MM: Buongiorno Gian Maria, e grazie per la possibilità di questo dialogo. La prima domanda che vorrei farti si lega al tuo percorso come poeta. Mi chiedevo se ti andasse di tirare un po’ il filo della tua «appartenenza poetica», per così dire. In un’intervista con Laura Pugno (1) parlavi della poca fiducia che attribuisci al discorso sulle generazioni poetiche, tipicamente italiano, assente in America. Come ti poni rispetto all’ «astro esploso» di cui parlava Berardinelli? Pensi di far parte di una costellazione?
GMA: È molto difficile collocarmi all’interno di una mappa poetica. Proprio Laura Pugno, in un suo progetto recente, ha cercato di dare forma visiva alle costellazioni poetiche italiane di oggi, ma io non mi sento una stella fissa, piuttosto una stella variabile. Credo che ogni poeta emerga da un coro di voci, alcune molto vicine, altre lontane. Posso però dire che il poeta che per me ha segnato il punto di svolta è stato Andrea Zanzotto.
MM: Ti va di spiegarmi in che modo?
GMA: Sono nato e cresciuto in una località piccolissima, in provincia di Reggio Emilia. Scrivevo già quando ero alle superiori, e volevo far leggere a qualcuno una raccolta che avevo intitolato Maniké. Non sapevo a chi rivolgermi, era il 1996, credo, e internet non era ancora una possibilità. Ingenuamente, decido di andare a parlare con la bibliotecaria del mio comune e lei mi dice che la persona verso la quale avrebbe potuto indirizzarmi, purtroppo, era morta pochi anni prima. Era un’amica di Antonio Porta. Mi consiglia allora di rivolgermi a Piergiorgio Paterlini, che a sua volta mi raccomanda di mandare il dattiloscritto a Marco Belpoliti. È stato lui a consigliarmi l’editore L’Obliquo di Brescia, con cui ho pubblicato il mio primo libretto, che con quelle prime poesie, però, non c’entrava più niente.
Nel frattempo, infatti, avevo scoperto Zanzotto. Inizio a leggerlo, e mi convinco che sia il più grande poeta italiano vivente. In particolare, m’innamoro del Galateo in bosco, e inizio a sperimentare, per conto mio. Decido di inviargli alcune delle poesie che avrei poi raccolto in Denkmal. (2) L’indirizzo era sull’elenco del telefono… Pochi giorni dopo, tornato dalla scuola, mia madre mi passa il telefono dicendo che c’è un signore con un accento veneto che vuole parlarmi. Ero emozionatissimo. Zanzotto mi disse che la mia era «una poesia che ha del sangue». Aggiungendo che questo sangue rosso non doveva diventare grigio. Poi si è messo a darmi consigli sui singoli testi, insomma, mi ha fatto una specie di editing al telefono… tanto che si è anche auto-intitolato una poesia che gli avevo dedicato: «Metterei un asterisco che rende bene il senso di male impronunciabile che esprime la poesia». E così ho fatto.
.
*
forse tu rechi
lo stesso mio fiore
cicatriziale
la stessa polvere
sul cuore
lo stesso (spesso) nutrimento
scuro
il male che fa il
male il non dire
non fare parola
non fare-mai-più
la parola
che non basta e finisce
(non più quel fiore
non la radice) (3)
MM: Ricevere il primo «editing» da Zanzotto deve essere stato una grande emozione. E oltre a Zanzotto? Ci sono poeti della generazione degli anni ’50 con i quali senti una vicinanza?
GMA: Con Denkmal iniziava la mia poesia, ma si chiudeva anche il Novecento: era il 1998. C’era nell’aria l’idea della fine, che io ho tradotto in quei testi giovanili attraverso una sorta di ossificazione del verso e molte immagini di confine. A quel punto avevo letto Porta, e poi Amelia Rosselli, morta nel 1996. Ero abbastanza onnivoro in fatto di letture: anche Magrelli e Anedda sono stati autori che ho letto con passione.
