Discomparse è l’ultima raccolta poetica di Gian Maria Annovi, pubblicata per i tipi di Aragno nell’ agosto 2023, finalista al Premio Strega Poesia 2024.

L’ultima raccolta di Gian Maria Annovi ha una voce limpida, che si dà in un verso dalle caratteristiche formali decisamente proprie. In effetti, Annovi è difficilmente inseribile in una precisa costellazione poetica, o in una tendenza specifica: è annoverato, nella Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea di Laura Pugno[1], tra gli «sperimentali».

È una «stella variabile». Proveremo a spiegare perché.

Assemblata in quasi dieci anni di lavoro, Discomparse è una raccolta poetica composta da «poemetti» narrativi[2]. L’andamento del libro, diviso in serie, riprende in parte lo schema proprio della precedente Italics (Aragno 2013). Ognuna delle cinque serie di Discomparse vuole raccontare una storia (o più storie), e si interseca e si specchia con le altre.

In quanto insiemi di testi a carattere narrativo, e ancora più che in una sezione di quella che può essere una raccolta «classica» – montaliana, ad esempio – ogni testo ha valore soprattutto in relazione agli altri. Inoltre, non c’è un soggetto unitario, o, se c’è, non rappresenta un singolo, bensì l’ «assolo» di una tra un insieme di voci, un coro (ricordando che «solo nel coro può esserci una certa verità»[3]). Non c’è quindi un «io autoriale», per dirla con Socci[4], elemento «marca» della poesia lirica.

D’altronde, nella poesia di Annovi, l’«io» non compariva più dal 2007, quando con Terza persona cortese (Edizioni D’If, 2007) il poeta aveva, tramite un fittizio Lei, ucciso definitivamente la prima persona («Lei si pente che già non mi ha interrato/nella fossa scavata nel giardino/me lo dice il silenzio che Lei parla/il Suo sguardo che è come di cecchino»[5]). Questo procedimento è, in fin dei conti, comune a vari poeti, anche se lì l’obiettivo era stato perseguito in modo decisamente originale; inoltre, l’apertura del soggetto lirico verso un soggetto «collettivo» ne sottolinea, ci sembra, l’aspetto «epidittico»[6] (quindi etico). Questi elementi fanno di Discomparse una raccolta che ben si inserirebbe in un filone etico-politico della poesia contemporanea (non solo italiana o europea), dove, oltre ad Annovi, troviamo numerose poete e poeti (per quanto riguarda l’Italia, un nome su tutti: quello di Antonella Anedda), riuniti sotto il segno di una poesia «relazionale», dove per «relazionale» intendiamo due aspetti diversi: 1. che crei un legame con altri poeti di altri luoghi e tempi, con altri media, con altre lingue e via dicendo; 2. che non rinunci alla sua comunicatività, e che generi la necessità di una risposta dal lettore, o addirittura di un’azione: un po’ come fa, per l’appunto, l’arte relazionale[7].

Nei suoi temi, ma, soprattutto, nelle sue forme – ed è qui che più mostra la sua politicità –, Annovi sceglie scientemente e chiaramente un’inclinazione dalla quale guardare la realtà, ergo una sua rappresentazione. Questa inclinazione è quella, «a minore» (quindi, come ci hanno insegnato Deleuze-Guattari, necessariamente politica[8]), di personaggi «svociati»: sono migranti, badanti, malati e malate, figure che spesso non rientrano nella narrazione estetica né tantomeno in quella mediatica (oppure sì, ma non sotto una luce positiva).

Il motivo per cui la raccolta di Annovi è così singolare, la sua poesia portatrice di un «differenziale»[9] nel panorama poetico nostrano non sta nel contenuto, che merita, però, una menzione. Infatti, potremmo dire che la questione postcoloniale (le sezioni II e IV: Estratti e Antiscoperta dei monti) è certamente qualcosa di piuttosto inedito in Italia, almeno in poesia, così come il tema dell’eutanasia (V sezione: Cor), politicamente ed eticamente conteso, assai attuale, non al centro della narrazione letteraria, né poetica nello specifico.

