Pubblichiamo una scelta di testi e un estratto dall’introduzione a Ceneri germogli ceneri, antologia poetica di Eugenio De Signoribus (Mondadori, Lo Specchio, 2025), e un estratto dall’introduzione di Stefano Verdino.

Dall’Introduzione di Stefano Verdino:

[…]

Libro davvero di una vita, e libro di poesia (non raccolta di testi) costruito sul tema del viaggio e delle soste (stazioni), quanto mai connotato (via crucis), compatto e articolato, come si è cercato di vedere, tra interiorità di pensieri, emozioni, ricordi autobiografici, e testimonianza civile con le sue varie gamme intrecciate di sgomenti referti, allarmi, amarezze, sdegni, ironie, disperazione, malinconia, auspici e utopie, che sono gli elementi fondamentali della ricerca di «verità» di una vita. Il tutto nella veste – che è decisiva sostanza – di una lingua minutamente plasmata nel suo lessico: questo impasta colto e popolare, dialetto e arcaismi, latino e neologismi di grande forza espressiva, spesso modulati sui verbi («sfaglia, se ne affardella, smoìna, spiraglia, slampa, snulla, s’invetrina»). Ne deriva una fusione, verrebbe da dire, d’acciaio; sì perché l’effetto è quello di versi taglienti e nitidi (come spero abbiano mostrato le citazioni), per il peculiare tessuto di una paratassi come sospesa tra le strofe, di parallelismi di frasi, di aspre juncturae (quanto mai callidae, per memorabile inventiva) nel loro scatto: «impalpebrita mutezza», «empio scolorare», «aguzzi idiomi», «fetali spine», «faro ipocrita», «sbrullio vorticante», «tempi pretoriani», ecc. Anche la misura spesso ellittica dell’annodo verbale, con il suo sapore di brevitas tacitiana, è ulteriore componente di un dire serrato allo spasimo, ma anche come intermittente, lavorato dal silenzio. Per di più la severità di una prosodia precisa, con il bilanciato intervento di rime e assonanze, di forte incidenza del verbo, in misure strofiche per lo più ricorrenti (distici, terzine, quartine) configura un elemento di compattezza e tensione, tra il pieno verbale e la pausa interstrofica, ma va ricordato un ulteriore elemento di contrappunto, nel libro, tra lo scatto dei versi e il ritmo narrativo dei nonversi. E non sfuggirà il segnale, deliberato, di non chiusura dei testi, con l’assenza di un punto finale, da mettere in relazione anche con la titolatura marginata, spesso a didascalia, in modo da suggerire un «esodo» oltretestuale (nella mente di chi scrive e legge).

Tutto concorre a una testualità di forte chiaroscuro, drammatica, necessitata dalla responsabilità della dolente testimonianza (e protesta) di oltre mezzo secolo di offese all’umano e alla natura. Una tematica civile che non si presenta predicatoria, perché intimamente vissuta in emozioni e sentimenti, e scalpellata nei gangli di quella lingua acciarina e balenante, del tutto incompatibile o se si vuole inattuale rispetto al tritume della pratica linguistica corrente, usa e getta. La lingua di De Signoribus è una lingua resistente, in molti sensi, per contenuto e per forma, petrosa, se si vuole, ma con margini di tenerezza, e chiara nelle sue istanze.

Lo sottolineano anche alcuni campi semantici ricorrenti, spesso in polarità, come da una parte il reiterato campo dell’oscuro («buio canforato», «vacilla nel buio anche il nudo pensiero», «villaggio oscuro») e del putrido («muri purulenti», «lordo spaccio») dove ha frequentemente spicco l’acqua (ben studiata da Giancarlo Alfano), variamente melmosa di cloaca, da palude infernale («liquami che filtrano in canali», «il buio scolo», «morti nell’acqua di fogna») e dall’altra parte il campo della luce («luce inerme, irredenta luce», «la luce si converte in pane», «e se alla prima luce non vedessi / la casa dalle finestre aperte // m’accascerei»), ovvero il trasparire da una parte di scene e figuri inquietanti («tra lo sguazzare dei mali s’accasavano / iene irridenti», «cupi gladiatori») e dall’altra i bambini con il loro portato di vita ferita, già più volte ricordati. E ancora l’inespungibile rovello della «colpa» e la desolata invocazione di «perdono» e «innocenza».