MM: In effetti, ossa è parola aneddiana: c’è molto in Residenze invernali. (4)
GMA: Un’altra poetessa che leggevo parecchio è Mariangela Gualtieri. Ero molto interessato all’aspetto vocale, teatrale della poesia. Infatti, collaboravo anche con compagnie di danza. Anche Laura Pugno ha rappresentato per me un certo modo di fare poesia. Era inclusa anche lei nell’Opera comune, la prima antologia in cui sono usciti alcuni miei testi. Ero a Barcellona, in Erasmus, e le ho mandato un’email, spiegandole che sentivo nei sui confronti una «sorellanza poetica». La sua era una pronuncia nuova.
MM: Anche in Denkmal, che è una prima prova dei tuoi vent’anni, c’è già un aspetto innovativo, no? Una sintonia, ad esempio, tra il lavoro tipografico e l’idea che vuoi trasmettere. Se prendiamo l’ultima parte, “MAIUSCOLE (da dirsi in piedi)”, dove c’è anche la vocazione teatrale di cui parlavi prima…
GMA: Certo. La pagina per me è sempre stata in primis qualcosa di fisico, di visivo. Per esempio, in Denkmal, ero ossessionato dall’allineamento delle parole. Anche MAIUSCOLE è frutto di un trip visivo-concettuale. Oggi scrivere in maiuscolo viene equiparato all’urlo, ma all’epoca non esisteva questa associazione. Tuttavia, mi sembrava che la maiuscola s’erigesse e indurisse sulla pagina in un parallelo all’invito al lettore di alzarsi e leggere in piedi quei testi così violenti. Insomma, l’aspetto tipografico voleva esprimere anche qualcosa di fisico.
MM: Mi vengono in mente Cor, nell’ultima raccolta, Discomparse (5), e l’uso che fai del corsivo in Italics, che si trova spesso in corrispondenza di parole che hanno un legame tra una lingua e un’altra: lampante il caso di cunîn, di cui magari parliamo più tardi. Questa operazione mi ha ricordato il saggio di Cavarero – peraltro uscito lo stesso anno di Italics, il 2013 – Inclinazioni (6), nel quale la filosofa mostra come ad un io classico della tradizione filosofica, maschile, integro, coeso, razionale, autoreferenziale, non soggetto insomma alle inclinazioni «pericolose» che sono tradizionalmente le passioni, ma retto e chiuso in se stesso, si possa affiancare invece un io che si «sporge» sull’altro, che si pone in una posizione sbilanciata, quindi vulnerabile. In Italics sembra quasi che una parola si inclini sull’altro, tipograficamente e concettualmente.
GMA: Per quanto riguarda l’anomalia tipografica di Cor, in cui immagino una Cordelia moderna in stato vegetativo, dietro c’è l’idea del monitor cardiaco che produce un segnale regolare – un bip. Ho provato a riprodurlo con quella «E» staccata dal corpo del testo, che va immaginata come ritmica, distaccata e sempre uguale, anche nella lettura. È quel suono che congiunge la protagonista comatosa alla vita. La congiunzione è Cordelia stessa ridotta a mero organo, cor, appunto:
–
se muove la nave
delle tue ciglia – E
se l’aria si alza – E
se sgorga dai tubi
di plastica – E
devasta.
MM: Una parte del testo, Supplica al parassita, era uscita nel 2020 sul numero del Verri, La poesia fa male. (7)
GMA: Sì, me l’aveva chiesto Milli Graffi: voleva una cosa sull’invettiva. Il testo è uscito lì, ma io avevo iniziato a scrive Cor anni prima! Mentre ero a Los Angeles, in macchina, stavo ascoltando una trasmissione radiofonica in cui un neuropsichiatra parlava, appunto, della differenza tra la morte celebrale e la morte cardiaca, in un’ottica di storia della medicina. E mi è venuta in mente la scena in cui Lear controlla con uno specchio se Cordelia respira ancora. Oggi verrebbe attaccata a dei macchinari…
MM: Leggendo il testo oggi, dopo il caso Englaro e il dibattito sul fine vita ancora molto attivo nel nostro paese, è un testo che assume una forza politica enorme. Se mettiamo questo testo vicino agli altri contenuti in Discomparse, specialmente gli Estratti, ci rendiamo conto della forte valenza politica della tua raccolta.