Ma l’operazione più riuscita di Annovi risiede, di fatto, nell’«inventare» una lingua, in una «fuga forzosa dall’italiano»[10] – dove «italiano» è quello «standard» della tradizione poetica: non il lessico quotidiano, né il parlato – dei personaggi. Una lingua che non si limita alla parola, ma si fa parola e tratto («punteggiature di non parole»[11]); o, ancora, si flette nell’imitazione di una lingua; oppure, incastona nell’italiano una parola in dialetto: è il caso di cunîn, “coniglio”, un quasi-senhal, un “revenant linguistico”[12] in un dialetto della provincia reggiana, che troviamo sia in Italics che ne La scolta.

Quella di Annovi è una parola ibridata, proteiforme, che non teme il neologismo («là dove la vita s’arradura/crescono piante/e idiomi»[13]):

Da Antiscoperta dei monti

Eppure, ciò che sorprende della lingua di Annovi è che essa, pur essendolo almeno in parte, non ci appare estranea, ma anzi risponde ad alcune caratteristiche proprie della poesia «lirica» tradizionale. Questo è dovuto alla sua musicalità, creata grazie alle molte rime – che però di rado seguono uno schema classico – allitterazioni, assonanze, alle figure di suono che sono anche figure di senso, alla cura nei rimandi letterari, mai scontati, mai troppo evidenti, alla sintassi regolare (ma non sempre), che non vuole scardinare la logica semantica seguita dal lettore, ma che con una certa gentilezza lo accompagna a mettere in dubbio il «filo del discorso», anche retoricamente inteso (perché è, comunque, «parola mai innocente»[14]), peraltro oggetto critico della serie Antiscoperta dei monti.

Forse potremmo collocare la sua scrittura, in parte, nella Language poetry, vista e considerata la sua evidente attitudine decostruzionista nei confronti del linguaggio. Il lavoro che Annovi fa su di esso – che ha qualcosa in comune (cioè: alcune tecniche) con le «scritture di ricerca» – prevede anche, infatti, un’apertura ad una dimensione «extra-linguistica», ad altri media, con cui il testo (letterariamente inteso) interagisce profondamente e da cui è profondamente modificato, giungendo alla costituzione di un nuovo testo (semioticamente inteso). Annovi aveva definito, in effetti, già nel 2010, le sue serie come «messa-in-movimento dell’immagine-testo»[15].

Queste caratteristiche rendono quella di Annovi, diremmo certamente, «poesia» «sperimentale», e Discomparse una raccolta che parla di lingua e linguaggio, e di lingua e linguaggio della poesia.

Questo percorso sperimentale è presente dall’inizio della sua produzione, ma viene notato seriamente dalla critica quando, nel 2013, esce per Nottetempo la plaquette La scolta, oggi prima sezione di Discomparse. La scolta è un poemetto che si compone di canti d’ingresso e fine, di «cori», e di dialoghi tra due personaggi che somigliano, in parte, a monologhi o soliloqui: un aspetto «teatrale» molto caro alla sua scrittura. I due «personaggi principali» sono una badante, proveniente da un imprecisato est europeo, e l’anziana a cui essa dedica le sue cure. Ciò che salta all’occhio immediatamente è la trascrizione fonetica della lingua: l’italiano scempio, ellittico di preposizioni e dai verbi non coniugati della badante («Signora ha catena di madonina/molto santa e di oro»[16]), cui risponde quello rigoroso, corretto e aulico, «paralizzato», della Signora. Si potrebbe quindi leggere la serie come uno scambio di battute tra l’italiano «poetico» della tradizione e quello che – vorrebbe! – essere un italiano della poesia oggi: multiforme, forse «sporcato» da altre parlate, una lingua che «s’innova e che/scalcia»[17], come la poesia di Annovi si «sporca» di nuovi temi, di nuove forme e dell’innesto con altri media. Si badi che l’intento del poeta non è parodico: può al massimo manifestarsi un sorriso amaro, nella drammaticità di ciò che viene raccontato: «luce di frigor si è rotto./chiamo telefono e viene/figlio grande di Signora.[…]/lui dice sì e mette mano./mi tocca. e io lascia fare./che frigor nuovo domani mi arriva»[18].

Nell’intervista che segue questa recensione, Annovi racconta che l’idea dell’italiano della Scolta nasce dall’ascolto di alcune conversazioni in un broken english di due donne ispanofone a New York. Ci troviamo di fronte ad una procedura simile a quella adottata, ad esempio, dall’artista Jenny Holzer, nella serie Truisms 1977-1979, che prende il nome di eavesdropping e prevede proprio il riutilizzo (in poesia o arte che sia) di samplings, di alcune «epifanie sonore»[19] del quotidiano.

