interpellato non è un rappresentato, non è un dato, non è un particolare, da un lato già offerto alla generalizzazione. Lungi dal presupporre universalità e generalità, soltanto il linguaggio li rende possibili. Il linguaggio presuppone degli interlocutori, una pluralità. Il loro commercio non è la rappresentazione dell’uno attraverso l’altro, né una partecipazione all’universalità, al piano comune del linguaggio. Il loro commercio, lo diremmo immediatamente, è etica.

[…] Il rapporto del linguaggio presuppone la trascendenza, la separazione radicale, l’estraneità degli interlocutori, la rivelazione dell’Altro a me. In altri termini, il linguaggio si parla là dove manca la comunità tra i termini della relazione, là dove manca, là dove deve soltanto costituirsi il piano comune. Si situa in questa trascendenza. Così il discorso è esperienza di qualcosa di assolutamente estraneo, “conoscenza” o “esperienza” pura, trauma dello stupore.  Solo l’assolutamente estraneo può istruirci. E solo l’uomo può essermi assolutamente estraneo – refrattario ad ogni tipologia, ad ogni genere, ad ogni caratteriologia, ad ogni classificazione – e, quindi, termine di una “conoscenza” che infine penetra al di là dell’oggetto. L’estraneità d’altri, la sua libertà stessa! Solo gli esseri liberi possono essere estranei gli uni agli altri. La libertà che li “accomuna” è appunto ciò che li separa. La “conoscenza pura”, il linguaggio, consiste nel rapporto con un essere che in un certo senso non mi è relativo; o, se si vuole, che è in relazione con me solo nella misura in cui è interamente relativo a sé, kath’auto essere che si situa al di là di qualsiasi attributo, che avrebbe appunto l’effetto di qualificarlo, cioè di ridurlo a ciò che gli è comune con altri esseri; essere quindi assolutamente nudo.

 Le cose sono nude, per metafora, solo quando sono senza ornamenti: i muri nudi, i paesaggi nudi. Non hanno bisogno di ornamento quando sono assorbite dall’attuazione della funzione per cui sono fatte: quando si subordinano alla loro finalità propria in un modo così radicale che le porta a scomparire in essa. Scompaiono sotto la loro forma. La percezione di cose individuali significa che non sono interamente assorbite in essa; allora risaltano per se stesse, filtrando, aprendosi un varco tra le loro forme, non si risolvono nelle relazioni che le legano alla totalità. Sono sempre, per qualche verso, come queste città industriali nelle quali tutto è finalizzato alla produzione, e che, però, soffocate dallo smog, piene di rifiuti e di tristezza, esistono anche per se stesse. Per una cosa la nudità è la sporgenza del suo essere sulla sua finalità. La sua assurdità, la sua inutilità appare proprio solo rispetto alla forma sulla quale si staglia e che le manca. La cosa è sempre un’opacità, una resistenza, una bruttura.

[…] La bellezza introduce quindi una finalità nuova – una finalità interna – in questo mondo nudo. Svelare con la scienza e con l’arte significa essenzialmente investire di un senso gli elementi, superare la percezione. Svelare una cosa significa illuminarla con la forma: trovarle un posto nel tutto scoprendo la sua funzione o la sua bellezza. L’opera del linguaggio è completamente diversa: consiste nell’entrare in rapporto con una nudità libera da qualsiasi forma, ma che ha un senso per se stessa, kath’auto, che è significante prima che noi si proietti la luce su di essa, che non appare come privazione sullo sfondo di un’ambivalenza di valori – (come bene o male, come bellezza o bruttezza) – ma come valore sempre positivo. Questa nudità è volto. La nudità del volto non è ciò che si offre a me perché lo sveli – e che, perciò, verrebbe ad essere offerto a me, al mio potere, ai miei occhi, alle mie percezioni, in una luce ad esso esterna. Il volto si è rivolto a me – e questa, appunto, è la sua nudità. E’ per se stesso e non in riferimento ad un sistema.

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Immagine: Jean Fautrier, Sarah (particolare), 1943, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid.

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