GMA: Anche la dimensione del postcoloniale, una tema non frequente nel panorama poetico italiano, e il modo in cui ho provato ad affrontarla, va letta in quel senso.
MM: Questo avviene, credo, già in Italics (8), oltre che ne La scolta. Anche lì siamo davanti ad un discorso di meticciato, oltre che ad una riscrittura di Shakespeare. C’è una poesia che va oltre-frontiera, una poesia che è ibrida da un punto di vista linguistico, tematico, stilistico… potremmo forse dire, una poesia-mondo?
GMA: Assolutamente. Anche dal punto di vista mediale. Ci sono due incontri che hanno cambiato la mia maniera di vedere la creazione artistica quando ero ancora molto giovane. La mostra Rites of Passage: Art for the End of the Century, che ho visto più volte alla Tate Gallery nel 1995, dove ho scoperto Louise Bourgeois, Mona Hatoum, Bill Viola, Pepe Espaliu… tutti artisti che lavoravano molto sul corpo. E lo spettacolo di danza, dello stesso anno, Eidos: Telos di William Forsythe, che poi ho conosciuto e visitato anche a Francoforte. Una pietra miliare della mia formazione. È in quel contesto che ho iniziato a concepire i testi in maniera installativa. La corporalità della mia poetica veniva dalla danza. Anche questa dimensione ibrida rientra nella poesia-mondo.
MM: Sono d’accordo, è sicuramente un aspetto importante. Una specie di meticciato intermediale. Mi interessava approfondire l’aspetto della marginalità dei personaggi di Discomparse – e in generale della tua produzione – che a più riprese tu definisci «svociati», cioè impossibilitati alla parola, anche da un punto di vista mediatico, se pensiamo agli Estratti. Come reinterpretiamo questa marginalità? Possiamo chiamarla anche «vulnerabilità»? E come può la poesia interpretarla?
GMA: La poesia nella società non ha nessun potere. Quale arte è più marginale, oggi, della poesia? La poesia stessa è svociata. Quindi la marginalità è anche quella del poeta. Tutte le sezioni di Discomparse, che io chiamo «serie», possono leggersi come testi metaletterari, che parlano della poesia, o come testi che affrontano delle tematiche sociali, culturali… Per esempio, La scolta parla sì, di una badante, ma anche del problema della lingua: del nostro «paralizzato italiano» (9). La scolta è un poeta novo, per dirla con Dante, che crea una lingua scardinata, ma nuova. Anche i Self-eaters (10) parlano della poesia, dell’arte, ma anche del razzismo, della migrazione. Gli svociati sono tutti questi altri io: non il mio io di bianco occidentale. In Discomparse, non a caso, compare due volte l’ingiunzione: «parlo io /tu taci». (11)
MM: L’io che tu uccidi, in Terza persona cortese, è forse quello: bianco, maschile, occidentale…
GMA: Sì. Infatti Terza persona cortese gioca con l’ambiguità di genere: al principio non si capisce, in virtù del Lei, la persona cortese, appunto, se i due personaggi sono maschili o femminili. C’è uno scardinamento del soggetto lirico tradizionale, e, se vogliamo, un accenno allo Shakespeare dei sonetti per il «fair youth». In Terza persona cortese ho voluto scardinare una convenzione di genere, e, soprattutto, rivelare il masochismo della tradizione lirica. L’io è una costruzione, un sistema di maschere, di relazioni, come ne La scolta, che è nata a Los Angeles, su una panchina, e stavo ascoltando due signore che facevano le pulizie negli edifici scolastici e parlavano questo broken english, un inglese spagnoleggiante, bellissimo, vivo. Mi sono chiesto come avrei potuto tradurlo in italiano.
MM: È un’operazione che mi sembra molto ben riuscita, è proprio l’effetto che si ottiene quando la si legge. Scrivere nella lingua de La scolta è stata anche un’operazione rischiosa, no?