Procedendo verso le sezioni centrali dell’opera, ci imbattiamo nella serie Estratti, forse definibile come un «iconotesto». Infatti, si alternano tra le sue pagine i versi in cui hanno voce dei e delle migranti, e delle silhouettes oscurate di altri personaggi afrodiscendenti, estratte da alcune opere d’arte: un procedimento che deve forse qualcosa alle riemergenze (Nachleben) di Aby Warburg, e alla lettura che ne fa Didi-Huberman[20]. Così, dei personaggi provenienti da altre epoche sono risemantizzati, riemergono – discompaiono – attraverso il confronto con il tempo presente e le numerose scomparse in mare. Annovi riesce, con una delicata operazione che tenta con successo di non lasciare spazio alla nominazione coloniale, a legittimare le voci dei personaggi e a mostrare come l’invisibilizzazione dell’Occidente assuma, nel tempo, forme diverse, ma resti, di fatto, intatta.

Anton Domenico Gabbiani, Ritratto di tre musicisti della corte medicea, re-intitolato Ragazza mossi con pappagallo, 1687, olio su tela, 141×208 cm, Firenze, Galleria dell’Accademia.

Ecco: un’operazione del genere esplicita il proprio tema (poesia civile), ma non si ferma al patente, e chiede alla lettrice uno sforzo ulteriore: intanto, analogico; e poi effettivo, pragmatico, cioè quello di cercare di capire da quali quadri vengono le silhouettes oscurate: che personaggio era il migrante in questione. Infatti, partendo dalla Quadreria in fondo alla serie, la lettrice curiosa non troverà i veri titoli delle opere, e dovrà cercare gli originali solo via autore, dimensioni, data, provenienza: un’operazione non immediata, che apre ancora la poesia di Annovi ad altro. Magari a una ricerca in rete, a proposito di «relazione».

Un’ultima nota rispetto alla metrica, che ci appare ineludibile parlando di poesia. Prenderemo ad esempio la sezione centrale della raccolta: Visita alla città di Sodoma.

Si tratta di una sorta di parodia di un viaggio infernale (dove la lingua di Dante è infatti ben presente[21]), in cui un pullman di turisti omosessuali, di cui conosciamo solo professione e provenienza (nella critica del faccio dunque sono), va in visita, per l’appunto, alla città di Sodoma. La seconda parte della serie è costituita da immagini di lapidi che recano un breve epitaffio, sempre in poesia, che i turisti incontrano nella città, sempre nel segno dell’interazione tra testo e immagine. Questa serie ci interessa per due motivi: il primo è che, raramente, nell’opera di Annovi, si incontrano passaggi che presentano un grado così alto di ironia; il secondo è che, proprio in virtù di essa, possiamo comprendere l’ossessività del lavoro formale sotteso alla sua scrittura, e l’interazione continua, come un ping-pong, tra forma e contenuto.

Uno degli intenti del testo è quello di dare un saggio e criticare a un tempo il linguaggio della comunità gay (italiana e non), attraverso una replica linguistica degli stereotipi a cui lo stesso mondo gay è soggetto, ma che, a volte, non si sforza di smentire, conformandovisi.

Il tentativo di questa speciale mimesis passa da una «metrica queer»[22], cioè irregolare, nell’alternanza tra versi tipici della tradizione (settenari, novenari, endecasillabi), e versi brevissimi, che fanno da contraltare – elevando e abbassando continuamente il tono – al tema. Così come l’impiego della rima, che è a volte scontata in rime baciate, e passa altre volte per rime al mezzo o rime imperfette. O ancora, la presenza di iperbati, che cercano proprio nei momenti più «bassi» una certa solennità. Degli esempi: «scendendo dal predellino/l’autista dell’autobus»[23] oppure «Ma è questa?/Il prof di Bologna col pechinese/che lecca la polvere/dal finestrino»[24], o ancora «chi lo guida ‘sto pulmino?/S’offerse infine/l’istruttore di yoga di Asti,/che disse:/sapevo che un giorno/sarebbe servita/la mia passione per i/camionisti»[25], fino al geniale «cula comasca da discoteca» e alla chiusa della serie: «ci sarà l’acquagin?»[26].