Il titolo del libro Ceneri germogli ceneri ci porta a un ritmo ternario che in termini musicali si potrebbe tradurre come adagio-allegro-adagio. Certamente l’anima musicale di Eugenio, cultore cameristico dell’ultimo Beethoven – come il movimento «lento assai» del quartetto n. 16 – e della sonata D. 960 di Schubert con il suo «molto moderato», inclina per l’adagio più sommesso possibile, ma a me la lettura di questo poema con la sua continua smagliante elaborazione ha fatto venire in mente Metamorphosen dell’ultimo anomalo ed enigmatico Strauss per quel ritmo ternario di adagio luttuoso iniziale e finale e al centro quello spasimo a tese ondate dei violini, musica nata sullo scenario incenerito dalla guerra.

Dalla sezione «SUMMA MINIMA»

(stasera volevo inviarvi una foto

d’un rosso tramonto sui monti

d’una prodigiosa bellezza…

ma finché ho cercato la posa

la luce animosa s’è spenta

in pochi istanti era buio)

L’amore per la lingua

L’amore per la lingua è il più fedele.

Ha in sé la potenza unica della scoperta della parola.

Il poter dire ciò che si è e ciò che si diventa.

Il confronto, il mondo. L’affronto e il conflitto.

La possibilità di rispondere alle ferite e di curarle.

Il suo nascere antico e sempre nuovo, il suo andare

 nel tempo, malgrado esso, fuori di esso.

L’amore per la lingua contiene gli altri amori,

dal loro annuncio alla loro consumazione.

Va oltre. Salva. (Forse salva).

Non giungo mai

egli ammette: non giungo mai in un posto, parto, vedo

aprirsi la campagna o il mare,

vedo le case farsi più fitte e alte,

scendo in una più vasta stazione, guardo

intorno, frazione dopo frazione cerco solo

il volto… qualcuno mi viene incontro

o mi chiama, sono salvo… sono giunto da lui,

comincio a vedere il resto, a conviverlo

Una carta

non posso far finta di niente

su niente, neppure volendo

non posso, assorbo ogni cosa

tormento di macchia spugnosa

porosa anche la mente

nel suo mostrarsi-ritrarsi

alla lente

del suo chiedere ossesso

la prova della coscienza

la sua totale adesione…

potrei far finta di niente

votarmi all’incerta mia vita

ma sempre del calice amaro

sentirei il sapore alle labbra

e in interiore la colpa

sarebbe un peso di piombo

allora quel che posso vorrei

non fosse un brecco di vanità

ma un sasso chiaro nel fondo

mia verità

Ordine nuovo

forse porta di là, oltre la diga

l’acqua che corre sulla lunga secca

verso l’albale immagine valliva

se non si scioglie prima della balza

o nello sbalzo non svapora in vuoto

o non s’infogna dove il terremoto

ha sfasato la retta e la sorgiva…

Forse non ti riconosco

forse non ti riconosco, voce,

perché in te non rinasco

ma mi dibatto e commuovo

per il balbettìo dei tuoi occhi

per l’intermittente lumìo

d’un disperato segnale

come da un corpo separato

ma vivo ancora…

e ti ascolto e ti accolgo

e verso te m’attiro

come una vocale

dentro la parola

Ciascuno nella propria carne

ciascuno nella propria carne

sente la prova che ha

e in quell’agone incontra

il sé umiliato o estraneo

e cerca un tessuto vivente

e il sangue comune

malgrado il grido impotente

che nel fondo si svela…

e lì possiamo sentire

che sotto la spessa tela

c’è la speranza offerente

nel turbato alfabeto

un suono occultato

una sillaba ignota

(non mi rassegno)

chissà se dopo un tortuoso arrancare

s’arriva a un chiaro punto di snodo

da cui scorgere un luogo senza danno

oppure, abbandonata la finestra,

scavare sotto la propria soglia

e scansare imbucarsi scurricolare

e inoltrarsi fino alla caverna

dove ci scoprimmo umani

e nei graffitti reperire il segno

d’un altro seme e nel silenzio

entrare in quell’inizio

che non conosce il male

e nessun pegno

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Foto di Matilde Manara

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