GMA: Sì. Sapevo che c’era il rischio dell’effetto parodico. Per questo non ho imitato, ma ho cercato di creare una lingua poetica, una lingua nel suo farsi: da poiesis. È la stessa ragione per cui ho deciso di cambiare i titoli dei quadri di Estratti usando non nomi propri, ma i nomi di etnie africane. Non volevo ripetere il gesto che critico in Antiscoperta dei monti, cioè dare il nome, gesto colonialista per eccellenza. Quelle persone nere rappresentate nei quadri hanno un nome che io non posso sapere, una lingua che non posso conoscere: è avendo questa consapevolezza, e mettendola in pratica, che rispetto la loro alterità di soggetti.
MM: Mi sembra che Discomparse rappresenti un po’ una summa di tutti questi aspetti: la poesia come installazione, l’aspetto inventivo del linguaggio, la stessa corporeità della parola (penso alla respirazione in Cor), e i personaggi «minori», che prendono il posto di un io lirico eclissato.
GMA: Discomparse è il libro più rappresentativo del percorso che ho fatto fino ad ora. Per me è un punto d’arrivo. Le altre cose che ho pubblicato, Terza persona cortese o Kamikaze (12), o La scolta stessa, erano un po’ le «frattaglie» di un progetto di libro mai pubblicato, Secondo persona. Sono plaquettes, non libri. In Kamikaze, tra l’altro, ho sofferto molto per via dell’auto-traduzione…
MM: Volevo arrivarci! Tu le chiami versioni, nella Nota al testo. E mi chiedevo, anche in virtù di tutte queste rielaborazioni di Shakespeare: quanto la traduzione è alla base del tuo processo creativo? Quanto la traduzione si collega all’uccisione dell’io?
GMA: È una domanda difficile. Partiamo da Kamikaze: la collana era bilingue, ma siccome nei miei testi c’era un lavoro enorme sul significante non volevo darli in mano a nessun altro; ci avevo messo troppo per farli funzionare. Per questo ho deciso di tradurli io. Sin dall’inizio sapevo che non li avrei tradotti alla lettera, ma che avrei provato a riprodurre alcune soluzioni fonetiche e linguistiche, che per me erano la cosa più importante.
MM: Un esempio: the mind mined – il mondo bombato (13). La traduzione varia il testo originale, ma l’immagine di un’esplosione che sta per avvenire o che sta avvenendo è la stessa. Decisamente perturbante.
GMA: Nonostante le mie traduzioni siano più o meno grammaticalmente corrette, per un madrelingua suonano comunque strane. Sono traduzioni inglesi che «funzionano» in un contesto italofono, non anglofono: per questo le ho chiamate versioni, partendo proprio dall’idea di verso animale, che esprime senza significare. In questo senso sono testi doppi, riscritture, perché sia in italiano che in inglese la lingua è sottoposta a una forte pressione. Come altro mantenere l’idea di un testo-kamikaze che si sfalda? Che si distrugge da solo?
MM: Rispetto a questo, penso all’inizio di Italics, alla serie che si intitola TT Duet: The Tempest in LA. Lì c’è un punto di vista sempre italofono, dove le parole inglesi sono scritte in corsivo.
GMA: Se vogliamo fare un parallelo – che, ovviamente, non è un parallelo qualitativo, perché parliamo di una grandissima poetessa – pensavo a certe operazioni della Rosselli nelle sue auto-traduzioni, a volte molto lontane dal testo originale. Anche le sue poesie in inglese suonano un po’ strane, ma proprio per l’idea di mantenere l’impressione di operare una lingua straniera. In effetti, anche in TT Duet ci sono numerosi giochi di parole tra inglese e italiano. TT Duet è un altro testo che non sapevo bene se pubblicare o meno: infatti ho iniziato a scriverlo nel 2002, a Los Angeles, e l’ho pubblicato solo nel 2013. È un testo sull’11 settembre. Nel titolo c’è sempre la componente visivo-concettuale tipografica di cui parlavo prima: TT corrisponde alle iniziali di The Tempest, ma le due T evocano anche le due torri, le iniziali delle Twin Towers, così come la parola inglese duet, in italiano, diventa numero e lettera: due T.
MM: A proposito delle Torri Gemelle, penso alla serie 9/10 alla fine del libro, in cui la prospettiva cronologica è inversa.