Tirando quindi le somme della nostra ricognizione di questa raccolta, senza avere presunzione di esaustività, se ammettiamo che la poesia e le sue categorie ermeneutiche non sono mai rigidi steccati – specialmente se si parla di poesia contemporanea – possiamo dire della poesia di Annovi che è una poesia non (solo) lirica, non (solo) civile, non (solo) sperimentale, non (solo) metalinguistica: è tutte queste cose insieme, ed è per questo che, nelle costellazioni della poesia di oggi, è, secondo noi, non (solo) «stella variabile», ma «cometa».




[1] Laura Pugno, Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea, Milano, Il Saggiatore, 2021, p. 106.

[2] Andrea Cortellessa, «Campioni #1. Gian Maria Annovi» nella rubrica «Campioni», apparsa su «Doppiozero» il 20 marzo 2014: https://www.doppiozero.com/campioni-1-gian-maria-annovi.

[3] Franz Kafka, Confessioni e diari, Milano, Mondadori, 1996. La citazione viene da Antonella Anedda, nell’epigrafe a Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012.

[4] Riccardo Socci, Modi di deindividuazione, Milano, Mimesis, 2022.

[5] Gian Maria Annovi, Terza persona cortese: Reality in sette visioni, i miosotìs Vol. 25, Edizione Kindle, pos. 86.

[6] Su questo, Jonathan Culler, Theory of the Lyric, Cambridge, Harvard UP, 2015; e, anche, Paolo Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila, Roma, Carocci, 2017.

[7] Su questo, rimando di nuovo ad Anedda (che ha firmato l’Introduzione a Kamikaze e altre persone, la quarta raccolta di Annovi, uscita per Transeuropa nel 2010, e che quindi ha, col nostro poeta, un legame) e all’incipit del suo Catalogo della gioia (Donzelli, 2013): «Il catalogo elencando sceglie. In questo ci sono solo alcune lettere, solo alcune gioie. Chiunque, leggendo, può aggiungere o cancellare».

[8] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Minuit, 1975.

[9] Sono debitrice nell’uso di questo termine alla rubrica «Poetica more geometrico demonstrata» di Sonia Caporossi, apparsa su «Poesia del nostro tempo» dal 17.03.2021 al 16.12.24.

[10] Prendiamo in prestito la formulazione che fa Annovi sul titolo della sua prima raccolta, Denkmal. In Vincenzo Ostuni, Poeti degli anni zero, «L’Illuminista. Quadrimestrale di cultura contemporanea», n.30, anno X, 2010, p. 45.

[11] Gian Maria Annovi, Antiscoperta dei monti, in Discomparse, Torino, Aragno, 2023, pp. 81-105 : 98.

[12] Così lo definisce Annovi nel dialogo con Laura Pugno «Scrivere è convivere con una bestia immaginaria e selvaggia», apparsa su «Nuovi Argomenti» il 7 gennaio 2015: http://www.nuoviargomenti.net/poesie/dialogo-tra-gian-maria-annovi-e-laura-pugno-scrivere-e-convivere-con-una-bestia-immaginaria-e-selvaggia/).

[13] Gian Maria Annovi, Antiscoperta dei monti, in Discomparse, op. cit., 94.

[14] Rimanda ad Anedda: «Non esiste innocenza in questa lingua», in Antonella Anedda, Notti di pace occidentale, Donzelli, Roma, 1992, ora in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2023, p. 99.

[15] In Vincenzo Ostuni, Poeti degli anni zero, op. cit. p. 45.

[16] Gian Maria Annovi, La scolta, in Discomparse, op. cit., pp. 5-27: 15.

[17] Ivi, p. 25.

[18] Ivi, p. 20.

[19] Così le definisce Gilda Policastro, L’ultima poesia, Milano, Mimesis, 2021, p. 168.

[20] Georges Didi-Huberman, L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Éditions de Minuit, collection Paradoxe, 2002.

[21] Come, d’altronde, è stato sottolineato già da Laura Pugno, Andrea Cortellessa, Manuele Gragnolati e altre, in varie sedi.

[22] Secondo un’affermazione di Manuele Gragnolati durante un seminario: Italian Poetry Today | Gian Maria Annovi in dialogo con Manuele Gragnolati (26 maggio 2020), reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=a_pB0jssTns.

[23] Gian Maria Annovi, Visita alla città di Sodoma, in Discomparse, op. cit, pp. 55-80: 56.

[24] Ivi, p. 62.

[25] Ivi, p. 57.

[26] Ivi, p. 80.

 

 

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L’immagine in evidenza è di Francesca Coldebella Bergamin.

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