*
la confidenza dei vecchi amici può rovesciarsi senza preavviso in cattiveria. destino o meteorologia, un gesto esce dalla sequenza di quelli che l’hanno preceduto per guadagnare una sua violenza distratta, metallica. il peso di un attrezzo dentistico lasciato cadere sul petto. due volte sollevato e di nuovo gettato sulla piana abbandonata dal mio seno già scarso e adesso dileguato. senza più età né sesso mi ritiro nello spazio breve condiviso dal mio corpo con questo corpo, accordo la mia temperatura alla sua, coincido in durezza, peso, densità e solo quando mi ha neutralizzata rimango sola. finalmente. adesso sono io ad appoggiarmi sotto di lui, lo sostengo nella stanza vuota. il citofono suona e noi due siamo un cuneo proteso a raccogliere la luce della poltrona.
*
*
Giugno ha a volte luci così sfacciate…
la sua invasione piena di stonature
è il soffrire disordinato delle madri,
la violenza dei licei sottosopra
per le tornate elettorali.
Altre volte è un assedio occidentale,
sgombero delle città in estinzione,
dissipatio H.G., tregua che si allarga
senza durare, all’ombra dei pendolari.
*
*
Senza darle particolare importanza,
vorrei parlare di lei: per dissimularla
allontanare lei precipitata e intermittente,
vasta rimessa colma di vetture, 2/ e bus notturni,
uno per uno infilati o spenti.
mia madre, ecco lo spettro comodo
in cui calare lei
dove soffiare lei
mite e più larga
meno animale e più pietra.
L’idea di doverle prestare delle cure,
contraccambiare con le mie le sue,
saldare il conto: a questo mi preparo
come a un processo, con la fretta inusitata degli appuntamenti
dal medico, quando le scale si attraversano
saltando due gradini per volta, poi nessuno,
senza ritmo e tornando indietro per sistemarsi
nel vetro dell’ascensore, ci si accorge
del fiato corto, l’alito pesante, la trama dell’impiantito.
Se devo immaginarlo temo soprattutto:
vestirla (non mi preoccupa il contrario)
mettendole un pigiama dei suoi,
nel moto di una violenza che sanno i figli,
nel mezzo piacere di infagottarla;
non mi spaventano le pappe o l’odore fitto nei materassi,
ma farle una puntura sì: esercitare
una pressione su di lei, inoculare in lei.
Questo esercizio come tanti altri,
per scongiurare la foto che non dimentico
(io vengo al mondo – lei spinge).
*
*
Contenta di deserti, sparsa
*
Quando ho amato è stato altrui, occasione fugace, distrazione sciocca dal mio lavoro assiduo: la fortificazione. Con la stessa volgarità con cui un grande attrezzo da giardinaggio piove sui campi e li irriga, ho reso sterile il paesaggio intorno a me; nella stagione meno propizia ho dissodato la terra e avvelenato gli specchi d’acqua; sulle pareti di casa e intorno al mio geloso letto ho steso senza cura mani di verderame. Ho lasciato che alcuni si avvicinassero per una mia indolenza, ma sempre ho sperato nel cattivo tempo, a respingerli. soprattutto mi sono lasciata amare e ne ho provato gratitudine e stanchezza: l’impostura che vivo è una legge cui non mi sottraggo.
*
*
Dovuto ad A.R.
*
Scritto da un interno (clinica o scuola):
c’è come un rigore nella stanza. Visita breve
giro di chiave, mania di piccoli furti
mentre fuori mi offende la punta del cedro,
sveglio-pazzo di indecifrati tagli
che avrei studiato a penna,
se fossi rimasto.
Da qui, dalla scolorita mia sera
tiro presagi dietro la ruota
mandata a fondo di collina. appoggiati, dico
appoggiati! cade la campagna intera ed è acqua
sugli ossari, vapore ottuso,
muro asciutto al sole.
ma il cedro, nel mio privato azzurro,
accetta di me tutto quello che viene…
*
Immagine: Mario Giacomelli, dalla serie Presa di coscienza della natura, 1977-2000