GMA: Sì. In quel caso ho immaginato cosa stava succedendo alla stessa ora dell’impatto degli aerei, il giorno prima della distruzione delle Twin Towers, il 10 settembre 2001. C’è una regressione temporale: l’idea era sempre di scardinare la prospettiva, di far vedere le cose in maniera obliqua: a proposito di Inclinazioni di Cavarero.
MM: Inclinazioni come clinamen, no? Quel moto deterministico degli atomi descritto da Democrito e poi da Lucrezio nel De rerum natura. Da un punto di vista tematico, l’ibridazione dei tuoi testi passa anche attraverso il mare. In Italics ci sono molte isole. Ellis Island, l’Isola dei Conigli, Lampedusa, la Sicilia, New York stessa. Trovo che ci siano proprio i temi e le forme per parlare di una prospettiva arcipelagica: sono tutte isole, connesse tra loro con un nesso spazio-temporale vario; per storia, etimo, colonizzazione.
GM: D’altra parte i testi di Italics sono racchiusi tra due coste, quella di Los Angeles in TT e quella di New York in 9/10. Luoghi di approdo. In questo senso, tornando anche al tema della traduzione, nel poemetto La gloriola, ad esempio, c’è uno dei miei senhal linguistici, la parola cunîn, che ricompare anche ne La scolta. Nel mio dialetto cunîn significa «coniglio», ed è parola che declino in modi diversi nel pometto: Coney Island, dall’olandese Konjn (coniglio), rabbit. D’altronde, per me, l’ibridazione è proprio questo: trovare in una parola lo spettro di un’altra lingua, di un’altra cultura. Nel passaggio da cunîn a Coney Island, come dici, si passa anche per l’Isola dei conigli, di fronte a Lampedusa: tutto il libro è giocato sulla relazione tra sponde: l’ultima costa italiana, Lampedusa, e la prima costa americana, New York. Jean Charles Vegliante, che ha tradotto Impromptu della Rosselli in francese (14), e ha tradotto anche la Gloriola (15), ha scritto in una nota che vedeva in quel passaggio un esempio perfetto di traduzione intralinguistica.
In questo passare da una sponda, all’altra, da una lingua all’altra, non ci sono solo i migranti di oggi e di ieri, ci sono anch’io: un migrante privilegiato. Lo straniamento resta lo stesso, ed è quello che evoco all’inizio di Italics: il risvegliarsi dopo una tempesta, un naufragio, in una terra che non si conosce.
(1) Scrivere è convivere con una bestia immaginaria e selvaggia. Dialogo tra Gian Maria Annovi e Laura Pugno, uscito su “Nuovi Argomenti” il 7 gennaio 2015. Consultabile a questo link.
(2) La prima raccolta di Annovi: Denkmal, L’Obliquo, Brescia, 1998.
(3) Gian Maria Annovi, Denkmal, L’Obliquo, Brescia, 1998, p. 13.
(4) Antonella Anedda, Residenze invernali, Crocetti, Roma, 1992.
(5) Gian Maria Annovi, Discomparse, Aragno, Torino, 2023.
(6) Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2013.
(7) La poesia fa male, «il Verri», n. 72, febbraio 2020, p. 44
(8) Gian Maria Annovi, Italics, Aragno, Torino, 2013.
(9) Gian Maria Annovi, Discomparse, op. cit., p. 25.
(10) Oggi in Gian Maria Annovi, Italics, op. cit.
(11) Gian Maria Annovi, Discomparse, op. cit., p. 114 e p. 36 con variazione: parlo io –dice–/tu taci.
(12) Gian Maria Annovi, Kamikaze e altre persone, Transeuropa, Ancona, 2010.
(13) Gian Maria Annovi, Kamikaze e altre persone, op. cit., p. 13.
(14) Edizione trilingue di Impromptu, a cura di Gian Maria Annovi (traduzione francese di Jean-Charles Vegliante, traduzione inglese di Gian Maria Annovi e Diana Thow), Guernica, Toronto, 2014.
(15) Disponibile al link.
Per scaricare l’articolo in pdf clicca qui.
L’immagine di copertina è di Francesca Coldebella Bergamin.





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